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venerdì 31 ottobre 2014

L'era dell'esibizionismo globale - 4

AVVISO IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI

5
Il messaggio della polizia postale era giunto verso le undici di sera. Venti minuti dopo era in corso una videoconferenza unificata fra tutti i commissariati capitolini, le caserme dell’Arma, il ministero dell’interno e i servizi segreti. Stranamente le procedure di sicurezza erano state rispettate e nessun giornalista era stato ammesso. I poliziotti, i carabinieri, i sottosegretari e il ministro erano stati gentilmente pregati di tenere spenti i cellulari e di non divulgare immagini e contenuti della riunione su facebook, twitter, instagram e compagnia cantante.
“L’ipotesi investigativa del vice ispettore Doglia” stava spiegando il capo della polizia “ha fornito uno spunto. Ribadisco: solo uno spunto. Non vi sono né confessioni né rivendicazioni, solo tre messaggi generici postati dalla medesima persona circa due ore dopo i tre attentati”.
Sui volti dei militari e dei politici si tratteggiarono smorfie di delusione.
“Da un punto di vista procedurale non ci sono gli estremi per poter autorizzare l’avvio di un’indagine sull’autore dei tre messaggi in questione. Tuttavia, vista la straordinarietà della situazione, se si ritiene opportuno applicare una deroga…”
Il commissario capo lasciò in sospeso la frase per non pronunciare concetti troppo apertamente illegali. Si affidò alla libera interpretazione dell’audience che lo ascoltava e alla loro valutazione in merito.
“Alquanto inopportuno” lo stroncò in due parole un sottosegretario. Il ministro, con un cenno della testa, benediceva l’intervento del suo sottoposto.
“Allora questa ipotesi viene scartata” tagliò corto il capo della polizia. “Passiamo alla successiva, elaborata dal prefetto Dolgetta. Per questa ci occorrerebbe la collaborazione della Rai: dovremmo far trasmettere in prima serata un’intervista fittizia a un tizio qualunque che si attribuisca la responsabilità degli attentati, e mettere a disposizione degli spettatori un numero verde per porgli domande ed eventualmente smentirlo. È plausibile che il vero attentatore chiamerebbe per evitare che qualcun altro gli sottragga il merito delle azioni dinamitarde…”
Doglia si alzò dalla propria sedia e si allontanò dalla sala riunioni del commissariato.
“Dove vai?” gli sussurrò scandalizzato Berruti.
“Al bagno”.
Era tutto chiaro adesso: la sua ipotesi investigativa era stata data in pasto ai mass media per sviarli. L’avevano proposta per prima perché la ritenevano la più debole, quella da cassare subito. Nel prosieguo della videoconferenza sarebbero state trattate le proposte più credibili.
Si accomodò nel cesso, abbassò il copriwater e si sedette sul wc come se fosse la sedia di un ufficio. Col cellulare di lavoro entrò nella rete dei dati relativi agli attentati e scaricò le informazioni relative alla sua richiesta.
L’IP che era stato attivo esclusivamente nei giorni delle esplosioni apparteneva a tale Vincenzo Eranio.
Aveva pubblicato tre messaggi su tre diversi quotidiani on line, tutti sotto forma di commento ad un articolo e tutti postati in forma anonima. Non avevano alcuna apparente attinenza con le notizie che commentavano. Il primo, aggiunto fra le opinioni relative al decreto legge che abbassava a sedici anni il limite d’età per i giovani che intendevano pubblicare autoscatti del proprio corpo nudo sui profili dei social networks, parlava di scacchi…
*
Gli scacchi vengono considerati il più straordinario gioco di strategia e intelligenza creato dalla mente umana, ma dall’umanità traggono anche gli aspetti peggiori della sua evoluzione.
Gli scacchi hanno l’identica ambiguità e doppiezza della civiltà umana, che ha progredito la propria mente verso concettualizzazioni astratte incommensurabili e al tempo stesso ha sfruttato tale meravigliosa propensione per fini meschini.
La capacità divina dell’uomo di organizzare il pensiero e partorire concetti quali l’etica e la morale lo ha condotto altresì alla loro subdola manipolazione allo scopo di ingannare e comandare sul prossimo.
Gli scacchi costituiscono il simbolo concreto di tale ignobile metodologia.
Ogni pezzo ha i suoi movimenti specifici, che seguono regole precise per i loro spostamenti sulla scacchiera. Sarebbe un gioco perfetto, ma ecco che la viltà umana, con maligna intelligenza, vi applica le identiche, sordide eccezioni nate con lo scopo di complicare i rapporti sociali e la loro amministrazione a vantaggio dei più furbi.
Il pedone mangia solo in diagonale. Invece no! C’è un caso specifico in cui mangia il pezzo avversario tirando dritto grazie alla regola dell’en passant.
Oppure: con l’eccezione del cavallo nessun pezzo può passare sopra altri pezzi, né, tanto meno, se ne possono muovere due contemporaneamente. Ed ecco l’eccezione, l’arrocco, che consente di violare entrambe le regole in un colpo solo.
E ancora: il re è sotto scacco, ma potrebbe facilmente essere liberato grazie a un pezzo dello stesso colore che, con un semplice movimento, avrebbe la facoltà di mangiare il pezzo avversario che minaccia il re. Però non si può: se il re è sotto scacco, solo il re può essere mosso.
Questa è la falsità profonda degli scacchi, la stessa che caratterizza le legislazioni sociali umane con il proliferare di norme e regole che contraddicono altre esistenti. Le eccezioni (la parola preferita di tutti i disonesti del mondo) condizionano lo svolgimento della vita umana e di una partita di scacchi allo stesso modo.
Qualcuno obietterà che tali regole valgono per tutti gli uomini e per entrambi i giocatori: ogni cittadino può usufruirne, sia il bianco che il nero ne possono approfittare.
Ma ciò che io contesto è l’esistenza stessa di tali regole e la loro finalità. Esse nascono con lo scopo di confondere, di disorientare le menti più semplici, di favorire le persone con maggiore malizia, gli specialisti dell’applicazione perversa di una legge ai fini del proprio tornaconto personale. Queste eccezioni sono un ostacolo deliberato nei confronti di coloro che applicherebbero pedissequamente le leggi rendendo più lineare ed onesta una società o una partita a scacchi.
Più vi sono leggi, più una società è corrotta, sosteneva uno storico dell’antica Roma. Perché quando le regole sono tante solo pochi possono tenerle a mente e la massa della gente, purtroppo ottusa ma potenzialmente onesta, ne viene soggiogata. Oppure – peggio ancora – apprende a sua volta l’uso delle singole eccezioni e ne fa un uso disonesto seguendo l’esempio dei furbi e dei loro avvocati (o del meschino giocatore avversario).
Ecco perché sostengo che gli scacchi sono pregni di ambiguità e falsità come le peggiori società umane.
La dama sarebbe invece il gioco ideale al quale uniformarsi: qui non esistono eccezioni, le regole sono poche e incontrovertibili. Da qui nasce la contestazione tipica delle menti disoneste: gli scacchi sono più complessi, determinano una quantità di combinazioni e di situazioni infinitamente superiore, pertanto sono più interessanti e più avvincenti della dama.
L’inganno supremo della furbizia maligna: convincere l’umanità che tanto più una cosa è complicata e tanto più è da considerarsi evoluta.
Che sciocchezza! La complicazione delle concettualizzazioni astratte della mente ha il solo scopo di confondere, di intorbidare, di rendere ambiguo.
In tutte le grandi religioni ai primordi esistevano pochissime regole, impossibili da equivocare. I predicatori furbi le hanno successivamente ampliate, contrapposte e contraddette per gestire meglio il proprio potere interno e persuadere le menti semplici che sono troppo ottuse per poter capire ogni cosa.
Gli scacchi seguono la stessa logica: una mente semplice si convince di non potervi giocare per il loro eccesso di regole, e subisce l’inganno credendo addirittura che solo pochi cervelli eletti hanno la mirabile facoltà di praticare questo gioco. La mente semplice si accontenta della dama, quasi schernendosi per i propri limiti, quasi pensando: posso permettermi solo un gioco semplice e banale come questo.
Se gli scacchi venissero aboliti, se scomparisse la loro memoria, se la dama diventasse l’unico gioco da tavola tradizionale e tutti lo praticassero, la società umana evolverebbe verso la lineare semplicità dell’onesta e delle poche regole non sporcate dalle eccezioni dei furbi.
Ma chi potrà mai estirparli ora che, dopo millenni, sono così profondamente radicati nella storia e nel cervello degli uomini?
*
Il secondo, aggiunto ai commenti sul big match fra Roma e Juventus, parlava di piedi femminili…
*
Non mi piace essere l’oggetto dell’interesse altrui. Ormai tutti guardano tutti, spiano il privato, attingono all’intimo, normalizzano l’indiscrezione, si mettono in mostra illimitatamente e illimitatamente s’impicciano delle vite altrui (altrettanto generosamente offerte alla pubblica attenzione, bisogna riconoscerlo).
Io sono fra i compatiti pochi che non si adeguano, fiero della mia riservatezza. Per tale motivo cammino a testa bassa, lascio penzolare gli occhi in direzione dei miei piedi più che dell’orizzonte. Mi affascina, peraltro, la veduta del cielo che in un luogo irraggiungibile si unisce alla terra, ma puntare lo sguardo verso quell’incanto implica il dover esporre la mia brutta faccia alle bruttissime ingerenze altrui: estranei che mi giudicano e talvolta mi identificano come volto noto, adocchiato casualmente in un luogo di lavoro o emerso nei meandri della loro memoria con tratti più giovani ai tempi della scuola. E ne consegue, da parte loro, il vergognoso orgoglio di raccontarmi ciò che gli passa fin dentro le mutande, e la pretesa di conoscere uguali dettagli da parte mia…
E allora, camminare a testa bassa: questa è la prima contromisura.
Inoltre, chinato verso il suolo, l’occhio raccoglie umili ma importanti dettagli che sfuggono agli esibizionisti globali, troppo intenti a mettersi in evidenza e nel contempo annotare l’esibizionismo altrui.
Camminando piegato ho preso l’abitudine di apprezzare le donne a partire dai piedi. Li osservo disinteressandomi di tutto il resto, sono l’unico dettaglio che di esse conosco. Trascorro lunghi minuti ad osservare le aggraziate posture di piedi con la pelle liscia e curata come quella di un viso, elegantemente abbigliati con un sandalo egiziano o un’infradito, le unghie decorate di smalto brillante, vistoso, provocante, le caviglie evidenziate dall’oro di una cavigliera che ha la preziosa raffinatezza di un bracciale sul polso.
Anche questo è impicciarsi, beninteso, ma è proprio per evitarne la volgarità che mi limito ai piedi: la loro bellezza è priva di identità. Neppure moglie e marito saprebbero riconoscersi se gli fosse fornito come unico indizio l’immagine di un piede.
“È del suo coniuge?”
Chi lo sa! I volti possono essere memorizzati, le mani parzialmente riconosciute, ma i piedi, se non dotati di segni di distinzione particolari, rimangono troppo anonimi persino per l’osservatore più fisionomista. Io non sfuggo a tale limite, ho le medesime incapacità di qualunque altro essere umano, e ciononostante in un’occasione ho riconosciuto una donna soffermando lo sguardo sulle sue ciabattine da mare.
Mi disinteressai del busto e della faccia, incanalai la vista su polpacci e caviglie, non spiai mai al di sopra delle ginocchia, eppure compresi di conoscerla. Quel piede mi era noto, la sua carne pallida era già stata ammirata dalle mie pupille, carezzata dalle mie mani, persino baciata affettuosamente dalle mie labbra quando il piede era ancora un piedino di bimba.
Ero stato riconosciuto a mia volta, infatti quei piedi scapparono con movimenti repentini, ingoffiti dalla mancanza di un laccetto a sostegno dietro il tallone. Una delle due ciabattine rimase sull’asfalto. Mi piegai per raccoglierla e alzai inconsciamente lo sguardo mentre mi risollevavo. Ebbi la certezza che la donna fosse proprio lei. Se voleva fortemente evitare di incontrarmi aveva valide ragioni di imbarazzo, ma io mi lasciai contagiare dall’ormai dominante costume di voler sapere tutto delle vite altrui e volli indagare. In fondo si trattava di una vita che mi riguardava da vicino, una vita alla quale avevo contribuito. Fui giustamente punito scoprendo ciò che sarebbe stato assai meglio ignorare.
*
Il terzo, l’ultimo, era stato postato in mezzo alle recensioni di un film drammatico lodato dalla critica ma schifato dalla maggioranza degli spettatori, più o meno nello stesso orario in cui Doglia e i colleghi si avviavano al commissariato per la riunione straordinaria notturna in seguito all’attentato di Trastevere. Era un’analisi dei comportamenti sociali.
*
Sapere a proposito degli altri è talmente facile ormai!
Non occorre impegnarsi granché: ognuno racconta tutto di se stesso, pubblica sequenze fotografiche della sua giornata, scrive il pubblico diario della propria settimana, rivela ogni intimità fisica e psichica del corpo e della mente.
Qualche isolato anticonformista l’ha definita una follia, eppure c’è logica in questa follia.
Mettersi in mostra è la maniera contemporanea di sentirsi vivi. “Bisogna vivere la propria vita per raccontarla” diceva uno scrittore, e ormai siamo arrivati al punto in cui raccontarla – spingendosi in ogni più infimo e scabroso dettaglio – è persino più importante che viverla. Compiere un’azione senza darne notizia, senza avere l’illusione che gli altri possano assistervi come se fosse un film, ha il sapore dell’inutile.
Allora via, condivisione costante: webcam sempre accesa, profilo personale perennemente aggiornato su tutti i social networks:
“Questo sono io alle tre di notte mentre dormo; questo sono sempre io alle quattro e mezza mentre vado al bagno a pisciare…”
Questo tipo di atteggiamento si incastra bene con l’esasperata morbosità altrui in un rapporto che si capovolge di continuo: esibizionista della propria vita e voyeur di quelle altrui, ognuno è a turno maniaco e guardone.
Questa bipolarità costituisce la sublimazione della frustrazione originata dalla consapevolezza del proprio anonimato: l’incapacità di ottenere una visibilità pubblica e di essere braccato dai mass media causa un complesso di inferiorità, ci si sente mediocri. E allora ognuno si trasforma nel paparazzo della propria esistenza: costantemente auto-inquadrato dalla telecamera in casa, appena esce si insegue e si scatta foto nella veste di fotografo e cronista scandalistico di se stesso. É una forma di schizofrenia, una malattia, però più tollerabile rispetto allo stress depressivo causato dalla fama negata, dal senso di fallimento per il mancato successo come star della musica, della televisione, del cinema o di quant’altro abbia inventato l’umanità per creare una categoria di improbabili semidei adorati dalle folle non per le loro imprese, bensì per la banale capacità d’intrattenere, o persino per la loro mera apparenza esteriore seducente. Essere al centro dell’attenzione morbosa altrui dona l’illusione di una vita piena.
Io sono talmente morto, ormai, da non aver bisogno di sentirmi vivo, tanto meno in una forma di patetica autocelebrazione. È questa la mia salvezza: l’assenza di motivazioni per inseguire la parvenza della visibilità. Io vorrei il contrario: scomparire del tutto, diventare un invisibile fantasma.
Prima, però, voglio provare a concludere il proposito che mi sono imposto. È difficile stabilire sino a quale punto possa spingermi, sino a dove abbia senso arrivare. In effetti, arrivare dove? E cosa ha davvero senso in questo grottesco teatrino di esibizionisti guardoni?
*
Il poliziotto ritenne opportuno raccogliere informazioni sull’autore dei tre messaggi, fregandosene delle opinioni del ministro e del capo della polizia.


CONTINUA…

mercoledì 29 ottobre 2014

L'era dell'esibizionismo globale - 3

AVVISO IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI

3
La riunione era iniziata all’una di notte e aveva prodotto gli unici risultati possibili: banalità elaborate da teste annebbiate dal sonno.
Erano state azzardate una decina di ipotesi investigative, plausibili ma troppo generiche, e ciascuna era stata assegnata a una squadra.
L’ispettore Berruti avrebbe dovuto analizzare il web per un’ulteriore ricerca di rivendicazioni, che al momento attuale assurdamente mancavano. Era questa la stranezza sconcertante degli attentati: nessuno si era fatto vanto di aver sventrato tre case, di aver provocato la morte di quattro persone e il ferimento di altrettante e, soprattutto, di aver beffato la polizia.
Messaggi che affermavano “sono stato io” ne erano circolati tanti, ma di scarsa credibilità: in gran parte erano riconducibili ad IP di connessioni registrate a nome di conclamati mitomani e sciacalli, i restanti comparivano in discussioni scherzose sul web e costituivano chiaramente un’innocente battuta ironica da parte di onesti cittadini avvezzi a cazzeggiare su ogni argomento, stragi e cataclismi inclusi.
“Compito del giorno: cercare un ago in un pagliaio” ironizzò torvo Berruti. Erano le sei di mattina, aveva già bevuto quattro caffè e non avrebbe saputo dire se era più il sonno o il giramento di palle. Ma davvero i superiori pensavano di risolvere il caso con questo tipo di approccio?
“Bisogna avere pazienza e aspettare i riscontri della scientifica” pensava ad alta voce. “Se dobbiamo scovare un matto che non sente la necessità di condividere i suoi gesti con gli altri, che possiamo fare?”
Su questo punto erano tutti d’accordo, non c’erano dubbi: si trattava di un pazzo. Non perché avesse commesso tre attentati e causato dei morti, ma perché aveva compiuto un gesto clamoroso mantenendo l’anonimato.
“Iniziamo a cercare l’ago” filosofeggiò Doglia.
“Ti vedo meno rincoglionito del solito” lo insolentì Berruti con un tono di voce che aveva l’intenzione di essere amichevole e invece suonava stizzoso. Ma la battuta acida aveva un fondo di verità: in quel momento il poliziotto apatico sembrava realmente più solerte del suo capo. Probabilmente era una delle sue giornate (in questo caso nottate) lucide: la soglia di attenzione si manteneva salda e gli occhi si incollavano senza distrazioni su una sequenza di immagini delle case distrutte dai precedenti attentati.
“Proposte?” sbuffò retoricamente Berruti.
“Possiamo accedere anche al database della polizia postale?” si informò il vice.
“Sì: postale, scientifica, carabinieri, ministero dell’interno… tutto a disposizione. Dieci miliardi di informazioni e tre ore scarse per leggerle. Forse il commissario pensa che stiamo recitando in un telefilm e fra un po’ ci passano la sceneggiatura con gli indizi suggeriti dal cugino di secondo grado dell’ispettore Montalbano, compreso il nome del colpevole”.
Si accorse che Doglia stava digitando sulla tastiera del pc.
“Che combini?”
“Ho esaminato le tipologie dei controlli eseguiti sul web…”
“Hanno già ammesso di non aver trovato niente” lo interruppe Berruti. “Ricontrollare non serve a un cazzo”.
“Però manca l’analisi che ho in mente io. Sto inoltrando una richiesta specifica ai colleghi della polizia postale” Si voltò verso l’ispettore per spiegare meglio l’idea. “In apparenza questo tizio non ha mai rivendicato gli attentati, ma forse l’ha fatto in maniera non palese”.
Berruti alzò il collo con uno scatto nervoso. I suoi occhietti piccoli e spiritati si restrinsero. “Che ti stai inventando?”
“Sto chiedendo di verificare tutti gli IP che nelle ultime due settimane sono stati attivi esclusivamente nei tre giorni in cui si sono verificati gli attacchi dinamitardi”.
L’ispettore dovette faticare alcuni secondi prima di riuscire a capire. “Va bene anche questo pur di dimostrare al commissario che stiamo azzardando qualche pista. Però, scusa se te lo dico: è una stronzata da guinness dei primati! Ti pare logico che l’attentatore abbia una connessione IP e per due settimane la lasci inutilizzata connettendosi solo nei giorni in cui colpisce? Probabile come una puttana ancora vergine!”
“Se questa persona è matta, come tu dici, potrebbe commettere matterie del genere”.
“Sì, ti pare? Uno si scopa la gran gnocca della vicina di casa, il sabato mattina va al bar, si siede con gli amici e, invece di annunciare ‘Mi sono fatto Annetta!’, mastica a testa bassa ‘Ieri sera ho visto un bel film in televisione’… Proprio un comportamento plausibile, eh?... Ma dai, neppure uno psicopatico resisterebbe alla tentazione di pavoneggiarsi! Se per qualche problema di cervello preferisce non dirlo, sta zitto e basta! Non esistono vie di mezzo!”
“Può darsi che sia una specie di sfida” replicò tranquillo Doglia, solita voce cantilenante ma occhi con pupille immobili rispetto al giorno primo. “Il matto dice agli amici: ‘ho visto un bel film’ affinché gli chiedano: ‘quale?’ e lui possa rispondere un titolo inesistente, così loro capiscono che li sta trascinando in un indovinello. Se però gli amici sono talmente idioti da non capire, il matto lascia perdere e non dice più nulla”.
Prima che Berruti replicasse, Doglia aggiunse ulteriori argomentazioni con insolita prontezza: “Oppure, è possibile che il tizio non possa rivelare di essersi fatto Annetta per altri motivi, perciò si proibisce di parlarne. Però, inconsciamente, si lascia scappare indizi perché in fondo vorrebbe realmente vantarsene. È un comportamento studiato e codificato da numerosi saggi di psicologia”.
L’ispettore scacciò l’ipotesi con un gesto della mano, come se fosse una mosca fastidiosa.  “Non esiste un motivo valido per tenersi qualcosa dentro: la gente normale spiattellerebbe tutto. Uno con turbe psichiche forse no, e qui si chiude ogni possibilità. Siccome la situazione è la seconda che ho detto, possiamo solo sperare che la scientifica becchi qualche elemento utile esaminando il materiale esplosivo… qualcosa che li faccia risalire a uno che vende o confeziona i prodotti utilizzati. Le ricerche di messaggi nascosti sono inutili. Comunque, procedi. Il capo voleva anche ricerche inutili e noi lo accontentiamo”.
Doglia esitò prima di inviare l’e-mail. “Quanto pensi che gli occorra ai colleghi della postale?”
“Per verificare la tua domanda? Se lo scanning è circoscritto agli indirizzi IP di Roma probabilmente basta un giorno; se lo estendono a livello nazionale gli ci vorrà una settimana, o anche dieci giorni”.
Il poliziotto specificò che l’analisi doveva limitarsi all’area urbana e spedì la posta elettronica. In fin dei conti i tre botti erano scoppiati a Roma: assai probabile che l’attentatore risiedesse nella capitale.
“E adesso che facciamo?” si inacidì nuovamente Berruti.
“Visto che ho dato il mio contributo” azzardò Doglia “Vorrei prendermi tre ore di permesso”.
“Guarda che i morti mica resuscitano a forza di visite”.
L’ispettore era convinto che la brutalità fosse una necessità inevitabile per aiutare coloro che non riescono ad accettare la scomparsa dei propri cari. Usava questo tipo di cortesia nei confronti del suo vice ogni volta che gli chiedeva di potersi assentare al mattino per andare al cimitero. Le visite al Verano da parte di Doglia parevano troppo frequenti a Berruti, un serio ostacolo all’elaborazione del lutto. Come ulteriore cortesia s’inventò un’alternativa:
“A te piace leggere, no?”
Il poliziotto confermò.
“Alle otto e mezza presentano l’ultimo libro di uno scrittore famoso alla libreria qui di fronte. Ci saranno pure Teleroma 56 e Rai 3, se hai culo ti inquadrano e domani ti dicono ‘Ti ho visto in televisione’ così ti dai pure un po’ d’arie”.
“Va bene” si arrese senza combattere Doglia. “Sto in servizio fino alle otto e mezza e la pausa la faccio in libreria”.

4
Un ragazzo stava filmando l’espositore con decine di volumi del romanzo postumo di Edwin Maas. Si autoinquadrò declamando: “In questo momento sto acquistando ‘L’invisibilità mortale’. Come potete vedere ci sono ancora molte copie disponibili, io sono uno dei primi compratori. Sono venuto in anticipo, stamattina presto, e ho aspettato che la libreria aprisse perché sapevo che più tardi non l’avrei trovato. Normalmente compro solo ebook, ma i libri speciali preferisco possederli anche in formato cartaceo perché mi permettono di decorare in forma visibile e concettuale lo spazio espositivo della mia biblioteca domestica con tutte quelle opere che definiscono la mia personale opinione a proposito di tutto ciò che è degno di essere chiamato letteratura...”
Poco più in là una signora sui quarant’anni, nuda, stava passeggiando lungo lo scaffale dei classici ondeggiando le chiappe cellulitiche e due poppe cadenti. Un’amica la riprendeva con la telecamera.
“Devono partecipare a una sfida lanciata da un blog per il miglior video amatoriale, una cosa di questo genere” spiegò un commesso in risposta allo sguardo incuriosito di Doglia.
“Chi è l’autore che oggi deve presentare il suo libro?” gli domandò il poliziotto.
“Non è qui” si offese il commesso. “Deve andare alla Giunti, quella alla fine della via”.
Doglia mandò mentalmente a quel paese l’inaccuratezza di Berruti e andò a nascondersi nell’angolo coi libri gialli classici: le improbabili indagini deduttive di Poirot, Holmes, Chang, Vance.
C’erano altri due appassionati, un uomo e una donna. Stavano fantasticando a proposito degli attentati.
“… la polizia, mi pare chiaro. Se volessero l’avrebbero già arrestato. Loro sperano che si crei un clima di terrore per convincerci a starcene tutti chiusi dentro casa”.
“Ma stanno facendo una figura di merda! Secondo te accetterebbero di essere sputtanati solo per assecondare un progetto politico di coprifuoco?”
“Non ho detto: ‘politico’. Parlo proprio di polizia: vogliono togliere la gente dalle strade e spingerla nel chiuso delle abitazioni private per facilitarsi il lavoro. Non mi stupirei se a mettere le bombe fosse stato proprio un poliziotto col benestare dei suoi capi. Lo sputtanamento interno fa parte del progetto: loro devono convincerci che sono una massa di incapaci e non sono in grado di proteggerci, così avremo tutti paura a uscire di casa”.
Doglia sorrise. Ebbe la tentazione di avvicinarsi al complottista mostrandogli il tesserino e invitandolo a seguirlo in commissariato per esporre meglio la sua teoria (“Sa, siamo proprio alla disperata ricerca di ipotesi investigative, la sua idea potrebbe essere uno spunto utile”). Ma optò per la serietà professionale e lo ignorò.
In quel momento dal cellulare della donna si udì un bip.
“Ultime news” lesse. “Dice che stanotte c’è stato un brainstorming in tutti i commissariati per affinare le strategie delle indagini. La caccia all’attentatore è a un passo dalla soluzione, il cerchio si stringe”.
“Dicono sempre così” commentò sprezzante l’uomo.
“Stanno seguendo una pista” specificò la donna. “La polizia postale sta analizzando tutti gli IP di Roma che sono stati attivi esclusivamente nei tre giorni in cui si sono verificati gli attentati”.
Il libro che Doglia stava sfogliando cadde in terra. Il poliziotto si avviò verso l’uscita della libreria scuotendo la testa per scrollarsi di dosso l’incredulità. L’idiozia degli alti comandi e la loro assurda abitudine di comunicare ai mass media ogni dettaglio delle indagini era inconcepibile per lui. Il livello di scazzatura era troppo elevato per poter essere mitigato dalla constatazione che la sua proposta era stata – evidentemente – ritenuta la più originale nonostante l’opinione avversa di Berruti.


CONTINUA…

lunedì 27 ottobre 2014

L'era dell'esibizionismo globale - 2

AVVISO IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI

2
La testa era ancora appoggiata sulla mano e il gomito ugualmente piantato sopra un tavolo. Cambiavano solo i dettagli: il disordinato angolo cucina di casa invece dell’ufficio del commissariato e il pigiama già indosso – anche se erano solo le nove di sera – al posto della camicia e dei jeans.
Alle sette e dieci Doglia aveva postato il suo personale messaggio di addio a Edwin Maas:
Le tue parole sono entrate a far parte di tante vite e neppure la tua scomparsa potrà mai cancellarle
e poi si era trattenuto per circa un’ora leggendo i successivi commenti. Li leggeva nel senso che ripeteva a voce bassa i suoni di vocali e consonanti mentre comparivano a ritmo continuo nella shoutbox sotto forma di incomprensibili sequenze. Erano quasi esclusivamente vocaboli di idiomi a lui ignoti, talvolta apparivano persino caratteri di altri alfabeti. Le parole italiane o comunque identificabili erano rarissime, prevalevano le lingue assurde.
Verso le otto aveva virato su facebook per rispondere ad alcune notifiche sul proprio profilo, e uno dei suoi ‘amici’ gli aveva rammentato che l’indomani il Royal Majesty Channel di youtube avrebbe trasmesso in diretta la prima notte di nozze del principe erede Oliver e della fresca sposina Virginia (ironia del nome). Il messaggio si concludeva specificando che su twitter era già predisposto, con largo anticipo, l’hashtag #fucKingAndQueen per commentare la regale scopata…
Che poi non ho ancora capito per quale cazzo di motivo dobbiamo sempre adattarci a questi stracazzo di hashtag inglesi e quelli in italiano vengono ignorati. Cioè, cazzo, vedi commenti italiani che quotano l’hashtag inglese, e intanto l’hashtag italiano sullo stesso argomento rimane a quota zero perché non se lo fila nessuno. Siamo proprio un popolo di esterofili!
Vabbé. Ci vediamo!
Doglia non aveva risposto, né all’amico in questione né a nessun altro.
Successivamente aveva visionato il sito della sua amica Rosanna, che sul web si faceva chiamare semplicemente Rosi. La webcam la riprendeva in tempo reale mentre guardava la televisione. Ogni tanto si girava verso la telecamera e lanciava un bacio con la mano, poi subito digitava un messaggio sul proprio pc che in un attimo scorreva nella parte bassa dello schermo:
un kiss a tutti quelli che mi seguono :-*
Era da parecchie settimane che non aveva l’occasione di parlarci. Le inoltrò un messaggino generico, subito stuzzicandone la reazione: la donna si voltò voluttuosamente in direzione della webcam e stavolta il bacio venne lanciato a due mani.
Special kiss per l’amico Sandro!
Il nome di Doglia non era Sandro, ma il poliziotto decise di essere indulgente: una che si firma Rosi e in realtà si chiama Rosanna denota scarso feeling coi nomi di battesimo. E poi, in fondo, lo stress della telecamera in diretta è sempre in agguato: qualche gaffe può capitare a chiunque.
Intanto la donna, accoccolata sul proprio divano, gattona come una quattordicenne anche se nel suo caso le cifre dell’età dovevano essere invertite, guardava la tele e si beava del suo reality preferito. Alla prima interruzione pubblicitaria qualcosa la sconvolse. Nuovi sottotitoli comparvero nella parte bassa dell’inquadratura, stavolta tutto acido e niente miele.
Bastardo figlio di puttana! Quando lo prendono devono chiuderlo in carcere e buttare la chiave!
Lo sfogo digitato da Rosi suscitò la curiosità di Doglia, che subito aprì una nuova finestra sul web per visionare un sito aggregatore di notizie. L’ultimora titolava in rosso, il colore delle news più eclatanti e tragiche, per informare che l’attentatore misterioso aveva appena colpito pochi minuti prima, sempre a Roma, stavolta nella zona di Trastevere. Un’esplosione aveva sventrato l’appartamento di un pianterreno: i dati erano ancora confusi ma si temevano morti e feriti come nei due casi precedenti.
Doglia trascinò le gambe verso il lato notte del suo angusto monolocale e accese la televisione appesa strategicamente sull’armadio posto ai piedi del letto, ma non si accomodò fra le lenzuola: preferì rimanere seduto sul bordo, in una posizione piuttosto scomoda, per evitare di addormentarsi. Voleva seguire senza distrazioni ogni aggiornamento.
Canale 5 trasmetteva ancora il reality show preferito di Rosanna, ma la presentatrice lanciò un messaggio non pubblicitario – o semmai diversamente pubblicitario – che annunciava uno special sul nuovo attentato all’interno del programma Tenera è la notte subito dopo il reality. La conduttrice del programma, la nota pornostar Ylene, avrebbe aggiornato i telespettatori su ogni nuova notizia tra un’esibizione e l’altra.
Rai 1 aveva invece improvvisato un tiggì in edizione straordinaria, scusandosi coi telespettatori per aver cancellato L’intervista sul filo del rasoio, che tanti attendevano con curiosità perché l’ospite era il sospettato di un omicidio passionale e già da alcuni giorni giravano sondaggi e scommesse sul grado di probabilità che l’intervistato mostrasse gravi segni di alterazione nella pressione sanguigna e nel grado di secchezza della gola (misurate in tempo reale dagli apparati medici) non appena l’intervistatore avesse sottolineato la presenza del suo DNA sulle vesti della ragazza uccisa.
L’anchorman diede la linea al reporter collegato in diretta da Trastevere. I pompieri erano già intervenuti e il fuoco era ormai domato, ma il buio rischiarato dai lampioni appariva saturo di fuliggine e cenere.
“Come vedete è un disastro, una tragedia, il ripetersi di un incubo che si sta abbattendo sulla città di Roma e sull’Italia intera” esordì il reporter con l’enfasi di un attore melodrammatico, nel contempo impartendo disposizioni al cameraman tramite rapidi gesti della mano sinistra.
“Ma partiamo dall’inizio. Abbiamo un filmato in esclusiva per i nostri telespettatori” continuò orgoglioso l’inviato Rai: “Le scene dell’incendio subito dopo la deflagrazione”.
Vennero trasmesse le sequenze girate amatorialmente con un cellulare da un residente del palazzo di fronte, immagini sgranate di fiamme arancioni e fumo nero. L’autore della ripresa venne inquadrato dalla telecamera, sorridente e soddisfatto di se: lo stavano intervistando in diretta nazionale all’interno di un reportage che verosimilmente si sarebbe attestato a uno share del venticinque per cento.
“Ho sentito il botto e ho preso subito il Samsung per riprendere” spiegò. “Ché poi, ho pure una videocamera a alta definizione, ma nella fretta non ci ho mica pensato” aggiunse quasi scusandosi coi telespettatori.
“Ha chiamato lei i pompieri?” gli chiese il reporter.
“Veramente non ho pensato manco a questo. D’altronde era più importante documentare l’attentato col filmino, no?” si giustificò.
Il reporter gli diede ragione. Si rivolse nuovamente alle telecamere mentre l’intervistato continuava a stare piazzato davanti al cameraman e a lanciare saluti nonché digitare messaggi per amici e followers.
Poi toccò a un vigile del fuoco. L’inviato Rai sottolineò l’efficienza dimostrata dai coraggiosi pompieri, testimoniata da ben duemilottocentocinquantatre ‘mi piace’ ricevuti in pochi minuti sul loro profilo facebook relativamente a quest’intervento, e domandò con aria grave se vi fossero vittime.
“Purtroppo sì” commentò triste l’uomo in divisa. “Abbiamo appena aperto un hashtag per commemorare queste povere persone ancora senza nome: cancelletto loromeritanogiustizia. Le foto dei cadaveri carbonizzati sono già adesso visibili sulla nostra pagina instagram per aiutare l’identificazione…”
“Presumo che comunque la polizia dovrebbe riuscire a identificarli abbastanza facilmente” lo interruppe il reporter con la gola che gli raspava.
“Sì, certo, però abbiamo pensato che questa condivisione possa essere d’aiuto anche per le forze dell’ordine…”
Il reporter lo interruppe di nuovo. “Ma è pressoché certo che si tratti – almeno a rigor di logica – degli inquilini dell’appartamento distrutto…”
Si notava il fastidio dell’inviato Rai nei confronti del pompiere che aveva pubblicato le fotografie dei morti su instagram anziché richiedere la messa in onda televisiva. Uno sgarbo assai antipatico, soprattutto se si considerava che proveniva da uno al quale era stato concesso il privilegio di essere intervistato in diretta.
Intanto, mentre i due dibattevano, si intravedeva alle loro spalle una folla compatta di residenti del quartiere: numerosi trasteverini, ma anche tanti intrusi accorsi dai quartieri vicini, decine di esseri umani che si ammassavano pian piano nel riquadro della telecamera. Nel mucchio, un ragazzo con lunghi dreadlocks stava invitando gentilmente una signora anziana in lacrime a seguirlo in direzione del reporter. La vecchia indossava pantofole e vestaglia, era uscita di casa così come si trovava, terrorizzata dall’esplosione. Scuoteva la testa e si sottraeva all’abbraccio della visibilità, fuggiva dall’inquadratura, non voleva condividere con gli spettatori della Rai la propria paura ancora viva. Ma il giovane – forse un parente – insisteva, la prendeva per la mano, indicava la fila che già si era formata davanti al giornalista con tutti quelli che speravano di essere intervistati.
Le lacrime della donna schiva e traumatizzata ebbero tuttavia un istante di pubblica attenzione quando il cameraman zoomò su quel volto rugoso, un’inquadratura rapida e presto mollata perché il reporter aveva appena beccato un testimone importante: un uomo che sosteneva di essere stato il primo a chiamare il 113 per avvertire dell’esplosione, sebbene si udissero in sottofondo le urla di protesta di almeno altre tre persone che rivendicavano a loro volta quel primato.
Il volto dell’anziana scomparve dallo schermo televisivo, sostituito da quello giovanile e abbronzato di un trentenne che proclamava di aver telefonato sia alla polizia che ai pompieri per richiederne l’intervento.
Negli occhi di Doglia però si era fissata la sagoma della signora che piangeva, il suo orrore, la sua disperata incredulità. Quella donna non si capacitava della violenza sconvolgente che aveva appena funestato la sua vita ormai prossima a concludersi. ‘Perché?’, sembrava chiedersi senza trovare una risposta plausibile.
Un avviso di messaggio risuonò inatteso dal cellulare. Il mittente era il commissariato, le parole essenziali ma cariche di gravità:
Presentarsi tutti entro due ore nessuno escluso


CONTINUA…

sabato 25 ottobre 2014

L'era dell'esibizionismo globale - 1

AVVISO IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI

1
“… guardavo la televisione. Trasmettevano ‘Una giornata con’ e l’ospite era quella gran fica di Marga Orsini. La inquadravano pure sotto la doccia… Ma mi sta ascoltando?”
“Sì, ti sento. Continua”.
Non era vero. L’agente Doglia non ascoltava affatto e permetteva ai suoi pensieri di vagare altrove, di appigliarsi a qualunque distrazione. Nessuna durava più di un minuto.
Negli ultimi tempi gli succedeva sempre più frequentemente, persino durante gli interrogatori. Il sospettato blaterava il suo alibi all’aria e al registratore, mentre Doglia, gomito sulla scrivania e avambraccio trasformato nel sostegno della testa, lasciava ciondolare gli occhi e la loro soglia di attenzione ovunque, soprattutto verso il soffitto. Dieci canonici secondi di contemplazione rivolta al vuoto, e poi, inevitabile, si perdeva in un flusso di pensieri incerti alla ricerca di ulteriori vuoti ai quali appigliare la propria apatia per altre frazioni di minuto.
Alcuni colleghi, memori degli anni in cui l’uomo era costantemente efficiente (non a giorni alterni come gli capitava ormai da parecchi mesi) gli avevano inizialmente concesso l’improbabile indulgenza di ritenerlo un metodo voluto: un apparente disinteresse per allentare la concentrazione dell’interrogato, per dargli la sensazione che i sospetti della polizia nei suoi confronti fossero in realtà minimi e che la convocazione in commissariato e le relative domande fossero un’inutile perdita di tempo. In questo modo lo spingeva a parlare con più tranquillità e con maggiori probabilità di contraddirsi.
Col tempo, però, l’ipotesi si era rivelata infondata. Doglia non simulava affatto: quando sprofondava nelle sue giornate letargiche compiva svogliato ogni genere di attività, si incantava persino davanti alla macchinetta del caffè, tanto è vero che qualcuno malignò l’assunzione di medicinali altamente debilitanti.
Ecco, quella mattina lui era tediato o sedato: si deconcentrava e non prestava attenzione alla versione dei fatti fornita dal pregiudicato di turno. In effetti, già da alcuni mesi, anche nei giorni di lucidità si limitava a compiere burocraticamente le proprie mansioni: inviava l’avviso di comparizione al sospettato, gli rivolgeva faticosamente le domande stilate dall’ispettore Berruti al quale consegnava subito la registrazione dell’interrogatorio, esaminava le pratiche che gli erano state assegnate e poi attendeva passivo altre istruzioni. Non aggiungeva niente all’indagine, il suo contributo era ai limiti dell’inerzia.
Intanto il sospettato taceva. Osservava l’uomo che gli stava di fronte: abiti borghesi sgualciti, faccia ebete, sguardo perso nel nulla. Non aveva l’aspetto di un poliziotto.
Rimasero in questo stallo per quanto tempo?
Difficile dirlo: i distacchi dalla realtà di Doglia potevano durare anche una ventina di minuti. Se nessuno lo apostrofava lui non reagiva, si instupidiva nel nulla della sua concentrazione assente, si dissolveva nelle sue meditazioni prive di contenuto.
Si destò, infine, perché sullo schermo del pc era balenata una notizia che racchiudeva un nome a lui noto, quello di uno scrittore del quale aveva letto e apprezzato alcuni romanzi. Implicitamente si risveglio la sua consapevolezza che il pregiudicato attendeva altre domande.
“Dunque…” (lasciò scivolare gli occhi assonnati verso il foglio di Berruti) “Come hai trascorso la serata di martedì 19 maggio?”
L’interrogato esitò prima di replicare, quasi con imbarazzo: “Me l’ha già chiesto. Ho risposto prima”.
“Ah, va bene” si infastidì Doglia, impegnato a leggere la notizia che lo interessava. “Allora… Con quale gestore hai il contatto… no, scusa, il contratto per la connessione adsl e a quali condizioni?”
L’uomo rispose. Il poliziotto intanto si informava sui dettagli dell’imminente morte del romanziere olandese Edwin Maas, malato terminale di cancro al fegato. L’autore annunciava al mondo che alle ore 21:00 GMT avrebbe lasciato la vita terrena tramite iniezione letale praticata dal suo medico di fiducia. La scelta dell’eutanasia era l’inevitabile conseguenza delle tremende sofferenze fisiche causate dal suo male incurabile. Ma prima di andarsene avrebbe voluto salutare e quasi abbracciare virtualmente tutti i numerosi lettori dei suoi libri, pertanto li invitava – a partire dalle ore 16:00 GMT – a visitare il suo blog per lasciare un commento di addio sul suo ultimo post. Il server era stato appositamente implementato per permettergli di reggere l’urto di centinaia di migliaia di contatti contemporanei, e lo scrittore si auspicava di raggiungere il milione di contatti e un equivalente numero di commenti prima delle 21:00. Se avesse conseguito tale risultato avrebbe potuto morire sereno.
Mentre sospirava di fronte all’ineluttabilità della morte, Doglia si accorse che l’interrogato taceva nuovamente.
“Quale viene adesso?...” (continuando a reggersi la testa con la mano sinistra, allungò la destra sul foglio di Berruti e con movimenti intorpiditi delle dita vi tambureggiò sopra) “Sei iscritto a facebook?”
“Certo che sono iscritto” replicò il pregiudicato come se la risposta fosse sin troppo ovvia.
“Puoi accedere al tuo profilo?” cantilenò il poliziotto ripetendo meccanicamente la domanda trascritta dall’ispettore.
“Va bene” concesse l’uomo interrogato con un’occhiata perplessa.
In quel momento la porta si aprì inattesa. Berruti sedette di fronte a Doglia e lo salutò, senza ricevere alcuna risposta: il suo vice stava digitando sull’agenda del cellulare un promemoria per rammentarsi che alle 19 avrebbe dovuto inserire un commento sul blog di Edwin Maas.
“Dormito bene?” lo provocò l’ispettore.
“Ah, sei tu” si risvegliò Doglia notando la persona in più nella stanza.
“Mi sono connesso come m’ha chiesto” s’intromise tra i due il pregiudicato.
Berruti gli tolse di mano il palmare col quale aveva appena aperto il profilo su facebook.
“Confermi ciò che hai affermato in presenza del mio collega?” intimò senza preamboli.
L’interrogato assentì.
“Allora ci hai preso per il culo. Se martedì non ti sei mosso da casa tua all’Eur, per quale motivo il tuo profilo è stato aggiornato alle otto di sera tramite la connessione wi-fi privata di un condominio di Monteverde?”
“Mi sarò connesso a sbafo” scherzò il pregiudicato “Ormai sté connessioni wi-fi sono potentissime, c’hanno campo pure a dieci chilometri di distanza”.
“Ogni stronzata che aggiungi peggiora la tua posizione”.
“Beh, mo’ che ci penso meglio” inghiottì riluttante il sospettato “forse avevo fatto due passi prima di cena…”
“Quindi dalle parti di Monteverde, dove è avvenuto il furto. All’interno dell’appartamento sono stati prelevati alcuni contanti, un rolex, quattro bracciali d’oro, tre anelli e uno smartphone”.
“Embé?”
“Sono esattamente gli oggetti che ti vanti di aver rubato nel tuo messaggio delle 20:21 di martedì 19 maggio” lo inchiodò Berruti.
“Ma è sicuro che sono gli stessi?” balbettò il ladro.
“Hai aggiunto anche la foto” precisò l’assistente dell’ispettore mostrando l’istantanea sul desktop del cellulare.
“Però ha visto quanti ‘mi piace’?” si vantò l’uomo ormai scoperto. Con un guizzo d’orgoglio aggiunse: “Guardi il furto ai Parioli dell’anno scorso: me ne hanno dati novemilaquattrocentocinquanta, un record!”
“Lei è in arresto per il furto nell’appartamento sito al quarto piano, interno 16, del condominio in via Cavallazzi al numero civico 4…”
“Eh no, un attimo!” si oppose l’arrestato. “Mica è detto che l’ho scritto io quel messaggio! Qualcuno è entrato nel mio profilo e m’ha fatto uno scherzo! Può succedere, no?”
Berruti chiamò ad alta voce un agente in divisa incaricandolo di accompagnare il ladro dal collega che avrebbe compilato il verbale di arresto e il documento per il rilascio sulla parola con obbligo di comunicare ogni cambio di domicilio.
“Ma daje, se lei stesso ha detto che il messaggio l’hanno scritto con una connessione diversa dalla mia, è ovvio che è stato qualcun altro! M’hanno incastrato!” si agitava il topo d’appartamento mentre il poliziotto lo trascinava fuori dalla stanza.
Doglia e Berruti erano rimasti soli. L’ispettore osservò il suo vice ipnotizzato dal cellulare.
“Che stai guardando?”
“Eh?... Ah, niente. Stavo solo rileggendo un promemoria che ho scritto”.
“Il commissario ha chiesto di dare priorità assoluta agli attentati e di interessarcene tutti”.
“Ah! Ma non li segue direttamente il capo insieme agli amici dell’Arma?”
“Sì, ma c’è urgenza di risolvere in tempi brevi. I giornali ci stanno massacrando, su facebook abbiamo ricevuto tre milioni e mezzo di ‘non mi piace’ in due giorni. Bisogna scoprire i colpevoli e arrestarli”.
“E che dovremmo fare?” si stiracchiò Doglia.
“I dati raccolti sono stati messi a disposizione di tutti i dipartimenti. Possiamo accedere all’area riservata e attingere a ogni informazione, comprese le perizie della scientifica. Chiunque abbia qualche ipotesi investigativa la può comunicare subito al capo tramite e-mail. Non ci sono più gerarchie per questo caso: ognuno può intervenire, purché serva a scovare l’attentatore”.
“Ci darò un’occhiata domani” rispose scompostamente Doglia lasciando scivolare ogni sillaba dentro un lungo sbadiglio.


CONTINUA…

venerdì 24 ottobre 2014

"L'era dell'esibizionismo globale" prende forma

Nelle settimane scorse ho pubblicato una recensione immaginaria che ha suscitato più interesse di quanto avrei immaginato. Su un forum che frequento diversi utenti mi hanno chiesto se il libro in questione esistesse davvero o quanto meno lo stessi scrivendo per proporlo successivamente.
Trasformare l’idea di base esposta nel post in un romanzo era decisamente impegnativo. Però svilupparci un racconto breve, di quelli che se venissero pubblicati in un formato tascabile prenderebbero una trentina di pagine, era fattibile persino per uno scribacchino di serie B come Ariano Geta ;-)
Pertanto per i prossimi quattordici giorni verranno pubblicati sul blog - alla media di un post ogni due giorni - i capitoli di una storia che era già stata recensita ma non ancora scritta (e per questo ho provveduto io) e conseguentemente neppure letta (e per quest'altro mi auguro che provvediate voi ;-)
Appuntamento da domani sino al 6 novembre, data di conclusione della narrazione on line.

martedì 14 ottobre 2014

Emulo di Kubrick o improvvisatore di palo in frasca?

É un problema che mi sono posto più volte senza però preoccuparmene granché. Però - devo ammetterlo - sono completamente privo di una caratteristica tipica di coloro che amano scrivere: la specializzazione di genere.
Per molti scrittori celebri - ma anche tanti esordienti alle prime armi - basta il nome perché subito si capisca il genere della narrativa. Agatha Christie? Ah, sicuramente è un giallo. Isaac Asimov? Beh, è fantascienza. ... e così via. Ovvio che non sia una regola fissa e che parecchi autori inseguano soprattutto uno stile più che un genere. Ma quasi sempre si specializzano in una specifica tipologia.
Io invece spazio in generi diversi. Dall'investigatore comico alla reinvenzione pulp di tragedie shakespeariane, dal metaletterario ispirato al settecento veneto al fanta-distopico di un'Italia futura (e l'elenco potrebbe andare avanti).
Insomma, di palo in frasca.
Posso dire a mia discolpa che ho sempre ammirato il regista Stanley Kubrick per il sua continuo cimentarsi in film assai diversi fra loro come genere, riuscendo però sempre a lasciare la sua personale impronta di unicità. Lui era un genio, lui queste sfide poteva affrontarle.
Ma io? ...
Non provo neppure ad argomentare: la risposta è sicuramente negativa. Al tempo stesso, però, questo è il mio modo di procedere: scegliere ogni volta una strada nuova inseguendo un'idea diversa (e abbracciando un genere, o una tematica, che si discosta dal percorso dei miei precedenti tentativi narrativi).
Insomma, sono un improvvisatore. Chissà se le Muse, anch'esse concepite dagli antichi greci con specializzazioni strettamente differenziate (una per la poesia epica e una per quella lirica, una per il teatro comico e un'altra per quello tragico) saranno ancora disposte a sostenere a turno la mia fluttante e volubile ispirazione...

giovedì 9 ottobre 2014

L'inconveniente di avere pochi lettori in Francia

Si può dire quel che si vuole su amazon, gli si può sicuramente muovere qualche critica, ma da autore self-published devo riconoscere che il loro servizio è il migliore tra quelli sperimentati. Larghissima visibilità per i propri ebook, consultazione facile per i potenziali lettori, e un'estrema precisione per il pagamento delle royalties.
Inoltre opera a livello globale, pertanto dispone di varie piattaforme: quella in lingua italiana, quella, inglese (una per il Regno Unito e una per gli Stati Uniti, che hanno regimi fiscali diversi), e poi tedesca, giapponese, francese...
Ognuna paga le royalties separatamente, non sono sommabili fra loro. Grazie a questo metodo ho scoperto di avere dei lettori francesi, o quanto meno lettori che hanno acquistato i miei ebook tramite amazon.fr
Precisissima, la multinazionale mi ha inviato un assegno a copertura di queste vendite transalpine, per un importo totale di 97 CENTESIMI DI EURO.


C'è solo il piccolissimo inconveniente che, trattandosi di un assegno emesso da banca estera, se lo verso sul mio conto l'incasso dovrà essere negoziato, e ci saranno delle spese di circa 10 €
Capirete che spendere 10 € per incassare 0,97 € non mi sembra particolarmente geniale, perciò temo che dovrò rinunciare a queste royalties.
Ma mi resta un rimpianto: se avessi avuto più lettori in Francia l'importo dell'assegno sarebbe stato maggiore e magari l'incasso sarebbe valso la pena.
Eh sì, purtroppo ho davvero pochissimi lettori francesi. Anche italiani, vabbé, ma questo è un altro discorso.

sabato 4 ottobre 2014

Sette personaggi letterari che mi... somigliano?

Qualche giorno fa ho letto un post di Ivano Landi in cui veniva lanciata una sfida/proposta ad altri blogger: elencare sette personaggi letterari che gli assomiglino. Ho deciso di raccogliere l'invito perché questo tipo di post offrono sempre spunti di riflessione - e di discussione con gli altri bloggers - abbastanza interessanti. I miei prescelti sono:
-Jaromil ("La vita è altrove" di Milan Kundera) e Sanshiro del romanzo omonimo di Natsume Soseki come miei consimili giovanili, quando ancora ero affetto dalla malattia degli ideali assoluti e dall'ingenuità che ne deriva.
-Bruno ("Le particelle elementari" di Michel Houellebecq) e la voce narrante delle "Memorie dal sottosuolo" di Dostoevskj come potenziali proiezioni di ciò che avrei potuto diventare (e in parte, ma solo in parte, sono effettivamente diventato) in seguito a certe esperienze negative che ho vissuto e che purtroppo hanno lasciato delle ferite, e anche un po' di rancore.
-George Emerson, uno dei personaggi principali di "Camera con vista", è un uomo problematico ma infine pacificato con la vita, addirittura rinato, e in gran parte ho seguito anch'io un percorso del genere.
-Mattia Pascal di Pirandello lo conoscete tutti, no? Nel mio caso non c'è una morte apparente né una seconda vita effettiva, ma sul web ho talvolta l'impressione di inseguire un'esistenza alternativa...
Manca il settimo, e sono incerto sulla scelta. E allora punto al futuro: un personaggio al quale vorrei assomigliare invecchiando è Kaname, protagonista maschile de "Gli insetti preferiscono le ortiche" di Junichiro Tanizaki. Per quale motivo? Beh, leggete il romanzo e forse lo capirete...