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martedì 15 ottobre 2013

Il merito di esporsi

"Dimenticavo di dirLe che, per scrivere, bisogna avere qualche cosa da scrivere", diceva Primo Levi nel libro L'altrui mestiere. Una frase sintetica e semplice per rammentare che la scrittura non dovrebbe mai essere banalizzata.
Da questo punto di vista è un'affermazione pienamente condivisibile. L'importante è non estremizzarla arrivando al punto di non scrivere affatto.
Personalmente, parlando come parte in causa, provo un'istintiva comprensione per chi tenta di scrivere, anche se i suoi risultati sono negativi. Si espone al rischio di stroncature e derisioni, opzioni inevitabili ma non per questo meno mortificanti quando si ricevono.
Lo scrittore belga Georges Simenon non godeva di grande stima da parte della critica letteraria, pur avendo un enorme successo di vendite. Negli ultimi decenni questa tendenza si è invertita e molti critici hanno reso merito alla sua scrittura, ma si tratta di una rivincita postuma poiché da vivo Simenon era considerato un autore di romanzi commerciali che sfornava bestsellers quasi come una macchina.
Lui ebbe modo di scherzarci sopra durante il periodo del suo soggiorno negli Stati Uniti. "In America mi trovo bene" diceva, "Qui non ci sono cafés letterari dove gli intellettuali si raccontano i romanzi che non scriveranno mai". All'epoca era una battuta, adesso suona addirittura come un trionfo.
Per rendere meglio il mio punto di vista cito un ricordo universitario che apparentemente non c'entra, però ha la sua attinenza.
Uno dei testi relativi a un esame di Letteratura Inglese era la tragedia "The Duchess of Malfi" di John Webster, drammaturgo della generazione successiva a quella di Shakespeare. L'edizione che ci venne consigliata era quella di un noto accademico (di cui non dirò il nome visto che sto per parlarne male ;-) che nell'introduzione accennava ai temi dell'opera e poi si soffermava sull'apparato critico italiano ad essa relativo. Spiegava che esisteva una sola traduzione nella nostra lingua(*) e che era assai inaffidabile perché piena di errori, di cui riportava alcuni esempi ironizzando sul lavoro del traduttore. Infine, metteva a nostra disposizione la sua meravigliosa edizione con il testo originale in inglese seicentesco senza traduzione italiana a fronte e corredato da un limitatissimo numero di note a piè di pagina per i "passaggi più complessi".
Personalmente posso dire che ho provato - e ancora oggi provo - maggior stima per il traduttore pasticcione che non per l'accademico annotatore. Voi che ne pensate?

(*) A quei tempi. Adesso ce ne sono altre disponibili.

12 commenti:

  1. Non credo di aver mai affrontato opere del genere ma certamente sono una persona a cui non piacciono milioni di note.. mi distraggono da quello che leggo. Le informazioni in più fanno comodo ma quando sono troppe mi fanno perdere la concentrazione.
    Inoltre non so come sia l'inglese del ventunesimo secolo, figuriamoci quello del seicento.. ahhaha.. è come mettermi davanti un libro scritto in arabo.. ahahhaha!

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    1. Ti dico che mettere a disposizione un testo inglese del seicento senza traduzione a fronte non è molto professionale... soprattutto da parte di uno che si da arie di essere più bravo di chi la sua traduzione ha provato a farla, sia pure con qualche errore.

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  2. Credo che una certa dose di supponenza contraddistingua un po' alcune categorie... e designer (eccomi!) e scrittori forse sono tra queste :D
    Per dirti, ho abbandonato un gruppo su Facebook, Roba da Grafici, perché pieno zeppo (ma da scoppiare) di gente che si crede l'Andy Warhol del terzo millennio e rosica e sbava e pontifica e sfotte.
    Uno zoo, puoi credermi.
    Analogamente, mi sono imbattuto in più di uno scrittore (o aspirante tale) che schiuma livore un giorno sì e l'altro pure, arroccandosi nel suo piccolo mondo di scritti autoprodotti, autoediti e autopubblicati.
    Non so bene da cosa dipenda.
    Di certo, è un atteggiamento che non attira le simpatie di nessuno, anche se molti si fanno un vanto anche di questo: c'è da dire che, se c'è il talento, quello vero, si può passare sopra questi difetti.
    Il guaio è che il talento vero è raro. ;)

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    1. Ovvio che chi scrive può anche essere un saccente odioso, peggiore di chi critica e basta.
      Il senso del mio post era quello di riconoscere un minimo di "coraggio" da parte di chi scrive rispetto a chi critica e trova difetti ma non si sognerebbe mai di rischiare sulla propria pelle il giudizio altrui. Chi giudica e basta senza mettersi nella posizione di essere giudicato a sua volta mi piace poco.

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  3. Io non sono mai stata una che sbeffeggia e che critica a sproposito... io apprezzo chi si mette in gioco, anche se il risultato è quello che è, purché non faccia lo sbruffone! :)
    E sono d'accordo anche con quello che ha scritto Luca... :)

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  4. Ahahaha!
    @Cyber: e dire che ROBA DA GRAFICI un mio collega lo segue e lo osanna ogni dì.

    Per il resto… che dire!

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  5. Preferisco la traduzione. Se voglio leggerlo in originale mi prendo l'originale, o un'edizione con il testo a fronte. Però a fini didattici ci può anche stare, penso magari alle edizioni per le superiori dei classici greci e latini, dove molto spesso non c'era una vera traduzione (ma era un compito svolto dal docente).

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  6. Tradurre significa mettersi in gioco tanto e quanto scrivere. Tanto di cappello al "pasticcione".

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    1. Comunque sia, gli riconosco il merito di aver tentato. Quell'edizione in inglese seicentesco con qualche nota era utile come un manuale di istruzioni scritto in tedesco con qualche figura illustrata.

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  7. E' difficile stimare e criticare...

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