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martedì 24 gennaio 2012

Rarità - 3

Lo scrittore Roberto Arlt (1900-1942) è stato uno degli autori più influenti nell'Argentina moderna. Il suo romanzo più famoso, El juguete rabioso, è stato tradotto in diverse lingue compreso l’italiano. Ma Arlt ha scritto altre opere, ed era inoltre giornalista, e molti suoi articoli di fondo sono ancora oggi ripubblicati in raccolte antologiche. In effetti la loro vividezza nel saper descrivere la vita quotidiana a Buenos Aires negli anni ‘30 é letteraria più che giornalistica.
Questo articolo che propongo di seguito, pubblicato sul quotidiano El Mundo il 21 marzo del 1929, esprime benissimo l’ “argentinità”, il modo di essere tipico degli abitanti del grande paese sudamericano, ovvero l’attitudine alla passionalità estrema temperata da una sorta di malinconia latente. L’articolo in questione – apparentemente – non era mai stato tradotto in italiano.

ADDII
Sere fa, accompagnando un amico alla stazione ferroviaria Pacìfico, mi è capitato di assistere a una scena singolare che mi ha fatto pensare che, unendola a un’altra che ricordo, ci si può scrivere un articolo.
Questo è il fatto:
Un uomo e una donna. La donna sui trent’anni; lui aveva l’aria di un commesso viaggiatore, o di chi deve cambiare città, o forse qualcosa di peggio. Vai a sapere cosa! Comunque stavano discutendo. Lui, come si dice abitualmente, faceva il conto alla rovescia controllando quanti minuti mancavano perché il treno partisse. La donna aveva qualcosa da recriminare. Capivo che ce l’aveva con lui perché noi uomini sfoderiamo sempre un certo sorrisetto cinico quando una donna ci dice, con le lacrime agli occhi, che siamo canaglie o mascalzoni.
Perché un uomo sorride così? Non so spiegarmelo. Però basta che la donna incominci un discorso in tono tragico perché nasca questa gran voglia di ridere; ridere non della donna, ma della figura ridicola che si sta facendo davanti agli altri: passano, spalancano la bocca e guardano con occhi sdegnati, come se fosse un crimine far piangere una donna.
Dunque…
Ebbene, quella sconosciuta piagnucolava, e l’uomo si limitava a dire le frasi banali che sono quasi obbligatorie quando ci si vuol togliere un dente cariato... Sì: io scorgevo nello sconosciuto questo atteggiamento di soddisfazione occulta, e la donna se ne rendeva conto a sua volta; se ne rendeva conto così bene che all’improvviso ha cominciato ad agitare le mani, a dire cose che – mi ci giocherei la testa – saranno state tipo:
“Tu sei uno spudorato. Mi avevi fatto delle promesse, e adesso te ne vai. Te ne vai, e io mi ucciderò. Sì: mi ucciderò. Non amerò mai più nessun altro…”
“Beh, tesoro: in effetti se ti ammazzi come potresti amare un altro?”
“Sta zitto! Sei cinico… L’uomo più spregevole che io abbia mai conosciuto…”
“Ah, quindi ne hai avuti altri…”
Come si può capire, un dialogo di questo genere non può prolungarsi più di tanto senza che la donna non arrivi a minacciare di svenire o di provocare uno scandalo. È a quel punto che lo sconosciuto sorrideva. Sorrideva con un sorriso doloroso, gioviale, cinico, mentre i suoi occhi dicevano, più o meno:
“Lo vedete? Io non ho colpa. Però che devo fare? Lo sapete che le donne sono fatte così…”
Quando, infine, gli ultimi fischi del capostazione annunciarono che il treno stava partendo, l’uomo respirò. La donna cominciò a piangere a dirotto mentre lui, approfittando del lento movimento dei vagoni, si congedava con le ultime bugie consolatorie. Ma lei girò la testa senza rispondere, e io invece riuscivo a vedere il volto dell’uomo che sorrideva pregustando il sollievo della lontananza.
Un bacio
Una scena che non dimenticherò mai – e sono già passati diversi anni – è stata questa:
Mi trovavo in un vagone del convoglio che va da Córdoba a Río Cuarto. Mancavano tre minuti alla partenza del treno quando arrivò una soubrette che si era esibita nel teatro di quella città. La accompagnava l’impresario teatrale, e all’improvviso, davanti a tutti i passeggeri, l’uomo afferrò la testa della donna e le diede un bacio. Ma era un bacio lungo, disperato; un bacio in cui si intravede l’elevazione dell’anima verso un sollievo che però è destinato a concludersi. Noi tutti passeggeri eravamo perplessi, accusavamo una sensazione quasi dolorosa.
Poi il treno partì.
Quarantotto ore dopo, a Río Cuarto, mentre sto in un caffè, afferro un quotidiano del giorno prima. Lo leggo e di colpo resto paralizzato. Il giornale riportava la notizia del suicidio dell’impresario del teatro dove si era esibita la soubrette. Ho lasciato stare il quotidiano e mi sono messo a riflettere. Adesso si capiva il senso di quel bacio. L’uomo, mentre si recava alla stazione, sapeva che era l’ultima, l’ultima e definitiva volta in cui avrebbe guardato e baciato quel volto che in chissà quante altre città avrebbe ancora sparso la sua vita libera fatta di musica.
E all’improvviso questo spettacolo prese talmente vita nella mia immaginazione che per tantissimo tempo non riuscì a separarlo dai miei ragionamenti. Avevo assistito agli ultimi momenti di vita di un suicida, di un uomo che non aveva lasciato nessun messaggio scritto e apparentemente non aveva motivi per suicidarsi.
Tristezza degli addii
Il fatto è che non c’è niente di più triste degli addii. Soprattutto in certe stagioni e periodi dell’anno.
Qualcuno rimane e qualcuno parte.
Il piccolo corteo che cerca di rendere piacevoli gli ultimi momenti di un malato alla stazione. La ragazza che parte per la cordigliera. Le amiche che la guardano, a metà fra il costernato e il curioso, gli sconosciuti che passano e si soffermano a osservare un volto bagnato dalle lacrime. Fischi di treni che arrivano e partono; tumulto di folla; sibili di vapore che sono come un forte inno di vita, mentre il povero essere umano accovacciato sul sedile comprende che la vita sfugge alle sue speranze.
Tristezza degli addii fra grandi tratti d’ombra e luci verdi e rosse; fazzoletti che battono con rassegnazione su braccia oblique; teste che si affacciano al finestrino sino a quando il convoglio scompare nelle luccicanti curve delle rotaie, la sola cosa visibile nell’oscurità della notte; il fanale che oscilla per un attimo e scintilla. E poi ombra, non più rumori, non più luce, non più stridore. E la vita che continua col suo ritmo di sempre…

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