AVVISO
IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI
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Il
messaggio della polizia postale era giunto verso le undici di sera. Venti
minuti dopo era in corso una videoconferenza unificata fra tutti i
commissariati capitolini, le caserme dell’Arma, il ministero dell’interno e i
servizi segreti. Stranamente le procedure di sicurezza erano state rispettate e
nessun giornalista era stato ammesso. I poliziotti, i carabinieri, i
sottosegretari e il ministro erano stati gentilmente pregati di tenere spenti i
cellulari e di non divulgare immagini e contenuti della riunione su facebook,
twitter, instagram e compagnia cantante.
“L’ipotesi
investigativa del vice ispettore Doglia” stava spiegando il capo della polizia
“ha fornito uno spunto. Ribadisco: solo uno spunto. Non vi sono né confessioni
né rivendicazioni, solo tre messaggi generici postati dalla medesima persona
circa due ore dopo i tre attentati”.
Sui
volti dei militari e dei politici si tratteggiarono smorfie di delusione.
“Da
un punto di vista procedurale non ci sono gli estremi per poter autorizzare
l’avvio di un’indagine sull’autore dei tre messaggi in questione. Tuttavia,
vista la straordinarietà della situazione, se si ritiene opportuno applicare
una deroga…”
Il
commissario capo lasciò in sospeso la frase per non pronunciare concetti troppo
apertamente illegali. Si affidò alla libera interpretazione dell’audience che
lo ascoltava e alla loro valutazione in merito.
“Alquanto
inopportuno” lo stroncò in due parole un sottosegretario. Il ministro, con un
cenno della testa, benediceva l’intervento del suo sottoposto.
“Allora
questa ipotesi viene scartata” tagliò corto il capo della polizia. “Passiamo
alla successiva, elaborata dal prefetto Dolgetta. Per questa ci occorrerebbe la
collaborazione della Rai: dovremmo far trasmettere in prima serata
un’intervista fittizia a un tizio qualunque che si attribuisca la
responsabilità degli attentati, e mettere a disposizione degli spettatori un
numero verde per porgli domande ed eventualmente smentirlo. È plausibile che il
vero attentatore chiamerebbe per evitare che qualcun altro gli sottragga il
merito delle azioni dinamitarde…”
Doglia
si alzò dalla propria sedia e si allontanò dalla sala riunioni del commissariato.
“Dove
vai?” gli sussurrò scandalizzato Berruti.
“Al
bagno”.
Era
tutto chiaro adesso: la sua ipotesi investigativa era stata data in pasto ai
mass media per sviarli. L’avevano proposta per prima perché la ritenevano la
più debole, quella da cassare subito. Nel prosieguo della videoconferenza
sarebbero state trattate le proposte più credibili.
Si
accomodò nel cesso, abbassò il copriwater e si sedette sul wc come se fosse la
sedia di un ufficio. Col cellulare di lavoro entrò nella rete dei dati relativi
agli attentati e scaricò le informazioni relative alla sua richiesta.
L’IP
che era stato attivo esclusivamente nei giorni delle esplosioni apparteneva a
tale Vincenzo Eranio.
Aveva
pubblicato tre messaggi su tre diversi quotidiani on line, tutti sotto forma di
commento ad un articolo e tutti postati in forma anonima. Non avevano alcuna
apparente attinenza con le notizie che commentavano. Il primo, aggiunto fra le
opinioni relative al decreto legge che abbassava a sedici anni il limite d’età
per i giovani che intendevano pubblicare autoscatti del proprio corpo nudo sui
profili dei social networks, parlava di scacchi…
*
Gli scacchi vengono considerati il più
straordinario gioco di strategia e intelligenza creato dalla mente umana, ma
dall’umanità traggono anche gli aspetti peggiori della sua evoluzione.
Gli scacchi hanno l’identica ambiguità e
doppiezza della civiltà umana, che ha progredito la propria mente verso
concettualizzazioni astratte incommensurabili e al tempo stesso ha sfruttato
tale meravigliosa propensione per fini meschini.
La capacità divina dell’uomo di organizzare
il pensiero e partorire concetti quali l’etica e la morale lo ha condotto
altresì alla loro subdola manipolazione allo scopo di ingannare e comandare sul
prossimo.
Gli scacchi costituiscono il simbolo concreto
di tale ignobile metodologia.
Ogni pezzo ha i suoi movimenti specifici, che
seguono regole precise per i loro spostamenti sulla scacchiera. Sarebbe un
gioco perfetto, ma ecco che la viltà umana, con maligna intelligenza, vi
applica le identiche, sordide eccezioni nate con lo scopo di complicare i
rapporti sociali e la loro amministrazione a vantaggio dei più furbi.
Il pedone mangia solo in diagonale. Invece no!
C’è un caso specifico in cui mangia il pezzo avversario tirando dritto grazie
alla regola dell’en passant.
Oppure: con l’eccezione del cavallo nessun
pezzo può passare sopra altri pezzi, né, tanto meno, se ne possono muovere due
contemporaneamente. Ed ecco l’eccezione, l’arrocco,
che consente di violare entrambe le regole in un colpo solo.
E ancora: il re è sotto scacco, ma potrebbe
facilmente essere liberato grazie a un pezzo dello stesso colore che, con un
semplice movimento, avrebbe la facoltà di mangiare il pezzo avversario che
minaccia il re. Però non si può: se il re è sotto scacco, solo il re può essere
mosso.
Questa è la falsità profonda degli scacchi,
la stessa che caratterizza le legislazioni sociali umane con il proliferare di
norme e regole che contraddicono altre esistenti. Le eccezioni (la parola preferita di tutti i disonesti del mondo)
condizionano lo svolgimento della vita umana e di una partita di scacchi allo
stesso modo.
Qualcuno obietterà che tali regole valgono
per tutti gli uomini e per entrambi i giocatori: ogni cittadino può usufruirne,
sia il bianco che il nero ne possono approfittare.
Ma ciò che io contesto è l’esistenza stessa
di tali regole e la loro finalità. Esse nascono con lo scopo di confondere, di
disorientare le menti più semplici, di favorire le persone con maggiore
malizia, gli specialisti dell’applicazione perversa di una legge ai fini del
proprio tornaconto personale. Queste eccezioni
sono un ostacolo deliberato nei confronti di coloro che applicherebbero
pedissequamente le leggi rendendo più lineare ed onesta una società o una partita
a scacchi.
Più vi sono leggi, più una società è
corrotta, sosteneva uno storico dell’antica Roma. Perché quando le regole sono
tante solo pochi possono tenerle a mente e la massa della gente, purtroppo
ottusa ma potenzialmente onesta, ne viene soggiogata. Oppure – peggio ancora –
apprende a sua volta l’uso delle singole eccezioni
e ne fa un uso disonesto seguendo l’esempio dei furbi e dei loro avvocati (o
del meschino giocatore avversario).
Ecco perché sostengo che gli scacchi sono
pregni di ambiguità e falsità come le peggiori società umane.
La dama sarebbe invece il gioco ideale al
quale uniformarsi: qui non esistono eccezioni, le regole sono poche e
incontrovertibili. Da qui nasce la contestazione tipica delle menti disoneste:
gli scacchi sono più complessi, determinano una quantità di combinazioni e di
situazioni infinitamente superiore, pertanto sono più interessanti e più
avvincenti della dama.
L’inganno supremo della furbizia maligna:
convincere l’umanità che tanto più una cosa è complicata e tanto più è da
considerarsi evoluta.
Che sciocchezza! La complicazione delle
concettualizzazioni astratte della mente ha il solo scopo di confondere, di
intorbidare, di rendere ambiguo.
In tutte le grandi religioni ai primordi
esistevano pochissime regole, impossibili da equivocare. I predicatori furbi le
hanno successivamente ampliate, contrapposte e contraddette per gestire meglio
il proprio potere interno e persuadere le menti semplici che sono troppo ottuse
per poter capire ogni cosa.
Gli scacchi seguono la stessa logica: una
mente semplice si convince di non potervi giocare per il loro eccesso di
regole, e subisce l’inganno credendo addirittura che solo pochi cervelli eletti
hanno la mirabile facoltà di praticare questo gioco. La mente semplice si
accontenta della dama, quasi schernendosi per i propri limiti, quasi pensando:
posso permettermi solo un gioco semplice e banale come questo.
Se gli scacchi venissero aboliti, se
scomparisse la loro memoria, se la dama diventasse l’unico gioco da tavola
tradizionale e tutti lo praticassero, la società umana evolverebbe verso la
lineare semplicità dell’onesta e delle poche regole non sporcate dalle eccezioni dei furbi.
Ma chi potrà mai estirparli ora che, dopo
millenni, sono così profondamente radicati nella storia e nel cervello degli
uomini?
*
Il
secondo, aggiunto ai commenti sul big match fra Roma e Juventus, parlava di
piedi femminili…
*
Non mi piace essere l’oggetto dell’interesse
altrui. Ormai tutti guardano tutti, spiano il privato, attingono all’intimo,
normalizzano l’indiscrezione, si mettono in mostra illimitatamente e
illimitatamente s’impicciano delle vite altrui (altrettanto generosamente
offerte alla pubblica attenzione, bisogna riconoscerlo).
Io sono fra i compatiti pochi che non si
adeguano, fiero della mia riservatezza. Per tale motivo cammino a testa bassa,
lascio penzolare gli occhi in direzione dei miei piedi più che dell’orizzonte.
Mi affascina, peraltro, la veduta del cielo che in un luogo irraggiungibile si
unisce alla terra, ma puntare lo sguardo verso quell’incanto implica il dover
esporre la mia brutta faccia alle bruttissime ingerenze altrui: estranei che mi
giudicano e talvolta mi identificano come volto noto, adocchiato casualmente in
un luogo di lavoro o emerso nei meandri della loro memoria con tratti più
giovani ai tempi della scuola. E ne consegue, da parte loro, il vergognoso
orgoglio di raccontarmi ciò che gli passa fin dentro le mutande, e la pretesa
di conoscere uguali dettagli da parte mia…
E allora, camminare a testa bassa: questa è
la prima contromisura.
Inoltre, chinato verso il suolo, l’occhio
raccoglie umili ma importanti dettagli che sfuggono agli esibizionisti globali,
troppo intenti a mettersi in evidenza e nel contempo annotare l’esibizionismo
altrui.
Camminando piegato ho preso l’abitudine di
apprezzare le donne a partire dai piedi. Li osservo disinteressandomi di tutto
il resto, sono l’unico dettaglio che di esse conosco. Trascorro lunghi minuti
ad osservare le aggraziate posture di piedi con la pelle liscia e curata come
quella di un viso, elegantemente abbigliati con un sandalo egiziano o
un’infradito, le unghie decorate di smalto brillante, vistoso, provocante, le
caviglie evidenziate dall’oro di una cavigliera che ha la preziosa raffinatezza
di un bracciale sul polso.
Anche questo è impicciarsi, beninteso, ma è
proprio per evitarne la volgarità che mi limito ai piedi: la loro bellezza è
priva di identità. Neppure moglie e marito saprebbero riconoscersi se gli fosse
fornito come unico indizio l’immagine di un piede.
“È del suo coniuge?”
Chi lo sa! I volti possono essere
memorizzati, le mani parzialmente riconosciute, ma i piedi, se non dotati di
segni di distinzione particolari, rimangono troppo anonimi persino per
l’osservatore più fisionomista. Io non sfuggo a tale limite, ho le medesime
incapacità di qualunque altro essere umano, e ciononostante in un’occasione ho
riconosciuto una donna soffermando lo sguardo sulle sue ciabattine da mare.
Mi disinteressai del busto e della faccia,
incanalai la vista su polpacci e caviglie, non spiai mai al di sopra delle
ginocchia, eppure compresi di conoscerla. Quel piede mi era noto, la sua carne pallida
era già stata ammirata dalle mie pupille, carezzata dalle mie mani, persino
baciata affettuosamente dalle mie labbra quando il piede era ancora un piedino
di bimba.
Ero stato riconosciuto a mia volta, infatti
quei piedi scapparono con movimenti repentini, ingoffiti dalla mancanza di un
laccetto a sostegno dietro il tallone. Una delle due ciabattine rimase
sull’asfalto. Mi piegai per raccoglierla e alzai inconsciamente lo sguardo
mentre mi risollevavo. Ebbi la certezza che la donna fosse proprio lei. Se
voleva fortemente evitare di incontrarmi aveva valide ragioni di imbarazzo, ma
io mi lasciai contagiare dall’ormai dominante costume di voler sapere tutto
delle vite altrui e volli indagare. In fondo si trattava di una vita che mi
riguardava da vicino, una vita alla quale avevo contribuito. Fui giustamente
punito scoprendo ciò che sarebbe stato assai meglio ignorare.
*
Il
terzo, l’ultimo, era stato postato in mezzo alle recensioni di un film
drammatico lodato dalla critica ma schifato dalla maggioranza degli spettatori,
più o meno nello stesso orario in cui Doglia e i colleghi si avviavano al
commissariato per la riunione straordinaria notturna in seguito all’attentato
di Trastevere. Era un’analisi dei comportamenti sociali.
*
Sapere a proposito degli altri è talmente
facile ormai!
Non occorre impegnarsi granché: ognuno
racconta tutto di se stesso, pubblica sequenze fotografiche della sua giornata,
scrive il pubblico diario della propria settimana, rivela ogni intimità fisica
e psichica del corpo e della mente.
Qualche isolato anticonformista l’ha definita
una follia, eppure c’è logica in questa follia.
Mettersi in mostra è la maniera contemporanea
di sentirsi vivi. “Bisogna vivere la propria vita per raccontarla” diceva uno
scrittore, e ormai siamo arrivati al punto in cui raccontarla – spingendosi in
ogni più infimo e scabroso dettaglio – è persino più importante che viverla.
Compiere un’azione senza darne notizia, senza avere l’illusione che gli altri
possano assistervi come se fosse un film, ha il sapore dell’inutile.
Allora via, condivisione costante: webcam
sempre accesa, profilo personale perennemente aggiornato su tutti i social
networks:
“Questo sono io alle tre di notte mentre
dormo; questo sono sempre io alle quattro e mezza mentre vado al bagno a
pisciare…”
Questo tipo di atteggiamento si incastra bene
con l’esasperata morbosità altrui in un rapporto che si capovolge di continuo:
esibizionista della propria vita e voyeur di quelle altrui, ognuno è a turno
maniaco e guardone.
Questa bipolarità costituisce la sublimazione
della frustrazione originata dalla consapevolezza del proprio anonimato:
l’incapacità di ottenere una visibilità pubblica e di essere braccato dai mass
media causa un complesso di inferiorità, ci si sente mediocri. E allora ognuno
si trasforma nel paparazzo della propria esistenza: costantemente
auto-inquadrato dalla telecamera in casa, appena esce si insegue e si scatta
foto nella veste di fotografo e cronista scandalistico di se stesso. É una
forma di schizofrenia, una malattia, però più tollerabile rispetto allo stress
depressivo causato dalla fama negata, dal senso di fallimento per il mancato
successo come star della musica, della televisione, del cinema o di quant’altro
abbia inventato l’umanità per creare una categoria di improbabili semidei
adorati dalle folle non per le loro imprese, bensì per la banale capacità
d’intrattenere, o persino per la loro mera apparenza esteriore seducente.
Essere al centro dell’attenzione morbosa altrui dona l’illusione di una vita
piena.
Io sono talmente morto, ormai, da non aver
bisogno di sentirmi vivo, tanto meno in una forma di patetica autocelebrazione.
È questa la mia salvezza: l’assenza di motivazioni per inseguire la parvenza
della visibilità. Io vorrei il contrario: scomparire del tutto, diventare un
invisibile fantasma.
Prima, però, voglio provare a concludere il
proposito che mi sono imposto. È difficile stabilire sino a quale punto possa
spingermi, sino a dove abbia senso arrivare. In effetti, arrivare dove? E cosa
ha davvero senso in questo grottesco teatrino di esibizionisti guardoni?
*
Il
poliziotto ritenne opportuno raccogliere informazioni sull’autore dei tre
messaggi, fregandosene delle opinioni del ministro e del capo della polizia.
CONTINUA…