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venerdì 6 luglio 2012

L'arcipelago di Ulisse - prima parte

Ho deciso di abbassare la qualità generale dei racconti partecipanti al concorso HydroPunk del blog Minuetto Express rifilandogli il mio contributo:-)
Il racconto verrà pubblicato in due parti.


L'ARCIPELAGO DI ULISSE

Si destò da un profondo sonno, e la prima cosa che notò fu la donna nuda che giaceva al suo fianco. Non aveva idea di chi fosse, e in circostanze normali si sarebbe domandato: “Questa chi è?”
Ma poiché non ricordava neppure chi fosse lui stesso, in che luogo si trovasse e per quale ragione, l’interrogativo sull’identità della donna passò in secondo piano.
Era seduto su un morbido talamo di sete bianche e celesti, sormontato da un baldacchino degli stessi colori dal quale scendevano sottilissimi veli di organza. Ne spalancò uno e si trovò nel bel mezzo di una stanza stuccata di bianco, con rifiniture dorate lungo il soffitto, illuminata da raggi di sole provenienti da due ampie finestre col telaio a volta semicircolare.
Stava per avviarsi in direzione della finestra rivolta a sud, ma la voce dello donna lo sorprese.
“Ti sei alzato da molto?”
“No, solo da pochi istanti”.
Mentre lui rispondeva, lei era già discesa dal giaciglio e adesso si trovava vicino a lui.
“Qualcosa non va?”
“Perdona la domanda abbastanza imbarazzante, ma… chi siamo noi? Non rammento nulla, mi sento come se mi fossi svegliato stamattina per la prima volta in vita mia…”
“È normale, non ti preoccupare” lo tranquillizzò la donna con un sorriso amichevole. “Ci vorranno alcuni giorni affinché recuperi la memoria”.
“Ah, capisco. Ma se intanto mi anticipassi qualche particolare…”
“Meglio di no” lo interruppe lei mutando l’espressione del volto da rassicurante a premurosa. “Potrebbe essere troppo traumatizzante. È preferibile che riacquisti i tuoi ricordi con lentezza, uno alla volta”.
Lui annuì, ma era perplesso e avrebbe voluto porre altre domande. Intanto la donna stava muovendo elegantemente il suo corpo nudo in direzione della finestra a sud. Senza profferire una sola parola, montò sul davanzale e si gettò nel vuoto.
Per l’uomo fu una nuova fonte di turbamento. Non ricordava chi lei fosse, quindi era come se non la conoscesse, ma il suicidio di una persona sconosciuta è pur sempre un evento scioccante agli occhi di colui che vi assiste. Non fino al punto da sconvolgerlo però, e infatti lui non urlò, né si abbandonò a reazioni isteriche, ma si limitò ad avvicinarsi alla finestra guidato da un’umanissima curiosità.
Affacciatosi, si avvide che la donna non si era affatto tolta la vita. Molti piedi più in basso si estendeva un placido mare. Un puntolino di spuma bianca rivelò la testa bionda di lei che emergeva dopo aver nuotato sotto la superficie liscia dell’acqua.
Sollevò la mano in un cenno di invito a tuffarsi a sua volta, ma l’uomo non si mosse. La considerevole altezza e l’immensa distesa marina suscitavano in lui innate sensazioni di timore, o quanto meno di prudenza, perciò rimase coi gomiti poggiati sul davanzale ad ammirare il panorama.
Era un caleidoscopio di diversi blu e azzurri: il mare celeste ai piedi della turrita isola in cui lui si trovava, che scuriva in crescenti intensità bluastre man mano che aumentava la sua profondità; il cielo dalla tonalità di zaffiro lucente sopra il filo dell’orizzonte, e poi il cielo più densamente turchino che lo sovrastava… Si intravedevano alcuni chiari scogli affioranti a numerose miglia di distanza gli uni dagli altri, ognuno d’essi innalzato come piccole sommità di monti sperduti in mezzo ad un’infinita d’acqua, ciascuno impreziosito da piccole strutture bianche sulla cima, perfette armonie di colonne e architravi marmoree (almeno per quel poco che lui scorgeva dalla sua visuale alquanto periferica).
Si trattava di una veduta incomparabilmente bella e rasserenante, un paesaggio al quale nessun essere vivente poteva restare insensibile, neppure un uomo che ha perso la memoria e ha ben altre priorità nella propria mente rispetto all’ammirazione estetica del mondo circostante. Pur tuttavia, cedette alla sensazione di benessere che gli suggeriva l’azzurrità senza limiti da cui era circondato, e rimase per lungo tempo a sognare e sospirare, dimenticandosi di ogni altra cosa.
Una languida beatitudine lo coccolava.

La donna rientrò nella stanza dopo aver sommato, passo dopo passo, le centinaia di gradini di una scala a chiocciola scavata all’interno dell’appuntita isola.
“Non vuoi bagnarti?”
L’uomo confermò il suo no, e in quel momento si rese conto che la donna gli aveva parlato senza muovere le labbra. Lui aveva percepito chiaramente la domanda, ma non l’aveva ascoltata, semmai gli era risuonata dentro la mente prima ancora che nelle orecchie.
Proprio le orecchie invece – stavolta senza dubbio – udirono dei cupi rumori nell’aria, una sorta di rauco ringhiare con cadenze metalliche.
Anche la donna se ne accorse, e il suo volto leggiadro mutò in una maschera tragica. Poggiò le mani sulle tempie, e frasi non pronunciate echeggiarono nella mente dell’uomo che, senza capire bene come ciò avvenisse, ascoltò il dialogo fra due esseri femminili.
“Mostri a distanza breve. Chi era colei che avrebbe dovuto vegliare?”
“Mia dolce amica, era Ariel che avevamo noi predisposto. Purtroppo suppongo siano ahimè fondate le voci che la definiscono rinnegata”.
“Orbene, siamo attaccate dagli insetti. Disponete celermente le folgori poiché imminente è la pugna”.
“Velocissimamente, mia dolce amica. Ma quelle laide libellule s’approssimeranno in minor tempo di quanto a noi occorra per degnamente accoglierle”.
“Ordunque non si tergiversi, ma neppure si sottovaluti la gravità del tradimento d’Ariel, poiché persino la giustificazione d’amore non può concederle grazia. Dolorosa sentenza mi è d’obbligo emettere: sia ella mutata in schiuma, e si riservi mortale destino al terricolo da cui l’ingenua si lasciò sedurre”.
La conversazione mentale sembrava essersi conclusa, e l’uomo si avvicinò nuovamente alla finestra. Il paesaggio era immutato, ma le altitudini turchine del cielo erano solcate da mostri con ampie ali, che continuavano a ringhiare a denti stretti una monotona salmodia di rabbia e morte.
D’improvviso alla funebre litania dei draghi volanti si sovrapposero una serie di rumorose scie infuocate che esplodevano come colpi violenti. In pochi istanti il soffitto della stanza fu perforato da decine di minuscoli buchi, seguiti da un boato mostruoso che lo scoperchiò.
“Siate maledetti!” imprecò contro di loro la donna, e un istante dopo si era nuovamente gettata dalla finestra.
L’uomo, paralizzato dal terrore per l’infame violenza che si abbatteva sopra di lui, rimase immobile al pari di una statua di sale. I suoi occhi riuscirono tuttavia a distinguere un ripugnante, enorme calabrone cavalcato da sagome umanoidi avvolte in un nero abito, compreso il volto su cui spiccavano due grosse iridi di vetro. Una musica tetra li accompagnava. Prima che potesse anche solo tentare la fuga, un laccio lo avvolse e lo strappò da terra come un fuscello. Penzolò nel vuoto, ondeggiando sopra l’immensa distesa acquatica tra gli artigli dell’insetto in volo, che lo calò in una cavità posta sul dorso di un’altra ringhiante mostruosità alata.

Nella piccola sala, piuttosto sporca e pregna di un’inestinguibile puzza di idrocarburi, erano radunati una trentina di uomini in divisa suddivisi in vari gruppetti. Sulle pareti erano appese numerose cartine geografiche, alcune stampate e datate (quasi tutte riportavano l’anno 1916, alcune il 1917), altre disegnate a mano. Su queste ultime si notavano evidenti difformità rispetto a quelle stampate. Quello che un tempo era il Mar Mediterraneo ora appariva infinitamente più grande, e non si delineavano più le forme delle penisole anatolica, balcanica, italica e iberica, sostituite invece da una gran quantità di piccole isole – talune segnate con un punto interrogativo – disperse in un ampissimo spazio bianco simboleggiante il mare. Erosioni simili, più o meno vaste, erano presenti in tutti gli ex cinque continenti.
Una porta si aprì proprio sulla parete delle carte geografiche, e un giovane con la divisa dell’aviazione tedesca entrò nella sala calamitando gli sguardi, in particolare quelli di un gruppetto di divise dello stesso colore.
“Come sta Trakl?” domandò subito uno di loro.
“È confuso” rispose laconicamente il giovane appena entrato, il cui nome era Lothar-Sigfried Von Richthofen.
“Disgraziate puttane” commentò suo fratello Manfred, dimentico della sua raffinatezza aristocratica.
Una voce risuonò da dietro la porta. Lothar, il più vicino all’uscio, fu l’unico ad udirla.
“Il dottor Freud mi sta chiedendo se qualcuno di noi vuole provare a parlarci. Forse un viso noto può aiutarlo a ritrovare i primi frammenti di memoria”.
I piloti austro-ungarici si guardarono in faccia con un certo imbarazzo. C’era molto cameratismo fra loro, e anche grande amicizia, ma quel ragazzo era sempre rimasto in secondo piano, per così dire. Qualcuno azzardò un’occhiata verso il gruppo tedesco e quello misto, sperando che almeno fra loro vi fosse qualcuno che si ritenesse sinceramente amico del giovane pilota salvato la mattina precedente.
Alla fine Ernst Udet si mosse in direzione della porta. Erich Löwenhardt, Werner Voss e Oswald Boelcke lo guardarono perplessi.
“In fondo sono stato io a riportarlo a casa”, spiegò.
Un attimo dopo anche Pavel Argeyev si avviò accanto a lui. Il pilota russo era colui che lo aveva materialmente tirato fuori dalla prigione dandolo poi in consegna a Udet, e voleva appurare il risultato del suo salvataggio.
“Comunque è troppo presto” si udì dal lato destro della stanza, in purissimo francese, la voce melodiosa di René-Paul Fonck. “Ci vorranno tre o quattro giorni prima che riaffiorino spezzoni di ricordi”.
“Sicuramente” gli rispose nello stesso idioma Manfred Von Richthofen (ma con un incancellabile accento tedesco). “Lo ticeva già Ulisse che kveste mostruose creature con sembianze d’angelo ipnotizzavano gli uomini sfuotando la loro mente”.
“Veramente l’Odissea parla di voci dolcissime che spingevano gli equipaggi verso rotte errate, non nomina oblio e dimenticanza. A meno che non si voglia supporre che le puttane siano contemporaneamente sirene e coltivatrici di loto” obiettò Fonck.
“Mi sembra efidente che Omero conosceva solo in parte i poteri di kveste luride sgualdrine”.
“Io dubito che le sirene classiche abbiano qualcosa a che vedere con le puttane”, intervenne Jules Guynemer. “Secondo me è solo una combinazione. Un’antica leggenda che, per puro caso, presenta similitudini con queste schifose…”
“Ma come sono fenute fuori le puttane?” lo interruppe Werner Voss che evidentemente condivideva la teoria ‘mitologica’ del suo capo squadriglia Manfred. “Sono comparse nel 1910? Prima di allora non esistevano?”
“Ammetto che non ho alcuna idea sulla loro origine. Ma il discorso è più complesso. Per dirne una: la pinna caudale?”
“Suppongo che gli antichi non le afefano mai viste in maniera completa come noi” replicò Voss, “e poiché scomparifano sott’acqua le hanno immaginate con metà corpo pesciforme. Ma solo immaginate”.
Mentre continuava l’ennesima discussione sulla genealogia delle mortali nemiche emerse dal mare, Mick Mannock fece il suo ingresso in stanza.
“Novità?” gli chiese James McCudden.
“Gli yankees sono riusciti a mandare un messaggio, o almeno questo è ciò che vogliono farci credere i marconisti” scherzò Mannock.
“Cosa dicono?” domandò Albert Ball.
“Se l’esegesi dei bip e dei beep è attendibile, confermano che appena possono ci invieranno degli aiuti. Ovviamente hanno problemi con le puttane locali che rallentano le operazioni”.
“Che tipo di aiuti?” si chiese Ball.
“Petrolio raffinato e armi, mi auguro” gli rispose Mannock.
“Mi piacerebbe vedere come è fatta una puttana americana” disse McCudden dando l’impressione che parlasse da solo.
“E come vuoi che sia fatta? Bella e bastarda come quelle nostrane” commentò il francese Maurice Boyau che aveva ascoltato la conversazione fra gli inglesi.
“Sembra la descrizione della mia prima fidanzata” ironizzò britannicamente McCudden.

Intanto dietro la porta, in una stanzetta senza finestre e pressoché insonorizzata, il dottor Freud e gli avieri Ernst Udet e Pavel Argeyev tentavano di aiutare il giovane Georg Trakl a scavare nella propria mente, o quanto meno a illustrargli le sue vicende personali degli ultimi giorni e quelle dell’umanità intera nel corso del secondo decennio del secolo ventesimo.
“Capisci? Lei stava succhiando le tue energie! Pochi giorni ancora e saresti morto!”
Il volto infantile di Georg li fissava con aria stralunata. I suoi occhi erano tondeggianti punti di domanda.
“Ma queste… sirene, perché vogliono distruggere il mondo?”
“Per essere le padrone” tagliò corto Udet. “Quello che per noi è distruzione, per loro è normalità. Noi non possiamo vivere sott’acqua, loro sì”.
“Ma perché?”
“Non c’è un perché Georg, è così e basta!”
Pavel Argeyev capiva difficoltosamente il tedesco, ma aveva rubato abbastanza parole in questo dialogo per sentenziare che la memoria di Trakl era ancora intorpidita dall’ipnotica melodia delle puttane. Notò anche che Ernst Udet era totalmente privo di pazienza e troppo aggressivo nel pretendere che Georg comprendesse subito la verità, e d’altronde sarebbe stato assai complicato raccontare al giovane salvato tutti i dettagli della guerra fra umani e… sirene (ammesso che questa denominazione fosse accettabile, e da questo punto di vista Argeyev condivideva lo scetticismo di Guynemer).
Si ricordò che a suo tempo Nicola II ci aveva scherzato sopra, o almeno così si diceva. Secondo un autorevole granduca che frequentava il Palazzo d’Inverno, quando la Zar aveva appreso l’ultimatum inviato dalle ‘femmine marine’ a tutti i governi della terraferma, aveva commentato: “Dicono che innalzeranno il livello del mare? Vorrà dire che la capitale dell’Impero tornerà a essere Mosca, o costruiremo una nuova capitale in cima ai Monti Urali”. Non immaginava che San Pietroburgo e l’intera costa russa settentrionale sarebbero veramente state inghiottite dall’inarrestabile crescita degli oceani. La città di Pietro I il Grande scomparsa allo stesso modo della leggendaria Atlantide.
Ecco, questo aveva suggerito ad Argeyev una riflessione: quelle… sirene (nome ormai convenzionale ma da lui non condiviso) erano state, a suo tempo, le responsabili della scomparsa del mitico continente.
Intanto la conversazione fra Trakl e Udet aumentava di intensità, quanto meno a livello acustico. Il dottor Freud si avvide dello stordimento del giovane smemorato e non volle ulteriormente sollecitarlo.
“Lasci perdere tenente Udet. È inutile affaticarlo in questa fase post-traumatica ancora troppo recente. Ora necessita di riposo”.
“E noi necessitiamo di piloti pronti a combattere”, replicò Ernst seccato. “Ieri abbiamo perso sei uomini”.
“Gli dia tempo, e anche Trakl tornerà a volare. Ma ora deve riprendersi”.
(continua)

9 commenti:

  1. aspetterò l'uscita della seconda parte per leggere tutto insieme, sperando di non dover attendere insieme a... Penelope!

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  2. è narrato splendidamente.. aspetto la seconda parte! xD

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  3. Hai fatto benissimo: la qualità degli altri racconti credo proprio si sia abbassata!
    Ora vado al sito indicato: si dovrà votare?
    Nel frattempo attendo la seconda parte.:)))

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    1. No, nessun voto, deciderà una giuria apposita.
      Lunedì il finale del racconto :-)

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  4. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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  5. Finalmente riesco a commentare! Prima parte a dir poco magistrale! Gli altri concorrenti dovranno temerti. :)

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    1. Ti ringrazio Nick, in realtà ho scorto parecchi refusi che correggerò a breve.

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