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martedì 31 luglio 2012

Super Ariano

É giunto il mio turno. La round robin  2 Minuti a Mezzanotte ha bisogno di me. Col mio esclusivo super-potere dell'Immensa Mediocrità farò cadere nel sonno profondo tutti coloro che leggeranno il mio capitolo / contributo alla causa. La Noia invaderà la catena scrittoria, l'interesse attorno al progetto crollerà.
Riuscirà l'autore del successivo capitolo a risollevare le sorti del romanzo collettivo?...

mercoledì 25 luglio 2012

Alessandro il Grande

Doverosa emersione dal mio letargo estivo per complimentarmi con Alessandro Forlani che ha appena vinto due prestigiosi premi letterari (con conseguente pubblicazione sulla collana Urania) per un suo romanzo che io ho conosciuto ante-litteram ... (fate conto che sto strizzando l'occhio in direzione di Alessandro).
Meritato riconoscimento per la sua bravura, e grande soddisfazione anche per tutti noi bloggers scribacchini che lo frequentiamo sulla blogosfera e sappiamo, già da molto prima degli addetti ai lavori, quanto lui sia talentuoso.
Ave Alexandrum!

mercoledì 18 luglio 2012

Summertime blog

L'estate è una stagione che adoro, anche se quest'anno alcune situazioni personali la renderanno meno spensierata del solito.
Comunque sia, in questo periodo dell'anno la mia mente tende a rilassarsi, a instupidirsi oltre i normali limiti, e anche l'attività bloggaria ne risente.
In genere cerco di postare una scemenza un messaggio ogni tre giorni, ma suppongo che a partire da oggi fino al 31 agosto i tempi morti fra un post e l'altro tenderanno ad aumentare di parecchio...
Io comunque ci sarò sempre, fresco come una rosa accaldata e col cervello in parziale stand-by. Non immaginatemi beatamente assopito sulla bianca sabbia di una spiaggia tropicale con una coppa di batida a fianco, però magari potete supporre che sono sul balcone di casa, stravaccato nella sdraio domestica, con le cuffiette alle orecchie per ascoltare rilassante musica hard rock.

domenica 15 luglio 2012

Haiku della domenica mattina


Birre vuote sul
lungomare all'alba,
non ho più l'età!

giovedì 12 luglio 2012

Il piacere di scrivere

Posso dire che scrivere mi è piaciuto sin da quando ho imparato a farlo. I temi a scuola per molti miei compagni di classe erano una noia, per me un divertimento.
Scrivere permette di creare storie, vite, mondi, universi. E normalmente non mi pongo limiti da questo punto di vista, anzi, ricordo che un mio utopistico progetto adolescenziale era scrivere libri di ogni genere (giallo, fantasy, fantascienza, mainstream, umoristici, drammatici) sotto pseudonimi diversi e poi raggrupparli tramite il legame di un'immaginaria casa editrice.
Era un'idea folle, come spesso capita quando si è troppo giovani ed esageratamente fiduciosi sia verso il proprio talento sia verso i gentili favori che il destino ci vorrà concedere (a me mancato soprattutto il primo, ma anche i secondi non sono stati particolarmente amici).
A distanza di decenni resta la constatazione che scrivere rimane comunque un piacere. E tutto sommato non è poco :-)

lunedì 9 luglio 2012

L'arcipelago di Ulisse - seconda parte

Nei giorni successivi i primi ricordi affiorarono nella mente di Georg, ma senza un ordine o una qualsivoglia logica. Erano semmai immagini slegate fra loro: scene viste dall’alto di sagome femminili che nuotavano in acque sporche di carburante, zampilli d’acqua sollevata dalle mitragliere attorno ai colpi sinuosi, fiammeggianti relitti dei velivoli schiantati in mare.
E poi situazioni più personali: l’abbraccio materno di una donna più grande di lui, la visuale aerea di una città sepolta dall’acqua con la guglia di una chiesa che emergeva come uno spuntone dalla superficie liquida… E poi altri eventi confusi e indefiniti: bambini in lacrime, lunghe carovane di gente coi propri bagagli in ordinate file su strade in salita, infiniti tornanti di marce forzate verso alte montagne. E una voce che ripete piagnucolante “Potevano smetterla di gettare petrolio in mare e farle contente!”
Sì, farle contente. In fondo le ‘femmine marine’ non chiedevano granché. Ma senza il petrolio come si poteva continuare a muovere le automobili, le navi, le industrie, in poche parole: il progresso?
“Come si sente oggi?”, gli domandava tutte le mattine il dottor Freud.
“Confuso”, rispondeva quasi sempre Georg.
Dopo il decimo giorno, il maresciallo Manfred Von Richtofen si rifiutò di attendere oltre.
“Siamo in guerra, abbiamo bisogno di ogni uomo valido”.
“Capisco”.
“Oggi ti sottoporrai a una prova di volo insieme a me, ma ti premetto per esperienze precedenti che in genere la capacità di pilotaggio rimane invariata. Le puttane cancellano il bagaglio dei ricordi individuali, la tua vicenda personale per così dire. Ma le acquisizioni della mente, tipo il saper parlare una lingua straniera o suonare il pianoforte, normalmente non viene intaccato. Dico bene, herr Freud?”
Il dottore confermò. Ma restava dell’opinione che il giovane era stato toccato a livelli più profondi dall’esperienza di prigionia presso le sirene. Qualcosa di invisibile nei recessi della sua anima si era irrimediabilmente spezzato.

Il mattino dopo, all’alba, le squadriglie erano pronte a levarsi in volo.
I Fokker del gruppo JASTA guidati dal ‘Barone Rosso’ Manfred Von Richthofen, i Phonix austro-ungarici capitanati da Benno Von Fernbrugg i Caudron G4 dei francesi, i Morane-Saulnier del gruppo misto, i Sopwith Camel dell’Impero Britannico – ormai privo delle due isole principali e trasferitosi in ciò che ancora emergeva del Canada – scaldavano i motori bruciando il sempre più scarso combustibile a loro disposizione.
Le bandierine garrivano al vento sulla pista di decollo di Monaco di Baviera, una delle poche grandi città dell’Europa meridionale salvatasi dall’innalzamento delle acque grazie alla muraglia alpina. Data la sua vicinanza col sempre più insaziabile Mar Mediterraneo, era la base di partenza ideale per l’armata multinazionale volante che tentava di arrossare l’azzurro marino col sangue delle puttane fino a spingerle alla rinuncia del loro apocalittico progetto.
L’ufficiale diede il segnale. Le alate macchine di metallo forgiate dalle industrie Siemens e Krupp si innalzarono in cielo, rotta sud-est, obiettivo l’Arcipelago di Ulisse. Il nome era stato imposto dall’autoritaria volontà di Von Richthofen, fermamente convinto della coincidenza fra le omeriche sirene e le attuali nemiche del genere umano. La scelta aveva una valenza simbolica: così come il grande navigatore Odisseo era sopravvissuto alle perfide femmine marine, allo stesso modo vi sarebbero riusciti anche i suoi millenari discendenti.
Georg Trakl era al comando del suo mezzo.

Le squadriglie avanzavano compatte nella luce cristallina del giorno, sorvolando una quantità enorme d’acqua sotto la quale giacevano Venezia, Spalato, Ragusa, Durazzo, Atene. Sporadiche cime montuose, ormai trasformate in isole, emergevano come rare testimonianze delle antiche terre emerse.
Ma perché antiche? L’innalzamento delle acque aveva avuto inizio in maniera graduale, ma costante, esattamente nove anni prima. Il primo gennaio 1910 il mondo era ancora identico a ciò che era stato per secoli. Poi era cominciata la scomparsa lentissima delle coste, l’inevitabile abbandono delle pianure trasformatesi in lagune e la permanente ridefinizione della terraferma sugli atlanti geografici, operazione che diventava di giorno in giorno più complicata per i cartografi. Le navi avevano di fatto smesso di navigare per evitare di essere affondate dalle puttane che, a loro piacimento, scatenavano improvvise ondate. Solo i dirigibili potevano trasportare merci da un luogo all’altro senza timore alcuno di essere colpiti, poiché anche le micidiali folgori delle sirene avevano una gittata di poche decine di metri, inferiore all’altezza di volo degli zeppelin.
Così, per via aerea, si alimentavano in parte i commerci mondiali, ma in misura assai inferiore alle necessità. Inoltre la sottrazione di migliaia di ettari di terre coltivate, invase dall’avanzante acqua salata, aveva drasticamente diminuito le risorse alimentari causando centinaia di migliaia di morti per denutrizione, soprattutto nelle colonie in Africa e Asia. Ma la Società della Nazioni era stata ferma e risoluta: l’umanità non si piega ai ricatti, tanto meno a quelli di mostruose creature nascoste sotto l’apparenza di eteree beltà femminili, e rinunciare al petrolio e ai suoi infiniti utilizzi come carburante era valutata un’opzione inaccettabile. La risoluzione era stata approvata nel dicembre del 1911 e riconfermata più volte durante gli anni seguenti, l’ultima il 16 marzo del 1919, nel corso della prima seduta tenutasi all’interno della nuova sede della Società delle Nazioni, negli altopiani delle Montagne Rocciose.
“Oliate le mitragliere, mes amis!” urlò René-Paul Fonck non appena cominciarono a scorgere i bianchi faraglioni che punteggiavano l’Arcipelago di Ulisse.
“Si aprano le danze!” aggiunse Oswald Boelcke, e un attimo dopo azionò lo speciale grammofono a prova di vibrazioni che si era fatto montare sul suo triplano. Era stata un’idea di Lothar-Sigfried Von Richthofen, forse meno carismatico di suo fratello Manfred ma dotato di una fervente fantasia. Poiché le puttane irretivano le menti degli uomini con la suadente melodia delle loro invisibili voci, lui aveva proposto di dotare i velivoli di musica a tutto volume: una difesa acustica contro l’insidiosa arma ipnotica.
In realtà l’ammaliamento sonoro avveniva solo a brevi distanze: una sirena doveva trovarsi a pochi passi dalla sua vittima per soggiogarla, e un pilota d’aereo non correva alcun rischio. Tuttavia Lothar si era intestardito a sperimentare tale opzione, ed aveva convinto anche i compagni di squadriglia. Solcare il cielo e le nuvole accompagnati dalle immortali sinfonie di Wagner gli pareva un modo più consono di predisporsi alla battaglia.
Nei pressi dell’Arcipelago le puttane disponevano di un’altra arma assai più temibile, ovvero le violente scariche elettriche che si levavano verticalmente rendendo assai pericolosa ogni planata verso il basso (per il Barone Rosso non c’erano dubbi: erano le mitiche folgori di Zeus). Ma anche per queste minacce ad alta tensione pareva che la musica fosse d’aiuto, forse perché stimolava maggiormente l’eccitazione bellica dei piloti e la velocità dei loro riflessi.
Il triplano di Boelcke iniziò il suo concerto. ‘La cavalcata delle Valchirie’ risuonò nell’etere mentre una trentina di apparecchi volanti rombavano su nei cieli. I Sopwith Camel di Mannock e Ball cominciarono a cabrare in direzioni opposte per poi riavvicinarsi, un improvvisato balletto aereo ispirato dalle potenti note del’incomparabile compositore tedesco.
“La prossima volta mettiamo Verdi!” gridò scherzosamente Francesco Baracca, aviere italiano della squadriglia mista.
“Capitano Paracca, la infito a non contraddire le direttive musicali dell’alto comando!” replicò il Barone Rosso facendosi una gran risata.
Il prototipo austro-ungarico PKZ2, materializzazione concreta dell’antico progetto di Leonardo di innalzare l’uomo in aria non tramite ali ma bensì a mezzo di un’elica a spirale che doveva avvitarsi nell’atmosfera, sovrastava lo stormo metallico col suo ronzante suono di pale in rapidissima rotazione circolare. Non sarebbe mai stato in grado di compiere le iperboliche acrobazie concesse ai Fokker o ai Phonix, ma aveva il vantaggio di poter restare fermo a mezz’aria, immobile laddove fosse necessario, permettendo ai suoi piloti Godwin Von Brumowski e Pavel Argeyev di calare un laccio, recuperare i compagni prigionieri delle puttane, e depositarli nel posto vuoto del mitragliere in un altro velivolo. Il tutto mentre entrambi gli apparecchi – ovviamente – erano in volo.
“I see bitches!” urlò violentemente McCudden. Nel mare celeste si scorgevano minuscoli ma sinuose membra femminili che nuotavano pochi metri sotto la superficie cristallina delle acque.
“Allez allez!” esultò Fonck. “Tuez les putains!”
I Caudron G4 si tuffarono in picchiata, imitati dai Fokker dei compagni tedeschi. I Morane-Saulnier in dotazione al gruppo misto si allargarono sul lato opposto come da abitudine, allo scopo di monitorare meglio l’area e mitragliare continuamente i faraglioni dai quali poteva improvvisamente luccicare la sibilante e mortale potenza di una scarica elettrica.
I metallici draghi volanti, pilotati da uomini avvolti in tute di pelle nera, iniziarono a scaricare pallottole sul mare e a lanciare, talvolta, minuscole bombe azionate dal semplice strappo di una spoletta. Il tempo di affidarle alla forza di gravità, il trascorrere dei pochi secondi necessari a percorrere la distanza verticale che separava il velivolo dal pelo dell’acqua, e infine il boato che sollevava colonne liquide e – si sperava – anche il morbido corpo di qualche puttana pronta per essere stroncata da una raffica di proiettili.

Il Phonix di Georg Trakl non aveva ancora sparato un solo colpo. La mente del giovane pilota era orribilmente sconvolta. Gli era mancata la forza di rifiutare il volo – impossibile argomentare contro la fermezza del maresciallo Von Richthofen – e ora si trovava lì, nel bel mezzo del paradiso azzurro che ancora ricordava perfettamente, più nitidamente dei tanti e confusi ricordi della sua vita passata.
Il Barone Rosso aveva avuto ragione riguardo la mancanza di problemi per la guida del mezzo: Georg teneva la cloche e dirigeva il proprio apparecchio con una naturalezza straordinaria, la stessa con cui mangiava, beveva e respirava. Non rammentava granché di se stesso, della sua esistenza, degli eventi tragici che avevano caratterizzato la storia dell’umanità per colpa delle sirene (la parola puttane proprio non riusciva a usarla), ma ricordava parossisticamente i brevi attimi nella prigione che sembrava una reggia, la compagnia della carceriera che parassitava le sue energie e tuttavia si elevava ai suoi occhi come una luminosa dea.
Volava più in alto di tutti, al di sopra dell’intera squadriglia. Le note di Wagner erano appena udibili, sovrastate da incessanti spari di mitragliatrici a ripetizione, da esplosioni violente di bombe sui faraglioni, dal crepitare di fulmini illogici che partivano dal mare verso il cielo e non viceversa.
Georg, avvolto nella sua tuta nera, il volto coperto dalla maschera con giganteschi occhi di vetro simili a quelli di un moscone, si sentiva lacerato. Era diventato – anzi, era sempre stato – uno di quei draghi volanti che aveva scatenato l’inferno in quella giornata così cronologicamente vicina eppure tanto lontana.
Non riusciva a decidere cosa fosse giusto fare. La sua indecisione si protrasse fino al momento in cui, dalla sua inutile altitudine celeste, scorse qualcosa di famigliare...

Si gettò in picchiata in modo deciso, traversando lo schieramento degli altri draghi volanti e quasi sfiorando il Sopwith Camel di Albert Ball.
“È impazzito!” comprese l’aviere inglese.
Il Phonix di Trakl scendeva verso il mare simile a un sasso caduto da una gigantesca altezza, come se si volesse schiantare su uno dei faraglioni sormontati dalle piccole costruzioni in elegante marmo in cui venivano alloggiati i prigionieri umani delle sirene.
I dettagli di quella costruzione dall’aria bizzarramente neoclassica diventavano sempre più nitidi, più ravvicinati per gli occhi da insetto del pilota mascherato dietro il ripugnante casco. L’impatto pareva imminente, ma all’ultimo secondo Georg virò in direzione del mare, sorvolò l’appuntita isola e abbandonò il velivolo al suo destino, lanciando nel contempo il proprio corpo nel vuoto.

Le sue membra cozzarono brutalmente sulla dura roccia dello scoglio. Il dolore atroce di costole rotte e fratture alla gamba destra non gli impedì di trascinarsi sino alla finestra sormontata dal telaio semicircolare rivolta a nord, scavalcarla, ed entrare nella bianca e dorata prigione.
Dal soffitto discendevano miriadi di raggi di luce attraverso i numerosi fori creati dalla furia delle mitragliere. Una sirena, sanguinante, era rannicchiata ad un angolo, il volto misticheggiante nel tipico stato di rapimento che esse assumevano mentre comunicavano telepaticamente fra loro.
Si atterrì, disgustata, quando vide strisciare il corpo martoriato del terricolo avvolto nella sua lugubre tuta nera.
Georg si strappò via il casco mostrando il volto infantile e gli occhi miti. Sfilò anche un guanto e porse la sua mano alla nemica.
“Succhia la mia energia” le disse. “Ti sentirai meglio”.
La donna lo fissava incredula.
“Però ti prego” aggiunse Georg, “Restituiscimi l’illusione. Sono io che te lo sto chiedendo”.
Le iridi chiare della sirena si distesero. La sua bocca accennò un sorriso. Finalmente realizzò come poteva essere accaduto che la sua amica Ariel si fosse intenerita nei confronti di un nemico. Ma lei non poteva lasciarsi distrarre dal proprio dovere, e comunque percepiva sin troppo bene che quel terricolo stava invocando la morte, però trasfigurata nella dolcezza della magica ipnosi.
La donna gli parlò. Le sue dita affusolate strinsero il polso del giovane.
Un attimo dopo – un attimo lunghissimo – Georg riassaporò la beatitudine azzurra.

FINE

venerdì 6 luglio 2012

L'arcipelago di Ulisse - prima parte

Ho deciso di abbassare la qualità generale dei racconti partecipanti al concorso HydroPunk del blog Minuetto Express rifilandogli il mio contributo:-)
Il racconto verrà pubblicato in due parti.


L'ARCIPELAGO DI ULISSE

Si destò da un profondo sonno, e la prima cosa che notò fu la donna nuda che giaceva al suo fianco. Non aveva idea di chi fosse, e in circostanze normali si sarebbe domandato: “Questa chi è?”
Ma poiché non ricordava neppure chi fosse lui stesso, in che luogo si trovasse e per quale ragione, l’interrogativo sull’identità della donna passò in secondo piano.
Era seduto su un morbido talamo di sete bianche e celesti, sormontato da un baldacchino degli stessi colori dal quale scendevano sottilissimi veli di organza. Ne spalancò uno e si trovò nel bel mezzo di una stanza stuccata di bianco, con rifiniture dorate lungo il soffitto, illuminata da raggi di sole provenienti da due ampie finestre col telaio a volta semicircolare.
Stava per avviarsi in direzione della finestra rivolta a sud, ma la voce dello donna lo sorprese.
“Ti sei alzato da molto?”
“No, solo da pochi istanti”.
Mentre lui rispondeva, lei era già discesa dal giaciglio e adesso si trovava vicino a lui.
“Qualcosa non va?”
“Perdona la domanda abbastanza imbarazzante, ma… chi siamo noi? Non rammento nulla, mi sento come se mi fossi svegliato stamattina per la prima volta in vita mia…”
“È normale, non ti preoccupare” lo tranquillizzò la donna con un sorriso amichevole. “Ci vorranno alcuni giorni affinché recuperi la memoria”.
“Ah, capisco. Ma se intanto mi anticipassi qualche particolare…”
“Meglio di no” lo interruppe lei mutando l’espressione del volto da rassicurante a premurosa. “Potrebbe essere troppo traumatizzante. È preferibile che riacquisti i tuoi ricordi con lentezza, uno alla volta”.
Lui annuì, ma era perplesso e avrebbe voluto porre altre domande. Intanto la donna stava muovendo elegantemente il suo corpo nudo in direzione della finestra a sud. Senza profferire una sola parola, montò sul davanzale e si gettò nel vuoto.
Per l’uomo fu una nuova fonte di turbamento. Non ricordava chi lei fosse, quindi era come se non la conoscesse, ma il suicidio di una persona sconosciuta è pur sempre un evento scioccante agli occhi di colui che vi assiste. Non fino al punto da sconvolgerlo però, e infatti lui non urlò, né si abbandonò a reazioni isteriche, ma si limitò ad avvicinarsi alla finestra guidato da un’umanissima curiosità.
Affacciatosi, si avvide che la donna non si era affatto tolta la vita. Molti piedi più in basso si estendeva un placido mare. Un puntolino di spuma bianca rivelò la testa bionda di lei che emergeva dopo aver nuotato sotto la superficie liscia dell’acqua.
Sollevò la mano in un cenno di invito a tuffarsi a sua volta, ma l’uomo non si mosse. La considerevole altezza e l’immensa distesa marina suscitavano in lui innate sensazioni di timore, o quanto meno di prudenza, perciò rimase coi gomiti poggiati sul davanzale ad ammirare il panorama.
Era un caleidoscopio di diversi blu e azzurri: il mare celeste ai piedi della turrita isola in cui lui si trovava, che scuriva in crescenti intensità bluastre man mano che aumentava la sua profondità; il cielo dalla tonalità di zaffiro lucente sopra il filo dell’orizzonte, e poi il cielo più densamente turchino che lo sovrastava… Si intravedevano alcuni chiari scogli affioranti a numerose miglia di distanza gli uni dagli altri, ognuno d’essi innalzato come piccole sommità di monti sperduti in mezzo ad un’infinita d’acqua, ciascuno impreziosito da piccole strutture bianche sulla cima, perfette armonie di colonne e architravi marmoree (almeno per quel poco che lui scorgeva dalla sua visuale alquanto periferica).
Si trattava di una veduta incomparabilmente bella e rasserenante, un paesaggio al quale nessun essere vivente poteva restare insensibile, neppure un uomo che ha perso la memoria e ha ben altre priorità nella propria mente rispetto all’ammirazione estetica del mondo circostante. Pur tuttavia, cedette alla sensazione di benessere che gli suggeriva l’azzurrità senza limiti da cui era circondato, e rimase per lungo tempo a sognare e sospirare, dimenticandosi di ogni altra cosa.
Una languida beatitudine lo coccolava.

La donna rientrò nella stanza dopo aver sommato, passo dopo passo, le centinaia di gradini di una scala a chiocciola scavata all’interno dell’appuntita isola.
“Non vuoi bagnarti?”
L’uomo confermò il suo no, e in quel momento si rese conto che la donna gli aveva parlato senza muovere le labbra. Lui aveva percepito chiaramente la domanda, ma non l’aveva ascoltata, semmai gli era risuonata dentro la mente prima ancora che nelle orecchie.
Proprio le orecchie invece – stavolta senza dubbio – udirono dei cupi rumori nell’aria, una sorta di rauco ringhiare con cadenze metalliche.
Anche la donna se ne accorse, e il suo volto leggiadro mutò in una maschera tragica. Poggiò le mani sulle tempie, e frasi non pronunciate echeggiarono nella mente dell’uomo che, senza capire bene come ciò avvenisse, ascoltò il dialogo fra due esseri femminili.
“Mostri a distanza breve. Chi era colei che avrebbe dovuto vegliare?”
“Mia dolce amica, era Ariel che avevamo noi predisposto. Purtroppo suppongo siano ahimè fondate le voci che la definiscono rinnegata”.
“Orbene, siamo attaccate dagli insetti. Disponete celermente le folgori poiché imminente è la pugna”.
“Velocissimamente, mia dolce amica. Ma quelle laide libellule s’approssimeranno in minor tempo di quanto a noi occorra per degnamente accoglierle”.
“Ordunque non si tergiversi, ma neppure si sottovaluti la gravità del tradimento d’Ariel, poiché persino la giustificazione d’amore non può concederle grazia. Dolorosa sentenza mi è d’obbligo emettere: sia ella mutata in schiuma, e si riservi mortale destino al terricolo da cui l’ingenua si lasciò sedurre”.
La conversazione mentale sembrava essersi conclusa, e l’uomo si avvicinò nuovamente alla finestra. Il paesaggio era immutato, ma le altitudini turchine del cielo erano solcate da mostri con ampie ali, che continuavano a ringhiare a denti stretti una monotona salmodia di rabbia e morte.
D’improvviso alla funebre litania dei draghi volanti si sovrapposero una serie di rumorose scie infuocate che esplodevano come colpi violenti. In pochi istanti il soffitto della stanza fu perforato da decine di minuscoli buchi, seguiti da un boato mostruoso che lo scoperchiò.
“Siate maledetti!” imprecò contro di loro la donna, e un istante dopo si era nuovamente gettata dalla finestra.
L’uomo, paralizzato dal terrore per l’infame violenza che si abbatteva sopra di lui, rimase immobile al pari di una statua di sale. I suoi occhi riuscirono tuttavia a distinguere un ripugnante, enorme calabrone cavalcato da sagome umanoidi avvolte in un nero abito, compreso il volto su cui spiccavano due grosse iridi di vetro. Una musica tetra li accompagnava. Prima che potesse anche solo tentare la fuga, un laccio lo avvolse e lo strappò da terra come un fuscello. Penzolò nel vuoto, ondeggiando sopra l’immensa distesa acquatica tra gli artigli dell’insetto in volo, che lo calò in una cavità posta sul dorso di un’altra ringhiante mostruosità alata.

Nella piccola sala, piuttosto sporca e pregna di un’inestinguibile puzza di idrocarburi, erano radunati una trentina di uomini in divisa suddivisi in vari gruppetti. Sulle pareti erano appese numerose cartine geografiche, alcune stampate e datate (quasi tutte riportavano l’anno 1916, alcune il 1917), altre disegnate a mano. Su queste ultime si notavano evidenti difformità rispetto a quelle stampate. Quello che un tempo era il Mar Mediterraneo ora appariva infinitamente più grande, e non si delineavano più le forme delle penisole anatolica, balcanica, italica e iberica, sostituite invece da una gran quantità di piccole isole – talune segnate con un punto interrogativo – disperse in un ampissimo spazio bianco simboleggiante il mare. Erosioni simili, più o meno vaste, erano presenti in tutti gli ex cinque continenti.
Una porta si aprì proprio sulla parete delle carte geografiche, e un giovane con la divisa dell’aviazione tedesca entrò nella sala calamitando gli sguardi, in particolare quelli di un gruppetto di divise dello stesso colore.
“Come sta Trakl?” domandò subito uno di loro.
“È confuso” rispose laconicamente il giovane appena entrato, il cui nome era Lothar-Sigfried Von Richthofen.
“Disgraziate puttane” commentò suo fratello Manfred, dimentico della sua raffinatezza aristocratica.
Una voce risuonò da dietro la porta. Lothar, il più vicino all’uscio, fu l’unico ad udirla.
“Il dottor Freud mi sta chiedendo se qualcuno di noi vuole provare a parlarci. Forse un viso noto può aiutarlo a ritrovare i primi frammenti di memoria”.
I piloti austro-ungarici si guardarono in faccia con un certo imbarazzo. C’era molto cameratismo fra loro, e anche grande amicizia, ma quel ragazzo era sempre rimasto in secondo piano, per così dire. Qualcuno azzardò un’occhiata verso il gruppo tedesco e quello misto, sperando che almeno fra loro vi fosse qualcuno che si ritenesse sinceramente amico del giovane pilota salvato la mattina precedente.
Alla fine Ernst Udet si mosse in direzione della porta. Erich Löwenhardt, Werner Voss e Oswald Boelcke lo guardarono perplessi.
“In fondo sono stato io a riportarlo a casa”, spiegò.
Un attimo dopo anche Pavel Argeyev si avviò accanto a lui. Il pilota russo era colui che lo aveva materialmente tirato fuori dalla prigione dandolo poi in consegna a Udet, e voleva appurare il risultato del suo salvataggio.
“Comunque è troppo presto” si udì dal lato destro della stanza, in purissimo francese, la voce melodiosa di René-Paul Fonck. “Ci vorranno tre o quattro giorni prima che riaffiorino spezzoni di ricordi”.
“Sicuramente” gli rispose nello stesso idioma Manfred Von Richthofen (ma con un incancellabile accento tedesco). “Lo ticeva già Ulisse che kveste mostruose creature con sembianze d’angelo ipnotizzavano gli uomini sfuotando la loro mente”.
“Veramente l’Odissea parla di voci dolcissime che spingevano gli equipaggi verso rotte errate, non nomina oblio e dimenticanza. A meno che non si voglia supporre che le puttane siano contemporaneamente sirene e coltivatrici di loto” obiettò Fonck.
“Mi sembra efidente che Omero conosceva solo in parte i poteri di kveste luride sgualdrine”.
“Io dubito che le sirene classiche abbiano qualcosa a che vedere con le puttane”, intervenne Jules Guynemer. “Secondo me è solo una combinazione. Un’antica leggenda che, per puro caso, presenta similitudini con queste schifose…”
“Ma come sono fenute fuori le puttane?” lo interruppe Werner Voss che evidentemente condivideva la teoria ‘mitologica’ del suo capo squadriglia Manfred. “Sono comparse nel 1910? Prima di allora non esistevano?”
“Ammetto che non ho alcuna idea sulla loro origine. Ma il discorso è più complesso. Per dirne una: la pinna caudale?”
“Suppongo che gli antichi non le afefano mai viste in maniera completa come noi” replicò Voss, “e poiché scomparifano sott’acqua le hanno immaginate con metà corpo pesciforme. Ma solo immaginate”.
Mentre continuava l’ennesima discussione sulla genealogia delle mortali nemiche emerse dal mare, Mick Mannock fece il suo ingresso in stanza.
“Novità?” gli chiese James McCudden.
“Gli yankees sono riusciti a mandare un messaggio, o almeno questo è ciò che vogliono farci credere i marconisti” scherzò Mannock.
“Cosa dicono?” domandò Albert Ball.
“Se l’esegesi dei bip e dei beep è attendibile, confermano che appena possono ci invieranno degli aiuti. Ovviamente hanno problemi con le puttane locali che rallentano le operazioni”.
“Che tipo di aiuti?” si chiese Ball.
“Petrolio raffinato e armi, mi auguro” gli rispose Mannock.
“Mi piacerebbe vedere come è fatta una puttana americana” disse McCudden dando l’impressione che parlasse da solo.
“E come vuoi che sia fatta? Bella e bastarda come quelle nostrane” commentò il francese Maurice Boyau che aveva ascoltato la conversazione fra gli inglesi.
“Sembra la descrizione della mia prima fidanzata” ironizzò britannicamente McCudden.

Intanto dietro la porta, in una stanzetta senza finestre e pressoché insonorizzata, il dottor Freud e gli avieri Ernst Udet e Pavel Argeyev tentavano di aiutare il giovane Georg Trakl a scavare nella propria mente, o quanto meno a illustrargli le sue vicende personali degli ultimi giorni e quelle dell’umanità intera nel corso del secondo decennio del secolo ventesimo.
“Capisci? Lei stava succhiando le tue energie! Pochi giorni ancora e saresti morto!”
Il volto infantile di Georg li fissava con aria stralunata. I suoi occhi erano tondeggianti punti di domanda.
“Ma queste… sirene, perché vogliono distruggere il mondo?”
“Per essere le padrone” tagliò corto Udet. “Quello che per noi è distruzione, per loro è normalità. Noi non possiamo vivere sott’acqua, loro sì”.
“Ma perché?”
“Non c’è un perché Georg, è così e basta!”
Pavel Argeyev capiva difficoltosamente il tedesco, ma aveva rubato abbastanza parole in questo dialogo per sentenziare che la memoria di Trakl era ancora intorpidita dall’ipnotica melodia delle puttane. Notò anche che Ernst Udet era totalmente privo di pazienza e troppo aggressivo nel pretendere che Georg comprendesse subito la verità, e d’altronde sarebbe stato assai complicato raccontare al giovane salvato tutti i dettagli della guerra fra umani e… sirene (ammesso che questa denominazione fosse accettabile, e da questo punto di vista Argeyev condivideva lo scetticismo di Guynemer).
Si ricordò che a suo tempo Nicola II ci aveva scherzato sopra, o almeno così si diceva. Secondo un autorevole granduca che frequentava il Palazzo d’Inverno, quando la Zar aveva appreso l’ultimatum inviato dalle ‘femmine marine’ a tutti i governi della terraferma, aveva commentato: “Dicono che innalzeranno il livello del mare? Vorrà dire che la capitale dell’Impero tornerà a essere Mosca, o costruiremo una nuova capitale in cima ai Monti Urali”. Non immaginava che San Pietroburgo e l’intera costa russa settentrionale sarebbero veramente state inghiottite dall’inarrestabile crescita degli oceani. La città di Pietro I il Grande scomparsa allo stesso modo della leggendaria Atlantide.
Ecco, questo aveva suggerito ad Argeyev una riflessione: quelle… sirene (nome ormai convenzionale ma da lui non condiviso) erano state, a suo tempo, le responsabili della scomparsa del mitico continente.
Intanto la conversazione fra Trakl e Udet aumentava di intensità, quanto meno a livello acustico. Il dottor Freud si avvide dello stordimento del giovane smemorato e non volle ulteriormente sollecitarlo.
“Lasci perdere tenente Udet. È inutile affaticarlo in questa fase post-traumatica ancora troppo recente. Ora necessita di riposo”.
“E noi necessitiamo di piloti pronti a combattere”, replicò Ernst seccato. “Ieri abbiamo perso sei uomini”.
“Gli dia tempo, e anche Trakl tornerà a volare. Ma ora deve riprendersi”.
(continua)

martedì 3 luglio 2012

Apocalypse Writers


Le parole che ho inserito come titolo del post mi sono venute in mente solo per la loro assonanza con apocalypse riders, ma seguendo una logica nonsense mi sono chiesto chi mai potrebbero essere i Quattro Romanzieri dell’Apocalisse…
Il primo a venirmi in mente è M.P. Shiel, autentico precursore della narrativa catastrofica con “La nube purpurea” (il romanzo è datato 1901).
Poi inserirei nell’elenco un autore abbastanza inatteso, il nostro Italo Svevo. Ho apprezzato lo straordinario ritratto psicologico del suo romanzo più noto, “La coscienza di Zeno”, ma non dimentico che si conclude con un’inquietante profezia:
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po' più ammalato, ruberà tale esplosivo e s'arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un'esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.
Esiste poi una variante apocalittica, quella in cui la razza umana non scompare però subisce delle mutazioni che la rendono diversa da ciò che era. Per questa tipologia esistono decine di autori, e io ne scelgo uno che è ormai un classico, ovvero Richard Matheson e il suo meraviglioso “Io sono leggenda”.
Per concludere con una certa leggerezza, dico che il quarto Romanziere dell’Apocalisse potrebbe essere Douglas Adams. Nella sua celebre “Guida galattica per gli autostoppisti” il nostro mondo fa una bruttissima fine, ma – potenza dello humour – la descrizione della distruzione della Terra mi ha fatto ridere anziché angosciarmi.
Mi rendo conto che gli autori prescelti avrebbero potuto essere tanti altri, e attendo proposte in merito negli eventuali commenti a questo post…