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venerdì 7 agosto 2009

Sredni Vashtar

Come dicevo nel mio ultimo post, mi sono improvvisato traduttore. In fondo, visto che ho una laurea in lingue e letterature straniere che non riesco a sfruttare nel mondo del lavoro, perché non provare almeno a farla fruttare nelle mie "inutili" ambizioni letterarie?
H.H. Munro é uno scrittore inglese poco noto in Italia. Scriveva soprattutto racconti brevi permeati di un sottile "british humour", spesse prendendo in giro la buona borghesia dei primi del 1900. In molti casi riesce ad essere perfido, talvolta persino inquietante... Questo é un ottimo esempio.
N.B.: la mia traduzione é "letteraria" più che "letterale". Sono sempre stato dell'idea che la narrativa non é un manuale di istruzioni, quindi si possono fare delle piccole modifiche, ovviamente senza stravolgere nulla e mantenendo intatta la struttura e il senso dell'originale.

SREDNI VASHTAR di Hector Hugh Munro “Saki” – traduzione di Ariano Geta

Conradin aveva dieci anni, ed il dottore aveva espresso la sua professionale opinione secondo la quale il ragazzo non sarebbe sopravvissuto per altri cinque. Il dottore era un damerino smidollato, e la sua opinione contava poco, ma era stata approvata dalla Signora De Ropp che contava moltissimo. La Signora De Ropp era cugina e tutrice di Conradin, ed ai suoi occhi ella rappresentava quei tre quinti del mondo che sono necessari, spiacevoli e reali. Gli altri due quinti, in perenne antagonismo coi precedenti tre, si riassumevano con: se stesso e la sua immaginazione.
In quei giorni Conradin supponeva che avrebbe finito col soccombere di fronte all’efficiente pressione delle cose noiose e necessarie (tipo malattie, restrizioni alle cose piacevoli, e una prolungata monotonia). Senza l’aiuto dell’immaginazione, che cresceva in lui stimolata dalla solitudine, sarebbe crollato già da un pezzo.
La Signora De Ropp non avrebbe mai ammesso con se stessa (neppure nei suoi momenti di maggiore onestà) che a lei Conradin non piaceva. Comunque era quasi certamente consapevole che mettere dei freni a quel ragazzino “per il suo bene” era un dovere che non le risultava per niente fastidioso…
Conradin la odiava con una disperata sincerità, che sapeva mascherare alla perfezione. I pochi sollazzi che riusciva ad escogitare acquisivano un ulteriore piacevolezza grazie al prevedibile fastidio che avrebbero arrecato alla sua tutrice. E poi la teneva fuori dal suo mondo immaginario: lei era una cosa impura e non ne avrebbe mai scovato l’accesso.
Il cupo e deprimente giardino non offriva molte attrattive. Era sovrastato da innumerevoli finestre sempre pronte ad aprirsi per urlargli raccomandazioni tipo: “non fare questo”, “non fare quello”, o “è ora di prendere le medicine”... I pochi alberi da frutto erano tenuti gelosamente fuori dalla portata delle sue manine, come se fossero rari esemplari della loro specie sbocciati in un arido deserto (anche se sarebbe stato difficile trovare un fruttivendolo disposto a pagare dieci scellini per la loro intera produzione annuale…)
Tuttavia c’era un angolo dimenticato, quasi nascosto dietro alcuni arbusti malridotti, in cui si trovava un capanno per gli attrezzi inutilizzato e abbastanza ampio. Le sue pareti erano per Conradin un rifugio, un luogo che poteva cambiare forma da “stanza dei giochi” sino a “cattedrale”. Egli lo aveva popolato con una legione di fantasmi a lui famigliari, evocati in parte dai libri di Storia ed in parte dalla sua mente, ma il capanno poteva vantare anche due reclusi in carne ed ossa.
In un angolo viveva una spennacchiata gallina houdan, sulla quale il bambino riversava tutto il suo affetto non avendo praticamente altri soggetti cui destinarlo. Un po’ più in là, nel buio, si trovava una conigliera divisa in due parti, una delle quali aveva delle fitte sbarre frontali. Era la dimora di un grosso furetto che un amichevole garzone di macelleria aveva furtivamente introdotto nel capanno, con gabbietta e tutto il resto, ricevendo in ricompensa qualche pezzo di argenteria…
Conradin era terribilmente impaurito da quella bestiola flessuosa coi dentini aguzzi, eppure essa costituiva il più prezioso dei suoi possedimenti. La sua presenza nel capanno era una fonte di gioia segreta che gli dava i brividi, e la teneva scrupolosamente nascosta alla “Donna” (così aveva privatamente soprannominato sua cugina). Un giorno aveva inventato un nome per la bestiola, basandosi su elementi che il Cielo soltanto può conoscere, e da quel momento il furetto era divenuto per lui un dio ed una religione.
La Donna si concedeva un po’ di religione una volta a settimana, in una chiesa nei paraggi, e si portava dietro Conradin, ai cui occhi però la messa appariva un rito alieno celebrato in un tempio pagano. Ogni giovedì, nel silenzio flebile e stantio del capanno, egli praticava il suo personale culto con un elaborato e mistico cerimoniale di fronte alla conigliera in legno dove risiedeva Sredni Vashtar, il Gran Furetto. Fiori rossi quando erano di stagione, e bacche scarlatte in inverno, venivano dati in offerta al suo tempio. La bestiola era un dio che dava particolare importanza alla feroce impazienza, all’opposto della religione della Donna che, secondo quanto Conradin aveva potuto constatare, andava di gran lunga nella direzione contraria. Per le grandi celebrazioni veniva sparsa della noce moscata davanti alla conigliera (per la riuscita del rito era fondamentale che la noce moscata fosse stata rubacchiata di nascosto). Tali celebrazioni avevano cadenza irregolare, e venivano proclamate per il festeggiamento di un evento importante. Quando la Signora De Ropp ebbe un forte mal di denti che la tormentò tre giorni, per l’esatta durata di questi tre giorni Conradin eseguì le celebrazioni, riuscendo quasi a convincersi che Sredni Vashtar fosse il responsabile del mal di denti. Se fosse durato un solo altro giorno, le scorte di noce moscata si sarebbero esaurite.
La gallina non venne mai coinvolta nel culto di Sredni Vashtar. Conradin aveva stabilito già da un bel pezzo che essa era anabattista. Lui non aveva la benché minima pretesa di sapere cosa fosse un “anabattista”, ma sperava in cuor suo che fosse fascinoso e assai poco rispettabile. La Signora De Ropp costituiva il suo modello di “rispettabilità”, pertanto lui detestava tutte le cose rispettabili…
A un certo punto l’interesse di Conradin per il capanno degli attrezzi cominciò ad attrarre l’attenzione della sua tutrice. “Non è bene per lui bighellonare in quel posto sia quando c’è il sole che quando fa cattivo tempo” aveva prontamente sentenziato, e un mattino, durante la colazione, aveva annunciato a Conradin che la gallina era stata venduta e portata via durante la notte. Coi suoi occhietti miopi aveva poi squadrato da capo a piedi il bambino, aspettandosi uno scoppio d’ira o di pianto che era pronta a reprimere con un mare di argomenti validi e ragionevoli. Ma Conradin non disse nulla, perché non c’era nulla da dire. Il suo volto pallido provocò forse un momentaneo rimorso alla Signora De Ropp, fatto sta che all’ora del tè pomeridiano c’era un toast a tavola, una prelibatezza che lei aveva proibito sostenendo che gli faceva “male” (e poi anche perché la preparazione di un toast creava caos in cucina, un crimine mortale agli occhi della donna borghese media).
“Credevo che ti piacessero i toast”, aveva esclamato con aria offesa quando si era accorta che lui non lo aveva neppure toccato.
“Qualche volta”, gli aveva risposto Conradin.
Quella sera venne introdotta un’innovazione nel culto del dio-della-conigliera. Conradin abitualmente gli rivolgeva delle preghiere, stavolta invece chiese una grazia.
“Fa una cosa per me, Sredni Vashtar”.
La “cosa” non venne specificata. Visto che Sredni Vashtar era un dio, avrebbe dovuto capire da solo quale fosse. E mentre sospirava pesantemente fissando l’angolo vuoto che prima ospitava la gallina, Conradin ritornò nel mondo esterno che così tanto odiava. Ed ogni notte, nella bramata oscurità della sua camera da letto, ed ogni sera, nella semioscurità del capanno, ripeteva la sua amara litania: “Fa una cosa per me, Sredni Vashtar”.
La Signora De Ropp si accorse che le visite al capanno non erano cessate, e forse era il caso di fare un’ulteriore ispezione…
“Cosa nascondi nella conigliera?”, aveva domandato al bambino. “Scommetto che sono porcellini d’India. Li farò sparire tutti!”.
Conradin non disse una sola parola, ma la Donna mise sottosopra la sua stanza e alla fine riuscì a scoprire il posto in cui la chiave del capanno era stata maldestramente occultata, e a passo di marcia si diresse verso il capanno per aggiungere l’ultimo tassello al mosaico delle sue scoperte…
Era un pomeriggio freddo, e a Conradin era stato ordinato di non uscire di casa. Dalla finestra della sala da pranzo si intravedeva l’ingresso del capanno mezzo nascosto dagli arbusti, e il bambino non poté fare a meno di affacciarvisi. Vide la Donna entrare, e poi la immaginò mentre apriva la porta della sacra conigliera, coi suoi occhietti miopi che scrutavano la paglia ammassata dove era nascosto il dio. Forse la sua goffa impazienza l’avrebbe spinta a dare dei colpetti malevoli alla lettiera…
E Conradin ripeté la sua fervente preghiera per l’ultima volta. Ma mentre pregava sentiva di non riuscire più a credere. Sapeva che la Donna sarebbe uscita fuori dal capanno con quel sorrisetto vomitevole che lui odiava, e che nel giro di un paio d’ore il giardiniere si sarebbe portato via il suo meraviglioso dio, non più un dio ma un semplice furetto dentro una conigliera. E sapeva che la Donna l’avrebbe sempre avuta vinta come la stava avendo vinta in quel momento, e che lui si sarebbe ammalato sempre di più dovendo subire la sua autorità così irritante, prepotente e sagace, fino al giorno in cui non ci sarebbe stato più nulla da fare per lui, dimostrando così che il dottore aveva ragione a dire che gli restavano al massimo cinque anni di vita… E sentendosi addosso il bruciore doloroso della sconfitta, cominciò ad intonare ad alta voce e senza paura l’inno del suo idolo minacciato dal male:
Sredni Vashtar è partito,
I suoi pensieri erano rossi e i suoi denti erano bianchi.
I suoi nemici invocarono la pace, ma egli diede loro la morte.
Sredni Vashtar il meraviglioso.
E poi interruppe all’improvviso il suo canto e si avvicinò al vetro della finestra. La porta del capanno era rimasta socchiusa dal momento in cui la Donna era entrata, e i minuti passavano… Erano minuti lunghissimi, e tuttavia scorrevano. Intanto osservava gli storni che volavano e sfrecciavano in piccoli gruppi lungo il prato. Li contò e li ricontò più volte, tenendo sempre un occhio fisso sulla porta. Una cameriera dalla faccia acida entrò a preparare la tavola per il tè pomeridiano, ma Conradin rimase in piedi, in attesa, con lo sguardo fisso fuori… A piccoli passettini la speranza si stava facendo strada nel suo cuore e, infine, la luce del trionfo illuminò i suoi occhi che sino a quel momento avevano conosciuto solo la malinconica pazienza della sconfitta. Mantenendo nascosta la sua esultanza, tra un respiro e l’altro ricominciò a intonare il cantico della vittoria e della devastazione del suo idolo. E i suoi occhi stavano ammirando la ricompensa tanto attesa: dal capanno fuoriuscì una bestiolina bassa e allungata di colore giallo-bruno, con gli occhi tremolanti di fronte al chiarore morente del giorno, e piccole macchiette sul pelo sotto la mandibola. Conradin si mise in ginocchio mentre il furetto si avvicinava al ruscello artificiale del giardino, restando sorpreso per un attimo ma scovando subito una tavola che poteva fungere da ponte, grazie alla quale raggiunse un cespuglio dove scomparve. Queste furono le gesta di Sredni Vashtar.
“Il tè è pronto”, fece sapere la cameriera con la faccia acida. “Dove è la Signora?”.
“E’ scesa giù nel capanno in giardino, qualche minuto fa” rispose Conradin.
E mentre la cameriera andava ad avvisare la Donna che il tè era servito, Conradin rimediò una forchetta da toast nella credenza e iniziò a prepararsene uno da solo. E mentre lo abbrustoliva, e ci spalmava sopra tanto burro per poi mangiarlo lentamente gustandosi ogni boccone, ascoltava tutti i suoni concitati che provenivano al di là della porta della sala da pranzo. Le rumorose urla della cameriera, il coro di risposte sconcertate dalla cucina, il rimbombare di passi per tutta la casa e le richieste di aiuto ai vicini, e per ultimo, dopo una pausa di silenzio, i lamenti e i rumori goffi di chi stava trasportando in casa un fardello molto molto pesante…
“Chi glielo dice al bambino? Io non ci riesco, non ce la faccio!”, sibilò una voce stridula. E mentre discutevano su chi dovesse dargli la notizia, Conradin iniziò a prepararsi un altro toast…

2 commenti:

  1. grazie alla tua traduzione sono riuscita ha fare una parte dei miei comopiti, ovvero rispondere alle domande relative a sei brani di saki, io sono al primo anno di scientifico e la nostra prof ci ha dato un libro di 3^-4^, ti sarei molto grata se prossimamente potessi tradurmi anche le altre storie(the open window, the lull, the quince tree, the dreamer the lumber-room)sono tutte di saki. grazie in anticipo e buona fortuna x il lavoro

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  2. potresti tradurre the lumber room. grazie in anticipo, sei bravissimo

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