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martedì 30 dicembre 2014

Buon anno nuovo a tutti

I miei post di fine anno sono sempre stati concepiti come un bilancio e in quanto tali erano corredati di cifre e conteggi.
Stavolta però eviterò di snocciolare dati sulla quantità di ebook venduti su amazon, su quanti contatti sono stati registrati sul blog o quanti followers abbia il mio account su twitter. Semplifico ammettendo che sono tutti numeri non elevati.
Quello che mi interessa sottolineare dell'anno trascorso è la presenza costante di vecchi amici di questo blog con l'aggiunta di nuovi, un dato che per quanto mi riguarda è assai più soddisfacente di qualunque altro.
Sul piano privato la mia situazione è invariata. Avevo detto in uno specifico post che avrei evitato di dare spazio alle mie vicende offline in questo blog, gestendolo come una torre d'avorio all'interno della quale posso isolarmi da ogni evento esteriore, tuttavia sento la necessità di accennare che sono ancora in cassa integrazione e la situazione dell'azienda in cui lavoro permane assai complicata. Tanto per rammentare a tutti che, malgrado i proclami dei nostri stucchevoli politici, siamo sempre sott'acqua e chissà per quanto ancora ci resteremo.
Comunque, l'inizio di un nuovo anno è sempre un evento pregno di speranza. O meglio: DEVE esserlo per forza anche se le premesse sono pessime, perché se si perde la speranza in un futuro migliore non ha senso neppure celebrare l'inizio di altri dodici mesi da aggiungere al conteggio di quelli già trascorsi.
Insomma, un Ariano Geta un po' più malinconico del solito vi da appuntamento per il 2015.
Detto per inciso: non ho nessun post programmato, neppure un progetto o una qualche minima idea.
Ma ho voglia di continuare e già questo è un ottimo punto di partenza.
Buon anno nuovo a tutti, il blog ripartirà ufficialmente dopo il 6 gennaio :-)

domenica 21 dicembre 2014

Buone feste natalizie

Come "regalo" natalizio vi offro alcune citazioni di Hector Hugh Munro "Saki", che già in altre occasioni mi aveva aiutato a riempire le pagine di questo blog. Sono adattissime alla stagione: le ho tratte da un racconto che si intitola, appunto, "Reginald e i regali di natale".
Auguri a tutti :-) Il viziato damerino vittoriano Reginald vi darà ora utili consigli, mentre il molliccio blogger Ariano Geta vi da appuntamento al 30 dicembre per i saluti di fine anno.

Io sostengo che dovrebbero essere creati dei corsi che insegnino la scienza di fare regali natalizi, con tutte le tecniche ad essa relative. Al momento mi sembra che nessuno abbia la benché minima idea di cosa gli altri vogliano ricevere per regalo, e le opinioni più diffuse riguardo questo argomento sono indegne di un paese che voglia definirsi ‘civilizzato’.
Tanto per cominciare, c’è la solita parente campagnola che pensa che ‘una cravatta è sempre utile’, e quindi ti regala un orrendo pezzo di stoffa pieno di palle che si può indossare solo di nascosto, o a Carnevale. Questo tipo di ‘cravatta’ sarebbe veramente utile se venisse usata per legare una pianta di fragole al suo palo di sostegno. Avrebbe una duplice utilità: aiutare la crescita dei germogli più deboli, e terrorizzare gli uccellini meglio di uno spaventapasseri (è un fatto dimostrato: i passeri capiscono quando una cravatta è orrenda
[...]

In genere le zie che apprendono meglio l’arte di regalare sono quelle con qualche quarto di sangue non inglese. Certo che sarebbe bello potersi scegliere la propria zia. Alternativamente si può scegliere il proprio regalo, e poi mandare alla zia il conto da pagare [...]

... gli amici. Anche quelli più intimi, quelli che in teoria dovrebbero conoscerti meglio di chiunque altro, spesso fanno degli errori clamorosi. Vedete cari amici, io NON faccio collezione di edizioni economiche  delle Quartine di Omar Khayyam. Lo scorso anno ne ho ricevute quattro [...]

Personalmente non capisco dove sia tutta questa difficoltà nello scegliere il regalo giusto. Qualunque gentiluomo beneducato (e io sono uno di quelli) è in grado di apprezzare le splendide bottiglie così rispettosamente esposte nelle vetrine della liquoreria Morel. Ecco, per questo tipo di regalo non avrei problemi neppure se ne ricevessi quattro uguali. Volete mettere quel piacevole thrilling che si prova mentre si toglie la carta pensando: sarà limoncello o grappa Chartreuse? Roba da far venire i brividi, tipo quando cali lentamente sul tavolo una scala reale al termine di una partita a poker. La Chartreuse è davvero una delizia straordinaria, che contraddice palesemente coloro che sostengono che il Cristianesimo è in preda ad un declino irreversibile e un giorno finirà per scomparire: una religione dotata di un convento capace di creare un liquore del genere non sparirà mai.

Tanti auguri per un felice Natale con... regali azzeccati!

martedì 16 dicembre 2014

Esordi letterari tardivi

In genere gli scrittori pubblicano ufficialmente il primo libro fra i venti e i trentacinque anni di età. Chi supera questa soglia viene considerato un esordiente tardivo. Dipende anche dai punti di vista: lo scrittore francese Julien Gracq aveva 29 anni quando un editore accettò il manoscritto di "Au château d'Argol", tuttavia si autodefiniva un écrivain tardif.
Ovviamente l'età avanzata non pregiudica in nessun modo la qualità del libro o il successo dell'autore.
Maurizio De Giovanni ha pubblicato il suo primo romanzo (l'inizio della serie del commissario Ricciardi) a 47 anni, e ha avuto un'ottima tiratura.
Anche il celebre giallista americano Raymond Chandler aveva piazzato i suoi primi racconti su una rivista pulp all'età di 45 anni, e il primo romanzo ("Il grande sonno") vide la luce quando l'autore era cinquantenne.
Un caso ancora più eclatante è quello di Gesualdo Bufalino che ha pubblicato "Diceria dell'untore" a 61 anni vincendo il premio Campiello. Ha comunque preceduto il francese Maurice Fourré il cui apprezzatissimo primo libro, "La nuit du Rose-Hotel", uscì nel 1950 quando lo scrittore compiva 74 anni.
Se poi consideriamo autori non noti vi sono stati esordi ancora più clamorosi, e in taluni casi è legittimo domandarsi se non si sia trattato di abili operazioni commerciali da parte di editori in cerca di vendite facili (immaginate la famigerata fascetta pubblicitaria con uno slogan tipo: "Il più vecchio esordiente al mondo" o "Il primo romanzo di un ottantenne"...)
Il primato italiano è probabilmente detenuto da Mauro Bindi, che ha pubblicato un libro per la prima volta in vita sua all'età di 91 anni. Non si tratta però di fiction, ma di un memoriale autobiografico.
A livello mondiale è presumibile che il record appartenga a James Arruda Henry, esordiente a 98 anni.
Insomma, la possibilità di pubblicare un libro dura davvero per tutta la vita.

giovedì 11 dicembre 2014

Un sabato diverso

Gli utenti Dubbioso79, Freddy e Goldrake sono iscritti al forum
http://puttanieri.freeforum.ita.org 
un luogo di ritrovo virtuale per frequentatori abituali di prostitute. Il 7 giugno si danno appuntamento a Roma per trascorrere un sabato diverso, come se fossero tre amici che hanno voglia di divertirsi, ma le cose andranno diversamente e l’incontro avrà risvolti inattesi…

Ecco, sono partito subito con la trama per far capire i contenuti dell’annunciato romanzo mainstream di cui avevo parlato pochi giorni fa.
Preciso subito che non è un giallo o un thriller: la narrazione è fondamentalmente psicologica e si concentra sui tre protagonisti, in particolare Dubbioso79. Gli eventi materiali della vicenda sono piccole isole nel mare di introspezione, dialoghi e riflessioni che costituiscono la vera anima del romanzo.
L’incontro che doveva preludere a un sabato gaudente non riuscirà a impedire che i tre personaggi vengano messi di fronte alla meschinità private delle loro vite e quelle pubbliche del paese in cui risiedono, ma al tempo stesso sarà impossibile attribuire colpe, meriti e responsabilità in modo univoco.
Più considerazioni che azioni quindi, ma mi azzardo a dire che i pochi fatti materiali del romanzo sono sufficienti per vivacizzarlo. Ho cercato di renderli funzionali alla storia senza che appaiano forzati o inverosimili.
Le tematiche trattate sono serie, perciò ho completamente messo da parte l’ironia: nei miei scritti in genere c’è sempre, ma stavolta ho preferito un tono freddo, con qualche tensione narrativa improvvisa.
In effetti è stata proprio l’assenza di elementi sdrammatizzanti a farmi temere di essermi spinto troppo in là rispetto alle mie capacità e ai miei temi abituali. L’attore – o meglio ancora l’autore – di commedie rischia sempre di rivelarsi inadeguato quando si cimenta con la tragedia, e io probabilmente sono inadeguatissimo.
Però volevo ugualmente tentare. Se avessi dato sempre retta alle mie paure non avrei mai aperto questo blog, né tanto meno mi sarei autopubblicato.
Insomma, “Un sabato diverso” per un Ariano Geta diverso rispetto al solito. C’è solo un elemento che resta invariato: sollevo questioni ma non fornisco soluzioni, perché francamente non ne ho. Quando scrivo mi piace inserire spunti di riflessione, rivolti soprattutto a me stesso, e le riflessioni in genere hanno la forma di un cerchio che, una volta concluso il giro, riparte da capo senza aver concluso nulla. Ma almeno c’è stato un movimento mentale, indubbiamente migliore rispetto alla paralisi.
Chiunque fosse incuriosito e decidesse di dare una chance a questo breve romanzo può dare un’occhiata ai primi paragrafi nella relativa PAGINA WEB DI AMAZON e poi, eventualmente, acquistarlo.
Per qualunque dubbio o domanda sapete dove trovarmi.

EDIT : EBOOK IN REVISIONE - AL MOMENTO NON DISPONIBILE

sabato 6 dicembre 2014

I libri natalizi

Nel momento in cui la narrativa è diventata un fenomeno di massa (fondamentalmente nel corso del XIX secolo) si è diffusa la tradizione di creare libri ad alto contenuto natalizio da commercializzare nel mese di dicembre.
Un esempio celebre - e di fatto un vero precursore - è "Christmas Carol" (Canto di Natale) di Charles Dickens, pubblicato il 19 dicembre del 1843. Proprio in quegli anni nell'Inghilterra vittoriana venivano introdotte nuove abitudini legate alle festività natalizie che poi si sarebbero diffuse anche in altre parti del mondo, come l'albero addobbato e le cartoline di auguri. Il libro di Dickens ottenne un enorme successo, tanto è vero che negli anni seguenti continuò a pubblicare racconti a tema natalizio quando si avvicinava il mese di dicembre ("The chimes", ovvero Le campane nel 1844; "The cricket on the Hearth", Il grillo del focolare, nel 1845; e altri ancora).
Col passare del tempo altri autori lo imitarono nel mondo anglosassone. In America Frank Baum, celebre per la serie del mago di Oz, scrisse nel 1902 "The life and the adventures of Santa Claus" mentre O. Henry (nome d'arte di William Sydney Porter) pubblicò nel 1905 "The gift of the magi", che rimane ancora oggi una classica lettura natalizia per molti americani. La scrittrice vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 1938, Pearl S. Buck, scrisse regolarmente racconti sulle festività natalizie, poi raccolti in "Once upon a Christmas" (pubblicato nel 1972 e noto in Italia come Miniatura di Natale).
J.R.R. Tolkien aveva l'abitudine, intima e famigliare, di inviare delle lettere ai propri figli ancora bambini firmandole "Babbo Natale". Erano lettere fiabesche in cui il vecchietto narrava le proprie avventure al Polo Nord. Quasi inutile aggiungere che, dopo il successo planetario delle sue opere, anche questa corrispondenza privata è stata resa pubblica sotto forma di racconti natalizi raggruppati nel volume " The Father Christmas Letters" (Le lettere di Babbo Natale).
Il racconto di Truman Capote "A Christmas memory" è un unicum e non si può neppure dire che sia stato scritto appositamente per essere venduto nel periodo delle festività. Si tratta semmai di una narrazione a carattere autobiografico.
I venditori di best sellers dei giorni nostri non potevano certo mancare l'appuntamento, e infatti anche autori di grande successo come, ad esempio, David Baldacci e John Grisham hanno sfornato i loro romanzi natalizi (rispettivamente "The Christmas train", Il treno di Natale, e "Skipping Christmas", Fuga dal Natale).
In Italia una delle prime celebrità letterarie a proporre un racconto natalizio fu Grazia Deledda: "Il dono di Natale" venne pubblicato nel 1930. Giovanni Guareschi, il papà letterario di Don Camillo e Peppone, scrisse "La favola di Natale" nel 1944, durante la guerra, mentre era in un campo di prigionia.
Altri ormai storici racconti italici di ispirazione natalizia sono "Racconto di Natale" di Dino Buzzati (1958), "I figli di Babbo Natale" di Italo Calvino (1963), "La freccia azzurra" di Gianni Rodari (1964).
Ovviamente la tradizione continua anche ai giorni nostri, e per rendersene conto basta scorrere i titoli delle nuove uscite proposte dalle librerie nel mese di dicembre.
A dicembre vi capita di acquistare o regalare libri del genere o non gli date troppa importanza?

lunedì 1 dicembre 2014

Un po' di sana megalomania

Stavolta il regalo di natale me lo sono fatto da solo, anticipatamente. È un tributo alla mia megalomania, ovvero la stampa in due volumi di tutti i miei scritti. 
La scelta di farlo ora non è casuale: nel 2014 ho autofesteggiato venticinque anni esatti di attività scribacchina, come avevo d'altronde già anticipato in questo post pubblicato alla fine del 2013.
E così, ecco due elenchi telefonici formato A4 di cinquecento e rotte pagine ciascuno. Se dovessimo ripiombare a un livello di evoluzione tecnologica inferiore all'attuale, senza più computers, clouds e files di dati sparsi sul web, potrò conservare un'antiquata ma sempre utile traccia cartacea dei miei vaneggiamenti.


Ho cercato di curare al meglio anche l’aspetto editoriale. Creare libri mi piace: adoro editare l’impaginazione, l’aspetto tipografico e ovviamente gli indici. All'inizio dei volumi c’è quello generale che indica i vari libri:


e poi, giunti alla pagina di ogni singolo libro, il dettaglio dei racconti o dei capitoli che lo compongono:



Per la “Trilogia veneta sognata” non poteva mancare un'ambiziosa bordatura decorativa sul modello dei libri settecenteschi…


Insomma, ho messo insieme un bel po’ di pagine da sfogliare. Presumo che uno scrittore serio in un quarto di secolo riesca a produrre anche più di mille pagine formato A4 con testo carattere 11, ma io mi accontento. Anzi, dirò di più: mi riterrei soddisfattissimo se nei prossimi venticinque anni (sperando che la vita me li conceda) riuscissi a scrivere un numero di opere decenti tali da giustificare altri due volumi di identiche dimensioni a quelli attuali.
Mi auguro che fra venticinque anni esatti saremo ancora tutti qui per verificare se ci sono riuscito oppure no ;-)


mercoledì 26 novembre 2014

A proposito del romanzo mainstream che dovevo ultimare entro la fine dell'anno....

A gennaio ne avevo parlato, ma non ho mai dato ragguagli sull'avanzamento dei lavori.
La verità è che sul romanzo in questione mi ci sono impegnato parecchio e l'ho persino ultimato.
Però...
Ecco, devo essere sincero: mi è successo qualcosa di inatteso, che va al di là del giudizio formale sul romanzo. A ogni rilettura mi sentivo - mio malgrado - perplesso. Mi sono posto numerosi dubbi sull'opportunità di pubblicarlo a causa dei suoi contenuti.
Per dirla in modo esplicito: sono rimasto impantanato nell'immagine pubblica che mi sono creato in questi anni sul web. Meglio ancora: sono rimasto impantanato nel mio timore di rovinarla.
Perché il punto è proprio questo: è un romanzo decisamente più scabroso rispetto alle altre cose che ho scritto sinora, e ne ho avuto paura, cosa che non dovrebbe accadere. Un autore, scrittore o scribacchino che sia, non dovrebbe mai chiedersi se quel che scrive possa risultare nocivo per la propria reputazione, altrimenti farebbe meglio a non scrivere affatto.
In parte me ne ero già reso conto qualche mese fa: persino lo pseudonimo che uso ormai mi sembra troppo pubblico, praticamente doso le parole anche sul blog, e non è un bene. Bisognerebbe sempre avere il coraggio delle proprie idee (o, nel mio caso, della propria narrativa) anche a costo di rischiare la disapprovazione altrui.
Insomma, non so se sono stato chiaro. Ma il romanzo in questione conto di autopubblicarlo prima della fine dell'anno. E quel che sarà sarà.

venerdì 21 novembre 2014

L'importanza di chi crede in te

Quando c'è una persona - anche una soltanto - che crede in te, la vita ha un sapore diverso.
Sapere che sei il depositario di una fiducia altrui aiuta a vincere le insicurezze.
Questo vale in senso generale, e assume un valore specifico anche circoscrivendolo al ristretto campo dei talenti in cui uno prova a cimentarsi sperando di suscitare l'approvazione altrui.
Per il qui presente scribacchino ciò accade quando incontro qualcuno che crede nella mie capacità come autore. Ne ho incrociati parecchi nel corso degli anni e ognuno a modo suo mi ha trasmesso sensazioni positive e voglia di insistere. Negli ultimi tempi in particolare ho trovato alcuni sostenitori sul social anobii, e una in particolare merita un pubblico ringraziamento.
L'amica Marcy si sta impegnando per me in termini di promozione sul web più di quanto io stesso mi sia mai impegnato in prima persona, davvero!
Per la cronaca posso dire di lei che è un'appassionata lettrice, orgogliosamente sarda ed entusiasticamente votata alla cultura e all'informazione, ideali che insegue collaborando con il web magazine IlMioGiornale
Già in altre occasioni avevo detto che mi piacerebbe abbracciare uno per uno tutti coloro che hanno comprato, recensito e divulgato i miei ebook, e Marcy li simboleggia tutti.
Perché quando qualcuno crede in te, trovi la voglia di fare qualunque cosa.

domenica 16 novembre 2014

Hideo Takeda

Molti artisti giapponesi contemporanei hanno tentato di creare opere grafiche che esprimessero, aggiornati alla nostra epoca, lo spirito e l’estetica delle tradizionali ukiyo-e dell’era Tokugawa.
Le due serie di stampe “Genpei” e “100 kind of professions” di Hideo Takeda (sito ufficiale: www.hideotakeda.com) sono, tra quelle che ho potuto ammirare, le più riuscite da questo punto di vista.
La guerra civile tra i seguaci dei Taira e dei Minamoto (Genpei) è un momento storico cruciale nella storia giapponese. 


Takeda ne rappresenta gli eventi guerreschi fondendo le immagini stilizzate, cromaticamente quasi accecanti, delle tradizionali stampe rappresentanti battaglie celebri con altre, decisamente più provocatorie, tratte dagli spunti grotteschi di incisori dell’epoca Tokugawa che preferivano tematiche meno elevate...
Si vedano, ad esempio, le due stampe del XVIII secolo qui riportate (“Battaglia di Azukizaka” di Yoshitoshi e “Assalto alla vagina” di Kunisada) e, come terza riassuntiva, l’interpretazione di Hideo Takeda della battaglia del fiume Uji…




La guerra fra due clan si trasforma in una guerra fra uomini e donne, e i soldati, coperti di tatuaggi, rammentano membri della yakuza piuttosto che antichi samurai. Tutto ciò in un tripudio di eleganza grafica e di affabulazione artistica.
La scelta di seguire l’antica estetica delle ukiyo-e, realistica e al contempo irrealistica per il costante ricorso all’eccesso (dei colori, della stilizzazione, delle proporzioni) permette di trasformare ogni immagine in una scena teatrale, dove, ad esempio, decine di gambe piegate e tatuate d'azzurro diventano un fiume...


Anche le stampe più semplici sono caratterizzate dal sapiente dosaggio del cromatismo.


Non so se questo artista verrà rammentato fra cent’anni allo stesso modo in cui oggi viene rammentato Tsukioka Yoshitoshi, ma indubbiamente queste opere meritano di essere apprezzate.

martedì 11 novembre 2014

Un Liebster non si rifiuta mai

E così becco un secondo Liebster Award, stavolta da parte di Francesco Savini. Un Liebster che in fondo è utile perché mi permette di dar sfogo al mio immenso egocentrismo e parlare di me stesso :-P
Ma ci sono regole da rispettare.

Si posta l’immagine del premio sul blog
Si linka il blog di chi ti ha nominato
Si raccontano 11 cose su di se
Si nominano 11 Blog ritenuti meritevoli del premio
Si risponde alle domande fatte da chi ti ha nominato e se ne fanno altrettante ai nominati

Le prime due sono già state rispettate, per la quarta invito chiunque voglia partecipare (è forse un modo furbetto per evitare le nominations?... Sì, proprio così ;-)
Cominciamo con le undici cose su di me... Ne ho già raccontate talmente tante che difficile trovarne di nuove, ma la mia smisurata vanità mi darà una mano...

1-Da bimbo seguivo la Formula Uno, ma quando Gilles Villeneuve morì in un incidente ci rimasi malissimo e smisi di interessarmene.
2-Mi sono laureato col massimo dei voti benché la mia relatrice mi abbia presentato alla commissione in modo tutt'altro che favorevole.
3-Nella mia famiglia gli uomini sono tutti impeccabili professionisti, e tutti, nessuno escluso hanno un lato creativo che sfogano in varie forme (chi fotografo, chi attore di teatro dilettante, chi musicista in una band locale...)
4-Da bambino non usavo mai l'ombrello, neppure quando pioveva. Mi riparavo sotto i cornicioni.
5-A quindici ho letto il mio primo libro sulla storia e le tradizioni giapponesi ed è stato amore a prima vista.
6-Avevo una deformazione ossea al ginocchio che mi ha permesso di evitare il servizio militare obbligatorio (eh sì, ai miei tempi ancora c'era).
7-Durante i famigerati "tre giorni" della succitata esperienza ho capito in modo definitivo che ero sociopatico e pronosticai che non sarei mai guarito. In parte ci ho preso, però sono migliorato da allora.
8-Ho comprato il mio primo cellulare quando erano già quattro / cinque anni che si stavano diffondendo.
9-Il mio primo giorno di lavoro in assoluto fu come interprete, ma non dovetti interpretare niente e tuttavia mi pagarono ugualmente perché ero stato a disposizione (proprio uguale a oggi, eh?)
10-Il mio olfatto è pessimo, molti odori non li percepisco per niente.
11-L'occhio che ha sclerato (se qualcuno se lo ricorda...) è guarito, ma mi è rimasta una macchia bianca sull'iride.

Ora rispondo alle domande di Francesco:

1.       Se avessi la possibilità di andare a vivere in un’età storica diversa da questa quale sceglieresti? Perché?
Il diciottesimo secolo, per visitare Venezia settecentesca.
2.       Qual è la cosa che odi più di tutte?
La prepotenza.
3.       Qual è la cosa che ti fa più paura?
Il fanatismo.
4.       C’è uno stato estero in cui ti piacerebbe vivere?
Chissà, forse negli Stati Uniti.
5.       C’è uno scrittore o un libro che ha cambiato il tuo modo di vedere la letteratura?
Più di uno. Cito Borges, Pirandello e Kundera.
6.       Qual è il tuo genere letterario preferito?
Mainstream.
7.       Che rapporto hai con la tua terra d’origine?
Ci vivo da quando sono nato, ma non mi sono mai sentito parte della "comunità" (ammesso che esista).
8.       Qual è il tuo piatto preferito?
Sono un tradizionalista: spaghetti col sugo di pomodoro.
9.       Che rapporto hai con la politica?
É fondamentale in democrazia insieme all'attivismo dei cittadini, ma io me ne sono tirato fuori perché ormai assomiglia troppo a una farsa teatrale grottesca ma purtroppo vera.
10.   Qual è il tuo quadro preferito?
Ce ne sono tanti. Uno è "La grande onda a Kanagawa" di Hokusai, che però in effetti è una stampa.
11.   Quanto sei intelligente da 1 a 10?
In certe situazioni sono da 7 quasi 8, in altre mi merito un 2 scarso.

Infine le mie domande, riservate a chiunque voglia partecipare:
1-Ce la farà l'Italia?
2-Cosa faresti per aiutarla a farcela?
3-Hai mai meditato di andartene all'estero?
4-Hai mai meditato di fare qualche protesta clamorosa a Piazza Montecitorio?
5-Qual è il tuo modo per affrontare la crisi economica?
6-Cosa fai quando ti senti sfiduciato?
7-Il contesto sociale incide sul tuo umore o riesci a distaccarti da tutto?
8-Qual è la cosa più importante?
9-E la più bella?
10-Avresti mai immaginato, da bambino, che un giorno avresti risposto a domande a raffica per partecipare a un gioco virale come il me.me.?
11-Quanto va preso sul serio un me.me.?

giovedì 6 novembre 2014

L'era dell'esibizionismo globale - 7

AVVISO IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI

9
I mass media lo consideravano, inevitabilmente, il quarto attentato della serie.
Anche le forze dell’ordine ne erano certe, e la tensione saliva sempre di più a causa delle violente proteste dell’opinione pubblica contro l’incapacità di polizia e carabinieri di fermare la strage e restituire fiducia ai cittadini.
Il nervosismo era palpabile: il ministro degli interni era stato sfiduciato da uno dei partiti della maggioranza; un noto quotidiano aveva lanciato un sondaggio on line per chiedere la rimozione del capo della polizia dal suo incarico ricevendo cinquantanove milioni di ‘sì’; il generale in capo dell’Arma aveva aperto un gruppo su facebook battezzandolo ‘vi chiediamo scusa per la nostra inefficienza’ (alcuni lo avevano apprezzato, altri lo avevano bollato come una furba mossa per farsi compatire ed evitare l’argomento dimissioni).
Anche l’ispettore Berruti, nel suo piccolo, era stato costretto a rinunciare a una delle tre settimane richieste per agosto perché tutte le ferie erano state congelate in attesa che si ridefinisse la strategia per riuscire infine ad arrestare il maledetto attentatore.
L’unico che manteneva la calma era Doglia.
Da alcuni giorni non manifestava più segni di apatia: i suoi gesti non erano mai forzati, gli occhi tralucevano educata attenzione verso ogni parola altrui. Tuttavia appariva poco coinvolto dalla gigantesca caccia all’uomo.
“Vuoi dirmi qualcosa?” sbraitò l’ispettore notando lo sguardo insistente del suo vice. Era appena terminata una nuova videoconferenza tra ministero, servizi segreti e i colleghi carabinieri, e lo stress montava.
“Posso prendermi una giornata domani?” domandò con estrema naturalezza Doglia.
Berruti reagì incredulo e incazzato. “Mi prendi per il culo?”
“Un giorno. Solo uno. Poi ne prenderò un altro il prossimo mese e uno ad agosto. Così ti lascio libere tutte le settimane che vuoi”.
“Forse ti sfugge qualcosa…”
“Che contributo posso dare io? Non so se ti sei reso conto: in base alla mia proposta – che tu avevi giustamente predetto essere una stronzata – è saltato fuori un potenziale sospettato. Passa un giorno, e il mio sospettato diventa la vittima del quarto attentato. Questo è un segno del destino: quante possibilità c’erano, a livello di probabilità statistica, che toccasse proprio a lui? Una su tre milioni? Beh, è successo. Lo vedi? È il fato che mi sta dicendo: ‘Renditi conto di quanto sei coglione: hai elaborato un’ipotesi investigativa in un momento in cui i sospettati potevano essere migliaia e sei stato sputtanato immediatamente”.
“Che sei un coglione è vero” lo insultò Berruti, anche stavolta sforzandosi di dare un tono ironico che tuttavia non si notava affatto. “Ma in questo momento anche i coglioni sono necessari, nessuno può assentarsi”.
Doglia allargò le braccia.
“Certo che è una coincidenza strana che l’attentato vada a colpire proprio l’uomo che sarebbe stato indagato se avessero accettato la tua proposta…” sibilò l’ispettore.
“E va bene, mi hai scoperto: l’attentatore sono io” cazzeggiò il vice.
“Sta attento perché io faccio passare pure questa ipotesi. Pur di smuovere qualcosa, pur di evitare che si arrivi al quinto attentato mentre noi siamo ancora nell’incertezza più totale, ormai propongo qualunque stronzata al commissario. Anche te come presunto colpevole”.
“Mah” ridiventò serio Doglia “io penso che con tutti controlli che stiamo eseguendo l’attentatore preferirà fermarsi per un po’ di tempo. Anzi, non mi sorprenderei se quello di ieri fosse stato il suo ultimo attentato…”
“Sì, adesso proviamo con la speranza! Diglielo al commissario! Il mio nuovo piano è: attendere! Con un po’ di fortuna il tizio nei prossimi giorni morirà di vecchiaia e smetterà di piazzare bombe!”
“Potrebbe succedere” commentò Doglia con un sorriso non troppo sfacciato, sufficiente però per innescare la rabbia latente di Berruti.
“Ma vaffanculo! Va bene, te lo concedo il giorno di ferie per domani! Ma solo perché non ti voglio più avere tra le palle almeno per ventiquattro ore!”
“Grazie” accettò con sincera gratitudine il poliziotto.

10
Michela Eranio era già stata informata il giorno precedente.
Suo padre aveva pochissimi parenti. Li sentiva una o due volte all’anno, ed erano tutti apparentemente troppo indebitati per permettersi di contribuire alle spese cimiteriali.
La ex moglie, da anni residente a Londra, non aveva alcuna intenzione di rientrare in Italia per organizzare un funerale di cui le fregava meno di niente, neppure se la richiesta fosse partita dalla figlia, perciò la giovane aveva dovuto farsi carico delle incombenze economiche da sola, anche se ormai il suo legame col padre era inesistente e del suo corpo dilaniato le importava poco.
Quando Doglia si presentò a casa sua lei lo accolse convinta che fosse un dipendente delle pompe funebri venuto a consegnargli i documenti relativi alle avvenute esequie.
“C’è un equivoco: io sono della polizia” si qualificò mostrando il tesserino.
“Oddio, mi scusi. Ho la testa incasinata con tutte queste rogne che mi sono cascate addosso negli ultimi due giorni…”
Era un appartamento piccolo ma ben tenuto, una base d’appoggio per una giovane che probabilmente trascorreva quasi l’intera giornata (e forse buona parte della nottata) fuori casa.
Il poliziotto esordì con la prima fase del discorso che aveva predisposto già dalla sera prima. “Stiamo indagando sull’attentatore, e ancora non sappiamo se colpisca con un senso logico oppure no. È possibile che esista un legame fra le vittime”.
Michela Eranio lo ascoltava distratta. Si allontanò per inserire una cialda del caffè nella macchinetta e gli diede le spalle, girandosi una sola volta mentre attendeva che la tazzina si riempisse.
“Quindi abbiamo deciso, per sicurezza, di creare un servizio di protezione per i parenti delle vittime”.
“Vuole un caffè?”
“Sì, grazie. Perciò lei dovrà sottoporsi a questo servizio di protezione”.
“Quanto zucchero?”
“Amaro”.
La ragazza, senza invitare l’ospite a sedersi, gli porse la tazzina. Lei stessa d’altronde rimase in piedi, la faccia stanca ma senza alcun ombra di dolore. “In che consisterebbe?”
“Deve solo segnalarmi i suoi spostamenti. E anche ogni eventuale situazione sospetta, tipo gente che la segue o cose del genere. Una volta al mese le verrò a fare visita. Cerchiamo di indagare e al tempo stesso di garantire la sua incolumità. Tutto qui”.
Michela buttò giù il caffè in un’unica sorsata. Secondo l’anagrafe aveva venticinque anni; la freddezza del suo sguardo ne denotava il doppio.
“Visto che sono qui”, si arrampicò sugli specchi il poliziotto, “posso permettermi di chiederle se nei giorni scorsi le è capitato qualcosa di strano, di inatteso?... Se ha qualche problema ne parli pure, in fondo il nostro compito è proteggere i cittadini”.
Per un istante le labbra della giovane si incresparono in un sorriso ironico.
“Di problemi ne ho parecchi. La mia vita è un casino”.
Doglia annuì con aria fraterna. “Il mio incarico è vegliare sulla sua sicurezza personale per questa storia degli attentati. Però, se ne ho la possibilità, posso fare qualcosa anche per altre situazioni, soprattutto se sono ravvisabili gli estremi per un intervento della forza pubblica”.
Gli occhi di Michela lo penetrarono come uno scanner. “Dove sta la fregatura?”
“In che senso?” replicò il poliziotto con un filo di ansia nella voce. Temette che la ragazza avesse percepito l’aura delle bugie che lui le aveva appena proposto.
“Arrivi qui, dici che vieni per proteggermi, ti metti a disposizione…! Troppo perfetto, c’è qualcosa che non quadra. Io non ci credo al cavaliere senza macchia e senza paura che si mette al servizio della povera principessa indifesa. E comunque” precisò “io non sono indifesa. E neanche principessa, vabbé!”
“Aspetti un attimo…” si stava innervosendo l’uomo.
“L’ultima volta che ho avuto a che fare con la polizia” lo travolse Michela “mi hanno chiesto servizi gratuiti… Tu che intenzioni hai?”
La tensione alle tempie di Doglia si rilasciò, le labbra si sciolsero in un sorriso. La ragazza non aveva affatto subdorato la menzogna del fantomatico programma di protezione: era semplicemente poco avvezza a ricevere forme di aiuto disinteressato. Aveva sperimentato l’amore incompatibile del padre, quello finto e furbo del tizio che la aveva inserita nel settore – ormai in decadenza – della pornografia, quello assente della madre, quello materiale dei suoi clienti… La ‘solidarietà’ era per lei sinonimo di ‘proposte ingannevoli’ in cui si nascondevano secondi fini. In fondo anche stavolta lo scenario era simile, ma il secondo fine non dichiarato del poliziotto era prendersi cura di una giovane in difficoltà per mantenere la parola data a uno stragista psicolabile morto suicida. O piuttosto, nel caso specifico dell’istante in cui era stato suggellato il patto, si trattava di un padre che a modo suo amava sinceramente la figlia.
“Sono un poliziotto non corrotto” la rassicurò Doglia. “Evidentemente mi sento un po’ Robin Hood”.
“Ma quello era un ladro” obiettò Michela. “Rubava e lo sceriffo gli dava la caccia”.
“In quel momento era giusto rubare, e il vero ladro era il poliziotto”.
Si fissarono muti per un istante e quasi contemporaneamente abbassarono lo sguardo, come due adolescenti intimiditi.
“Insomma, se serve aiuto” riprese il poliziotto “se per caso si trovasse in qualche situazione fastidiosa…”
Lasciò la frase inconclusa per non dare l’impressione di aver curiosato troppo nella vita della ragazza. Ma lei non aveva nulla da nascondere: : era cresciuta in un mondo in cui i segreti personali non esistevano più.
“Di fastidioso c’è uno con cui ho girato qualche filmino sadomaso, che poi mi ha pure convinto a fare la mignotta, ogni tanto”.
“Ormai coi filmini non si guadagna niente” sentenziò il poliziotto, “Con tutto il materiale gratis che si rimedia, nessuno paga per vedere le stesse cose che la vicina di casa mette on line su dailymotion”.
“Infatti serviva solo a farmi pubblicità come zoccola. L’ho capito dopo”.
Doglia finì di sorseggiare il caffè. “In genere quel tipo di soggetti fastidiosi si spaventano facilmente: basta mostrargli il tesserino e se la fanno addosso. Se lei me lo chiede…”
“Dammi del tu per favore, non ci sono abituata al lei!”
“Se tu me lo chiedi” si corresse subito il poliziotto “ci vado a parlare e sta pur certa che non ti cercherà mai più”.
Michela accennò un sì con la testa. “Mi sarebbe utile in questo momento. Però dovrò inventare qualche altro metodo per guadagnarmi la giornata…”
“Mi informo anche su questo. Hanno creato un programma di reinserimento per giovani in difficoltà che… beh, non ti aspettare chissà quali opzioni: commessa part-time o cameriera nelle ore di punta, robetta di questo genere. Però almeno porti a casa uno stipendio”.
La ragazza assentì nuovamente.
“Allora me ne vado. Per qualunque novità contattami”.
Michela lo accompagnò sino alla porta, e mentre lui era già sul pianerottolo e le dava le spalle dopo averla salutata, lei lo chiamò un’ultima volta.
Doglia si voltò. Negli occhi freddi della ragazza vide brillare, finalmente, una scintilla di fiducia. I lineamenti si ammorbidirono in un’espressione amichevole che le dava davvero l’aspetto di una venticinquenne. Anche la voce risuonò più fresca, più innocente.
“Se per caso ti capita un giorno libero e non hai niente di interessante da fare… Beh, insomma, mica devi aspettare che c’è un’emergenza, no? Mi chiami, mi mandi un messaggino, ci vediamo a un bar e scambiamo due parole”.
Il poliziotto ricambiò il sorriso. Anche lui sembrava ringiovanito.
“Perché no?”

11
Camminava lungo uno stradone di periferia in direzione della fermata della metropolitana: una squallida distesa di asfalto disseminata di buche e toppe catramose, attorniata da monoliti di cemento squadrati, scrostati, scavati come formicai e stipati con migliaia di persone. Eppure guardava il cielo e i pochi inattesi alberi piantati irregolarmente sui bordi del vialone, e respirava gioia.
Doglia era leggero, rasserenato. Erano ormai parecchi giorni che la sua mente non si dissolveva in una nebbia di apatia: il grado di interesse per il mondo che lo circondava era vigile, costante, privo di punti morti.
Proprio mentre si rendeva conto di essere più vivo, più coinvolto, il cellulare trillò vibrandogli nella tasca della camicia. Era un avviso pubblicitario del suo gestore: quella sera, alle nove precise, avrebbero trasmesso in streaming in esclusiva, solo per i clienti della rete mobile con abbonamento ‘voice & wi-fi extralarge’, le operazioni di ricomposizione della salma dell’ultima vittima dell’attentatore misterioso. L’agenzia di pompe funebri addetta alle esequie dell’uomo ucciso al villaggio Breda aveva venduto il filmino con le fasi salienti del loro lavoro: la ricomposizione dei pezzi del corpo, la collocazione nella cassa zincata, i processi chimici di disinfezione a fini sanitari.
(Era una tipica prassi dei necrofori: quando i parenti dei morti richiedevano il servizio più economico, guadagno minimo per loro, arrotondavano rivendendo il video con le immagini della loro opera professionale, in fondo si trovava sempre qualcuno interessato, e stavolta si parlava di una vittima nota grazie alla sua provvidenziale morte tramite attentato).
Il sorriso sereno di Doglia si cancellò. “Mi dispiace” mormorò in direzione di una nuvola in cui avrebbe potuto vagare lo spirito inquieto di Vincenzo Eranio. “Alla fine ti hanno trasformato ugualmente in un personaggio di dominio pubblico. Sarai condiviso da milioni di spettatori che ti commenteranno su twitter. Il tuo cadavere diventerà un hashtag e domani su facebook parleranno di te. Devi rassegnarti: questo è un mondo complicato che funziona come gli scacchi, non ha la linearità della dama”.
Scosse la testa e poi con aria complice sussurrò: “Però sembra proprio che tua figlia voglia farsi aiutare. È questa la cosa più importante”.
Un barlume di sole filtrò per un attimo sopra la nuvola, tralucendo un raggio luminoso che balenò nel cielo simile a un riflesso.


FINE

martedì 4 novembre 2014

L'era dell'esibizionismo globale - 6

AVVISO IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI

8
Il prefabbricato in legno non era più disabitato.
Doglia poggiò la mano destra sulla piccola pistola che aveva nella tasca anteriore dei jeans. Inspirò profondamente, conscio di ogni possibile rischio e al tempo stesso deciso a insistere fregandosene delle conseguenze.
Si avvicinò a passi prudenti, bussò con delicatezza.
Una faccia tagliata da due vistose rughe verticali dal naso alla bocca e dagli zigomi al mento comparve, velata, dietro la tenda della finestra accanto alla porta.
“Sono della polizia” si scoprì subito Doglia.
L’uscio cigolò aprendosi in uno spiraglio. Gli occhi di Vincenzo Eranio esprimevano un rassegnato senso di fatalità.
“Si accomodi”.
Per sedersi disponeva di uno sgabello tarlato davanti a un minuscolo tavolino oppure una poltroncina sporca e strappata, probabilmente gli scarti di un condomino che le aveva pietosamente regalate al poveretto in condizioni abitative precarie.
La faccia di un uomo può essere una maschera ingannevole, ma Doglia decise di credere a quel che vedeva. Parlò senza esitazioni.
“Sono venuto per rivolgerle alcune domande riguardo i tre attentati dei giorni scorsi…”
L’uomo mosse le labbra alla ricerca di parole che faticavano a formarsi. “Beh, in fin dei conti lo sapevo che sarebbe successo” riuscì infine a sospirare. Era una situazione surreale ma conforme all’istintivo approccio del poliziotto: il sospettato aveva praticamente già confessato senza opporre alcun tipo di resistenza. Una mente lineare, diretta come una pedina della dama, priva delle sottigliezze dei numerosi pezzi che formano gli scacchi.
“Vuole raccontarmelo con parole sue?” offrì Doglia, tranquillo nella voce ma con la mano prudentemente infilata in tasca e le dita già avvinghiate sul calcio della pistola.
Le rughe di Vincenzo Eranio si tesero attorno alla bocca intristita. “Io sono un uomo inadatto a questi tempi. Però ci vivo, e anche mia figlia. Tempo fa ho scoperto una cosa che la riguardava. Una cosa di cui un altro padre si sarebbe forse vantato. Ma io non…”
“Conosco la storia” lo facilitò il poliziotto. “Lei pensava che fosse stata vittima di un furbo e invece…” Attese la versione dell’uomo, lasciandogli alcuni istanti per sospirare a occhi bassi. Soffriva anche solo a predisporre la frase più adatta per concettualizzare il suo punto di vista.
“È un mondo strano, io non riesco a capirlo. Lei invece ci si trovava bene” fu la sola spiegazione che riuscì a fornire.
“Ma per quale motivo ha iniziato a mettere bombe?” chiese Doglia senza alcuna durezza o tono di rimprovero.
“Alcuni video erano veramente inguardabili” si disgustò Eranio sollevando finalmente la testa. “Inguardabili per un padre come me. Quasi tutti quelli che conosco non se la sarebbero presa, ma io sono fatto a modo mio. Non potevo accettarlo. Soprattutto non accettavo certi commenti… Erano troppo offensivi”.
Doglia strinse con più forza il calcio della pistola. Percepiva negli occhi dell’uomo un’improvvisa rabbia nata dalla disperazione.
“Intende dire che i destinatari delle bombe erano…”
“Quelli ai quali ho potuto risalire” assentì l’uomo. “Ho cominciato con le ricerche più semplici: gli utenti espliciti, i nickname con nome, cognome e link attivo su tutti i profili social. Quelli che danno la possibilità di sapere ogni cosa della loro vita leggendone la pagina facebook o instagram”.
“Perché non ha mai usato il suo cellulare per queste ricerche?”
“Pensavo che fosse meglio disperdere le tracce della mia attività, perciò quel tipo di indagini le ho sempre fatte presso connessioni pubbliche, ogni volta in un luogo diverso”.
Dunque l’uomo seguiva una lucida strategia per non farsi scoprire. Ma allora perché…
“Perché quei tre messaggi col cellulare subito dopo gli attentati? Non ha pensato che potesse essere sospetto un IP attivo solo in quelle giornate?”
Eranio incavò la testa nel collo. “Mi sembrava che non ci fosse niente di strano. In fondo non avevano nessuna attinenza con le esplosioni”.
Credeva di aver scelto la strategia più sicura. “Quindi lei ha deliberatamente pianificato ogni attentato con la massima cura”.
“Sì. Creare un pacco bomba che scoppia nel momento in cui si apre il coperchio è abbastanza semplice, basta leggere le istruzioni su un qualunque sito di terroristi. Anche reperire il materiale è facile. Per la consegna ho indossato una divisa della DHL comprata su ebay e dei veri documenti di trasporto: li regalano spesso ai clienti per permettergli di compilarli anticipatamente prima ancora che giunga il corriere, così guadagnano tempo”.
“E ha consegnato i pacchi esplosivi a tre destinatari che avevano commentato offensivamente sua figlia”.
“Sì. Avevo consultato le loro pagine facebook e scelto ogni volta l’orario in cui ero sicuro che non fossero in casa, così i famigliari avrebbero aspettato il loro ritorno”. La voce dell’uomo si arrochì di furore soffocato. “Ci ho sempre scritto a caratteri grossi ‘riservata personale’, così l’avrebbero aperto i maiali, loro e nessun altro al posto loro”.
“Come faceva a esserne sicuro?” obiettò il poliziotto.
Eranio allargò le braccia che tremolarono confuse insieme alla testa. “Non ero per niente sicuro. Sapevo che potevano aprirli per curiosità pure gli altri famigliari. Però…” Anche la bocca iniziò a tremare penosamente. “Lo so che non aveva senso. Lo capivo, eppure dovevo farlo. Mi si rivoltava dentro una nausea così forte che… Io dovevo fare qualcosa, non potevo restarmene inerte. Sapevo che prima o poi avrei ucciso, sapevo che il tormento mi ci avrebbe spinto. E avrei sparato nel mucchio! Avrei colpito chiunque, senza alcuna logica! In questo modo, almeno, ho limitato gli obiettivi. Ma non credo che lei possa comprendermi”.
Doglia, la mano sempre pronta a estrarre l’arma e sparare, capiva in realtà più di quanto l’uomo immaginasse. Ma quantunque un poliziotto possa compatire un assassino, non può ignorarlo.
“Le devo chiedere di seguirmi in commissariato”.
La faccia dell’uomo si sgranò in un’espressione di orrore. “No, me lo risparmi! Non mi condanni a diventare un hashtag! Non sarò mai l’oggetto delle chiacchiere di milioni di persone che si divertono a giocare con la propria esistenza e con quella degli altri!”
Il poliziotto temette una reazione e si predispose a sparare. Ma prima che estraesse l’arma Eranio aggiunse altre parole inattese.
“Non intendo diventarlo. Almeno, non da vivo. Mi tolgo di mezzo da solo e il problema è risolto. Avevo previsto che prima o poi sarei stato scoperto ed ero pronto”. Annuendo istericamente si alzò mormorando “Le mostro una cosa”.
Aprì una vecchia cassapanca alle spalle della poltrona traendone un pacco.
“Lo avevo già preparato per il prossimo obiettivo, ma a questo punto…”
In una frazione di secondo la pistola di Doglia era puntata contro la sua testa.
“No, non fraintenda” balbettò Eranio. “Ormai è finita, sapevo che prima o poi sarebbe successo, e d’altronde sapevo anche che non avrei mai potuto colpire tutti i maiali. Erano troppi. Questa soluzione riguarda solo me, tranquillo. Lei non c’entra nulla. E poi…”
La voce gli tornò calma, lo sguardo quasi supplichevole. “E poi devo chiederle un favore”.
Doglia lo fissava senza abbassare la tensione, il dito pronto a premere il grilletto.
“Per mia figlia io non esisto più” si intristì Vincenzo Eranio. “Se le offrissi aiuto lo rifiuterebbe. Mi ha ucciso, mi ha cancellato. Non posso più far nulla per lei. Ma io non voglio lasciarla sola. Ha bisogno di una persona che la salvi. Sta uscendo da quel giro schifoso in cui era entrata, lo so, ma è rimasta sola. Se nessuno le da una mano ci ricadrà e finirà anche peggio. Lei è un poliziotto, può entrare nella sua vita senza dover chiedere il permesso. Io…” (sospirò profondamente) “… Io so che mia figlia, in qualche modo, vorrebbe solo essere aiutata. Avrei voluto provvedere io, ma non è più possibile. La prego di prendersi cura di Michela”.
“Trovi il coraggio di affrontare le sue responsabilità invece di fuggire” parlò infine il poliziotto.
“Non è una fuga, è l’inevitabile destino ormai” si arrese a testa bassa Eranio. “Le do cinque minuti. Sono sufficienti per allontanarsi a distanza di sicurezza. E…”
Esitò prima di pronunciare le ultime parole. “Le chiedo anche, se possibile – ma la consideri una richiesta secondaria, meno importante rispetto all’altra – di non trasformarmi nell’oggetto della curiosità dei maiali, neppure da morto! Se può, se ne ha la possibilità, non riveli a nessuno la verità. In ogni caso, fra pochi minuti l’attentatore misterioso smetterà di colpire”.
Per prudenza Doglia si allontanò mantenendo la pistola puntata in direzione dell’uomo, ma ormai era chiaro che tutto si sarebbe svolto nel modo in cui lui aveva promesso.
Attraversò di corsa il cortile dove era stata allestita la misera casa di legno portandosi sufficientemente lontano per evitare conseguenze, e si protesse dietro il muro di cinta all’angolo, gli occhi puntati sul prefabbricato, pronto a dare l’allarme se per caso qualcuno fosse transitato nei paraggi proprio in quel momento.
Ma nessuno passò, e la deflagrazione causò una sola vittima, quella prevista.


CONTINUA

domenica 2 novembre 2014

L'era dell'esibizionismo globale - 5

AVVISO IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI

6
Vincenzo Eranio era un cittadino incensurato. L’ufficio anagrafe gli attribuiva cinquantaquattro anni, l’agenzia entrate una sola multa per ritardato pagamento delle tasse e il servizio sanitario nazionale un solo ricovero per un banale intervento di appendicite.
Nei registri dell’Arma risultava il suo nome: aveva presentato un denuncia contro ignoti – roba recente, pochi mesi prima – per diffusione non autorizzata di immagini private di Michela Eranio, figlia del medesimo. La denuncia era stata archiviata su richiesta della ragazza.
Per pura curiosità Doglia aveva googlato quel nome femminile, trovandosi a disposizione dozzine di foto e filmini pornografici. Non erano i tipici primi piani di peli pubici e capezzoli che tutte le adolescenti mettevano on line di tanto in tanto per vivacizzare il proprio profilo web e per competere con gli autoscatti sexy delle loro mamme: era materiale assai più professionale, sadomaso incluso. Due, tre minuti di scene hot e poi si apriva la finestra con l’avviso che per un paio di euro si poteva comprare il resto del video, forse anche qualcosa in più.
Il padre della webpornoattrice risultava residente al villaggio Breda. Doglia avrebbe potuto fargli visita e rivolgergli un paio di domande, ma ciò significava rischiare. Forse l’uomo era armato e pericoloso: affrontarlo senza un guardaspalle implicava la seria probabilità di restare ferito o peggio. Oppure lo avrebbe denunciato per violazione della privacy. Sarebbe stato buffo: Berruti che ammanetta il suo vice per aver infastidito un onesto cittadino con domande inopportune relative a dati anagrafici ottenuti fraudolentemente… A occhio e croce ce ne era abbastanza per l’imputazione di ‘abuso d’ufficio’, magari con un accenno di ‘stalking’.
Erano passate ventiquattro ore dall’ultima riunione congiunta delle forze dell’ordine. La videoconferenza aveva partorito tre direttive: la principale era la messa in onda dell’intervista al finto attentatore, le altre due erano persino più improbabili, tanto è vero che Doglia neppure se le ricordava. Nella sua mente persistevano solo le immagini delle case sventrate e i rapidi fotogrammi della donna anziana che si manteneva in disparte per versare le sue lacrime di costernazione, le lacrime amare di chi non sa capacitarsi di tanta assurda violenza.
Poco prima che terminasse il suo turno di lavoro il poliziotto aveva chiesto l’ennesima giornata libera per l’indomani, intavolando una negoziazione con Berruti: l’ispettore era disponibile, ma in cambio pretendeva venti giorni ad agosto.
“Pensaci bene: va a finire che per coprire tutti gli assenti ti toccherà stare l’intero mese in servizio. Grasso che cola se ti concedono un solo giorno libero prima o dopo ferragosto”.
“Per me va bene. Dubito che andrò in vacanza da qualche parte”.
“Ormai ti sei fregato da solo” lo aveva deriso Berruti inviando subito un’e-mail urgente al commissario con la richiesta di ferie estive dal primo al venti agosto.
Così, il giorno dopo, alle nove di mattina il poliziotto stava usufruendo della giornata di ferie. Il luogo di villeggiatura prescelto era il villaggio Breda, con la sua aria da paese in cui tutti si conoscono. Camminando lungo la via principale si poteva cogliere la tranquilla quotidianità dei pensionati che leggono il corriere dello sport sulle panchine di un minuscolo parco pubblico e delle casalinghe che vanno a fare la spesa a piedi, percorrendo con le buste in mano i pochi metri che separano i condomini dal negozio del fornaio e dallo spaccio del fruttivendolo.
Doglia aveva appurato che il domicilio di Vincenzo Eranio era una specie di prefabbricato in legno piazzato in mezzo a un cortile.
“Legale o abusivo?” si era informato con una signora pettegola.
“Sarebbe abusivo, ma gli altri condomini del palazzo glielo hanno concesso per pietà. Poveraccio, ha avuto tanti problemi”.
“Di che tipo?”
“Ha litigato con la figlia e con la moglie che lo hanno lasciato solo come un cane. Peraltro devono essere due vipere perché hanno litigato pure fra loro: una è andata in Inghilterra e l’altra…”
La donna aveva lasciato la frase inconclusa, decorandola però con un gesto della mano che sottintendeva la frequentazione da parte della figlia di ambienti poco rispettabili.  
“Non si può permettere neppure una casa?”
“No, poveraccio, qualche mese fa ha perso pure il lavoro e per campare gli è toccato vendere quella in cui viveva”.
“Quindi sta lì adesso?”
“Sì. Cioè, adesso no. L’ho visto uscire stamattina presto” resocontò la donna con l’aria di una che non si lascia sfuggire nessun dettaglio della vita di quartiere.
“Siccome ha un piccolo debito col negozio in cui lavoro” improvvisò Doglia “il mio capo mi ha chiesto di venire qui e farmi pagare… Per caso è un tipo violento, pericoloso?”
La signora modulò un massiccio “No!” teatralizzandolo con un ampio movimento della bocca. “Non parla mai, sta sempre per conto suo, ma è molto educato. Non è il tipo d’uomo che gira col coltello in tasca. Anzi, le dico di più: mi sembra incredibile che abbia debiti con qualcuno: è sempre stato di una correttezza esemplare”.
“Ne terrò conto, forse ha solo bisogno di qualche giorno per mettere insieme i soldi e liquidarci” aggiunse Doglia insistendo nella commedia. Ma subito vi aggiunse una domanda utile alla sua indagine privata:
“Quando pensa che lo posso trovare?”
La donna ora appariva restia, improvvisamente diffidente. Gli esattori suscitano sempre questo tipo di reazioni. “Chi lo sa? Non ha orari, certe volte sta fuori tutto il giorno e rientra quando è già buio. Provi più tardi”.

7
Il bar era interrato sotto il livello stradale, pavimento in legno e pareti rivestite di plexiglass nero animato da luci colorate. Si atteggiava da locale giovanile metropolitano, anche se la sua collocazione topografica era da osteria di borgata. Per accentuare lo stile rock sfoggiava un paio di teleschermi sospesi a due angoli opposti della sala, con casse stereo a tutto volume. Erano sintonizzati su MTV: la programmazione dalle nove alle dieci era interamente occupata da ‘Death live’, raccolta di video amatoriali in cui qualcuno moriva in una qualche maniera: investito da una macchina, azzannato da uno squalo, accoltellato da un tifoso della squadra avversaria… Il palinsesto era ottimizzato alternando decessi traumatici ad altri più soft, tipo l’istante in cui un malato inflebato esala l’ultimo respiro o un suicida si inietta il siero letale in vena e poi si accomoda tranquillo sul divano in attesa della paralisi respiratoria.
I clienti presenti in quel momento erano però inadatti per quel tipo di bar: sul bancone stava poggiato un attempato signore che sorseggiava chinotto e sviliva una tuta giallorossa taglia M facendo straripare rotoli di panza XXL; a un tavolo era accomodato un ometto sui quarantacinque, seduto sotto uno dei due teleschermi, che indossava una minuscola giacca gessata con un paio di patacche di grasso e un bottone mancante. Il poliziotto Doglia era quello col look più intonato all’ambiente: i jeans e la giubba di pelle nera lo rendevano un rocker vintage. Ordinò un caffè e si sedette al tavolo libero.
“Lei non è di queste parti” affermò e domandò l’ometto trascurato. La luce giallastra del neon si adagiava come cera sulla sua fronte enorme, liscia, sormontata da capelli cortissimi e dritti che gli evidenziavano la testa a forma di cubo. In contrasto, sotto gli occhi tristi penzolava una faccetta piccola in cui spuntava qualche pelo sparso di barba discontinua. Aveva l’aria indifesa di un malaticcio.
“Posso chiederle come mai è venuto da queste parti?” continuò spostando la sedia in direzione del tavolo di Doglia.
Il barista gli lanciò un’occhiata di ammonimento: ‘Se questo inizia a parlare non te lo spiccichi più di dosso’ gli voleva suggerire. Ma il poliziotto doveva lasciar scorrere il tempo, e anche le ciance di un topo da bar potevano aiutarlo.
“Io neanche sono di qui. Vengo da Chieti, pensi un po’, abbastanza lontano anche se a seconda dei punti di vista può sembrare vicino” aveva preso il via l’ometto. “Ero venuto per amore di una donna. Che coglione, eh? Anche se all’inizio – diamo a Cesare quel che è di Cesare – è stato bello. Funzionava tutto alla perfezione. Guardi, le faccio vedere una cosa…”
Digitò sul cellulare l’url di youtube e cliccò su un video. L’immagine di presentazione mostrava due cuori rossi che pian piano si sovrapponevano fino a coincidere, e intanto appariva la scritta ‘La prima notte di nozze di Alberto e Fatima’. La telecamera fissa inquadrava il letto matrimoniale da una posizione laterale rialzata: la scena era occupata dalla mogliettina che si abbassava vezzosamente le spalline del babydoll mentre l’ometto – assai più giovane e vitale – strisciava sul lenzuolo a torso nudo e con un solo tanga a coprirlo.
“Guardi che intesa” si commosse l’uomo mentre scorrevano i preliminari, inclusa la mano di lei che gli calava il tanga per massaggiarlo sulle parti intime. “Come è possibile che un’unione così appassionata giunga alla separazione? Mi prende un dolore intollerabile ogni volta che ci ripenso” si lamentava l’ormai ex sposino con una voce triste come un belato. Pareva sul punto di piangere.
“Se si mette alla ricerca, sicuramente troverà un’altra donna con cui far rinascere la passione” lo incoraggiò per pietà Doglia.
L’ometto scosse la gigantesca fronte e il minuscolo mento. “No, non sarà mai più la stessa cosa. Guardi, le mostro un altro video”.
Di nuovo cliccò su una clip tra le varie – poche in realtà – che aveva caricato sul suo canale pubblico di youtube. In quest’altra sequenza l’ometto stava penetrando focosamente una donna di colore un po’ sovrappeso: erano in piedi, la partner con la schiena poggiata su un muro, la qualità della ripresa alquanto scadente a causa della scarsa luminosità. Avevano prescelto una location con una pessima illuminazione pubblica, e la telecamera aveva immortalato il loro amplesso in esterna notturna con inevitabili zone d’ombra.
“Stavo bene anche con Lina – sarebbe questa che si vede qui, o meglio: che praticamente non si vede qui – però Fatima era un’altra cosa. Con Fatima era un rapporto più…”
Deglutì. Una lacrimuccia gli colò lungo l’ossuto zigomo destro. “Non era solo sesso, capisce? Con lei ci stavo bene anche mentre telefonava alle sue amiche e io guardavo la televisione. Sentire la sua voce mi dava gioia…”
Il barista incrociò di nuovo lo sguardo di Doglia e smorfieggiò un chiarissimo ‘Ti avevo avvisato!’ Il poliziotto ritenne che il consiglio non poteva essere ulteriormente ignorato.
“Beh, io però adesso devo andare, ho un appuntamento”.
Si alzò dalla sedia mentre l’ometto tentava inutilmente di riattaccare bottone. Doglia lo ignorò, pagò e si lanciò a passi veloci sulla scalinata che riconduceva i clienti in superficie. Sui teleschermi agli angoli la pubblicità annunciava che nella successiva clip di videodecessi ci sarebbe stata una compilation di esecuzioni tramite decapitazione e impiccagione eseguite negli ultimi due mesi in un califfato mediorientale, e inoltre la lapidazione di una donna adultera che – rammentava lo speaker ai telespettatori – era stata ‘Numero uno negli Stati Uniti e in Canada per quantità di contatti, downloads e condivisioni’.


CONTINUA…

venerdì 31 ottobre 2014

L'era dell'esibizionismo globale - 4

AVVISO IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI

5
Il messaggio della polizia postale era giunto verso le undici di sera. Venti minuti dopo era in corso una videoconferenza unificata fra tutti i commissariati capitolini, le caserme dell’Arma, il ministero dell’interno e i servizi segreti. Stranamente le procedure di sicurezza erano state rispettate e nessun giornalista era stato ammesso. I poliziotti, i carabinieri, i sottosegretari e il ministro erano stati gentilmente pregati di tenere spenti i cellulari e di non divulgare immagini e contenuti della riunione su facebook, twitter, instagram e compagnia cantante.
“L’ipotesi investigativa del vice ispettore Doglia” stava spiegando il capo della polizia “ha fornito uno spunto. Ribadisco: solo uno spunto. Non vi sono né confessioni né rivendicazioni, solo tre messaggi generici postati dalla medesima persona circa due ore dopo i tre attentati”.
Sui volti dei militari e dei politici si tratteggiarono smorfie di delusione.
“Da un punto di vista procedurale non ci sono gli estremi per poter autorizzare l’avvio di un’indagine sull’autore dei tre messaggi in questione. Tuttavia, vista la straordinarietà della situazione, se si ritiene opportuno applicare una deroga…”
Il commissario capo lasciò in sospeso la frase per non pronunciare concetti troppo apertamente illegali. Si affidò alla libera interpretazione dell’audience che lo ascoltava e alla loro valutazione in merito.
“Alquanto inopportuno” lo stroncò in due parole un sottosegretario. Il ministro, con un cenno della testa, benediceva l’intervento del suo sottoposto.
“Allora questa ipotesi viene scartata” tagliò corto il capo della polizia. “Passiamo alla successiva, elaborata dal prefetto Dolgetta. Per questa ci occorrerebbe la collaborazione della Rai: dovremmo far trasmettere in prima serata un’intervista fittizia a un tizio qualunque che si attribuisca la responsabilità degli attentati, e mettere a disposizione degli spettatori un numero verde per porgli domande ed eventualmente smentirlo. È plausibile che il vero attentatore chiamerebbe per evitare che qualcun altro gli sottragga il merito delle azioni dinamitarde…”
Doglia si alzò dalla propria sedia e si allontanò dalla sala riunioni del commissariato.
“Dove vai?” gli sussurrò scandalizzato Berruti.
“Al bagno”.
Era tutto chiaro adesso: la sua ipotesi investigativa era stata data in pasto ai mass media per sviarli. L’avevano proposta per prima perché la ritenevano la più debole, quella da cassare subito. Nel prosieguo della videoconferenza sarebbero state trattate le proposte più credibili.
Si accomodò nel cesso, abbassò il copriwater e si sedette sul wc come se fosse la sedia di un ufficio. Col cellulare di lavoro entrò nella rete dei dati relativi agli attentati e scaricò le informazioni relative alla sua richiesta.
L’IP che era stato attivo esclusivamente nei giorni delle esplosioni apparteneva a tale Vincenzo Eranio.
Aveva pubblicato tre messaggi su tre diversi quotidiani on line, tutti sotto forma di commento ad un articolo e tutti postati in forma anonima. Non avevano alcuna apparente attinenza con le notizie che commentavano. Il primo, aggiunto fra le opinioni relative al decreto legge che abbassava a sedici anni il limite d’età per i giovani che intendevano pubblicare autoscatti del proprio corpo nudo sui profili dei social networks, parlava di scacchi…
*
Gli scacchi vengono considerati il più straordinario gioco di strategia e intelligenza creato dalla mente umana, ma dall’umanità traggono anche gli aspetti peggiori della sua evoluzione.
Gli scacchi hanno l’identica ambiguità e doppiezza della civiltà umana, che ha progredito la propria mente verso concettualizzazioni astratte incommensurabili e al tempo stesso ha sfruttato tale meravigliosa propensione per fini meschini.
La capacità divina dell’uomo di organizzare il pensiero e partorire concetti quali l’etica e la morale lo ha condotto altresì alla loro subdola manipolazione allo scopo di ingannare e comandare sul prossimo.
Gli scacchi costituiscono il simbolo concreto di tale ignobile metodologia.
Ogni pezzo ha i suoi movimenti specifici, che seguono regole precise per i loro spostamenti sulla scacchiera. Sarebbe un gioco perfetto, ma ecco che la viltà umana, con maligna intelligenza, vi applica le identiche, sordide eccezioni nate con lo scopo di complicare i rapporti sociali e la loro amministrazione a vantaggio dei più furbi.
Il pedone mangia solo in diagonale. Invece no! C’è un caso specifico in cui mangia il pezzo avversario tirando dritto grazie alla regola dell’en passant.
Oppure: con l’eccezione del cavallo nessun pezzo può passare sopra altri pezzi, né, tanto meno, se ne possono muovere due contemporaneamente. Ed ecco l’eccezione, l’arrocco, che consente di violare entrambe le regole in un colpo solo.
E ancora: il re è sotto scacco, ma potrebbe facilmente essere liberato grazie a un pezzo dello stesso colore che, con un semplice movimento, avrebbe la facoltà di mangiare il pezzo avversario che minaccia il re. Però non si può: se il re è sotto scacco, solo il re può essere mosso.
Questa è la falsità profonda degli scacchi, la stessa che caratterizza le legislazioni sociali umane con il proliferare di norme e regole che contraddicono altre esistenti. Le eccezioni (la parola preferita di tutti i disonesti del mondo) condizionano lo svolgimento della vita umana e di una partita di scacchi allo stesso modo.
Qualcuno obietterà che tali regole valgono per tutti gli uomini e per entrambi i giocatori: ogni cittadino può usufruirne, sia il bianco che il nero ne possono approfittare.
Ma ciò che io contesto è l’esistenza stessa di tali regole e la loro finalità. Esse nascono con lo scopo di confondere, di disorientare le menti più semplici, di favorire le persone con maggiore malizia, gli specialisti dell’applicazione perversa di una legge ai fini del proprio tornaconto personale. Queste eccezioni sono un ostacolo deliberato nei confronti di coloro che applicherebbero pedissequamente le leggi rendendo più lineare ed onesta una società o una partita a scacchi.
Più vi sono leggi, più una società è corrotta, sosteneva uno storico dell’antica Roma. Perché quando le regole sono tante solo pochi possono tenerle a mente e la massa della gente, purtroppo ottusa ma potenzialmente onesta, ne viene soggiogata. Oppure – peggio ancora – apprende a sua volta l’uso delle singole eccezioni e ne fa un uso disonesto seguendo l’esempio dei furbi e dei loro avvocati (o del meschino giocatore avversario).
Ecco perché sostengo che gli scacchi sono pregni di ambiguità e falsità come le peggiori società umane.
La dama sarebbe invece il gioco ideale al quale uniformarsi: qui non esistono eccezioni, le regole sono poche e incontrovertibili. Da qui nasce la contestazione tipica delle menti disoneste: gli scacchi sono più complessi, determinano una quantità di combinazioni e di situazioni infinitamente superiore, pertanto sono più interessanti e più avvincenti della dama.
L’inganno supremo della furbizia maligna: convincere l’umanità che tanto più una cosa è complicata e tanto più è da considerarsi evoluta.
Che sciocchezza! La complicazione delle concettualizzazioni astratte della mente ha il solo scopo di confondere, di intorbidare, di rendere ambiguo.
In tutte le grandi religioni ai primordi esistevano pochissime regole, impossibili da equivocare. I predicatori furbi le hanno successivamente ampliate, contrapposte e contraddette per gestire meglio il proprio potere interno e persuadere le menti semplici che sono troppo ottuse per poter capire ogni cosa.
Gli scacchi seguono la stessa logica: una mente semplice si convince di non potervi giocare per il loro eccesso di regole, e subisce l’inganno credendo addirittura che solo pochi cervelli eletti hanno la mirabile facoltà di praticare questo gioco. La mente semplice si accontenta della dama, quasi schernendosi per i propri limiti, quasi pensando: posso permettermi solo un gioco semplice e banale come questo.
Se gli scacchi venissero aboliti, se scomparisse la loro memoria, se la dama diventasse l’unico gioco da tavola tradizionale e tutti lo praticassero, la società umana evolverebbe verso la lineare semplicità dell’onesta e delle poche regole non sporcate dalle eccezioni dei furbi.
Ma chi potrà mai estirparli ora che, dopo millenni, sono così profondamente radicati nella storia e nel cervello degli uomini?
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Il secondo, aggiunto ai commenti sul big match fra Roma e Juventus, parlava di piedi femminili…
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Non mi piace essere l’oggetto dell’interesse altrui. Ormai tutti guardano tutti, spiano il privato, attingono all’intimo, normalizzano l’indiscrezione, si mettono in mostra illimitatamente e illimitatamente s’impicciano delle vite altrui (altrettanto generosamente offerte alla pubblica attenzione, bisogna riconoscerlo).
Io sono fra i compatiti pochi che non si adeguano, fiero della mia riservatezza. Per tale motivo cammino a testa bassa, lascio penzolare gli occhi in direzione dei miei piedi più che dell’orizzonte. Mi affascina, peraltro, la veduta del cielo che in un luogo irraggiungibile si unisce alla terra, ma puntare lo sguardo verso quell’incanto implica il dover esporre la mia brutta faccia alle bruttissime ingerenze altrui: estranei che mi giudicano e talvolta mi identificano come volto noto, adocchiato casualmente in un luogo di lavoro o emerso nei meandri della loro memoria con tratti più giovani ai tempi della scuola. E ne consegue, da parte loro, il vergognoso orgoglio di raccontarmi ciò che gli passa fin dentro le mutande, e la pretesa di conoscere uguali dettagli da parte mia…
E allora, camminare a testa bassa: questa è la prima contromisura.
Inoltre, chinato verso il suolo, l’occhio raccoglie umili ma importanti dettagli che sfuggono agli esibizionisti globali, troppo intenti a mettersi in evidenza e nel contempo annotare l’esibizionismo altrui.
Camminando piegato ho preso l’abitudine di apprezzare le donne a partire dai piedi. Li osservo disinteressandomi di tutto il resto, sono l’unico dettaglio che di esse conosco. Trascorro lunghi minuti ad osservare le aggraziate posture di piedi con la pelle liscia e curata come quella di un viso, elegantemente abbigliati con un sandalo egiziano o un’infradito, le unghie decorate di smalto brillante, vistoso, provocante, le caviglie evidenziate dall’oro di una cavigliera che ha la preziosa raffinatezza di un bracciale sul polso.
Anche questo è impicciarsi, beninteso, ma è proprio per evitarne la volgarità che mi limito ai piedi: la loro bellezza è priva di identità. Neppure moglie e marito saprebbero riconoscersi se gli fosse fornito come unico indizio l’immagine di un piede.
“È del suo coniuge?”
Chi lo sa! I volti possono essere memorizzati, le mani parzialmente riconosciute, ma i piedi, se non dotati di segni di distinzione particolari, rimangono troppo anonimi persino per l’osservatore più fisionomista. Io non sfuggo a tale limite, ho le medesime incapacità di qualunque altro essere umano, e ciononostante in un’occasione ho riconosciuto una donna soffermando lo sguardo sulle sue ciabattine da mare.
Mi disinteressai del busto e della faccia, incanalai la vista su polpacci e caviglie, non spiai mai al di sopra delle ginocchia, eppure compresi di conoscerla. Quel piede mi era noto, la sua carne pallida era già stata ammirata dalle mie pupille, carezzata dalle mie mani, persino baciata affettuosamente dalle mie labbra quando il piede era ancora un piedino di bimba.
Ero stato riconosciuto a mia volta, infatti quei piedi scapparono con movimenti repentini, ingoffiti dalla mancanza di un laccetto a sostegno dietro il tallone. Una delle due ciabattine rimase sull’asfalto. Mi piegai per raccoglierla e alzai inconsciamente lo sguardo mentre mi risollevavo. Ebbi la certezza che la donna fosse proprio lei. Se voleva fortemente evitare di incontrarmi aveva valide ragioni di imbarazzo, ma io mi lasciai contagiare dall’ormai dominante costume di voler sapere tutto delle vite altrui e volli indagare. In fondo si trattava di una vita che mi riguardava da vicino, una vita alla quale avevo contribuito. Fui giustamente punito scoprendo ciò che sarebbe stato assai meglio ignorare.
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Il terzo, l’ultimo, era stato postato in mezzo alle recensioni di un film drammatico lodato dalla critica ma schifato dalla maggioranza degli spettatori, più o meno nello stesso orario in cui Doglia e i colleghi si avviavano al commissariato per la riunione straordinaria notturna in seguito all’attentato di Trastevere. Era un’analisi dei comportamenti sociali.
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Sapere a proposito degli altri è talmente facile ormai!
Non occorre impegnarsi granché: ognuno racconta tutto di se stesso, pubblica sequenze fotografiche della sua giornata, scrive il pubblico diario della propria settimana, rivela ogni intimità fisica e psichica del corpo e della mente.
Qualche isolato anticonformista l’ha definita una follia, eppure c’è logica in questa follia.
Mettersi in mostra è la maniera contemporanea di sentirsi vivi. “Bisogna vivere la propria vita per raccontarla” diceva uno scrittore, e ormai siamo arrivati al punto in cui raccontarla – spingendosi in ogni più infimo e scabroso dettaglio – è persino più importante che viverla. Compiere un’azione senza darne notizia, senza avere l’illusione che gli altri possano assistervi come se fosse un film, ha il sapore dell’inutile.
Allora via, condivisione costante: webcam sempre accesa, profilo personale perennemente aggiornato su tutti i social networks:
“Questo sono io alle tre di notte mentre dormo; questo sono sempre io alle quattro e mezza mentre vado al bagno a pisciare…”
Questo tipo di atteggiamento si incastra bene con l’esasperata morbosità altrui in un rapporto che si capovolge di continuo: esibizionista della propria vita e voyeur di quelle altrui, ognuno è a turno maniaco e guardone.
Questa bipolarità costituisce la sublimazione della frustrazione originata dalla consapevolezza del proprio anonimato: l’incapacità di ottenere una visibilità pubblica e di essere braccato dai mass media causa un complesso di inferiorità, ci si sente mediocri. E allora ognuno si trasforma nel paparazzo della propria esistenza: costantemente auto-inquadrato dalla telecamera in casa, appena esce si insegue e si scatta foto nella veste di fotografo e cronista scandalistico di se stesso. É una forma di schizofrenia, una malattia, però più tollerabile rispetto allo stress depressivo causato dalla fama negata, dal senso di fallimento per il mancato successo come star della musica, della televisione, del cinema o di quant’altro abbia inventato l’umanità per creare una categoria di improbabili semidei adorati dalle folle non per le loro imprese, bensì per la banale capacità d’intrattenere, o persino per la loro mera apparenza esteriore seducente. Essere al centro dell’attenzione morbosa altrui dona l’illusione di una vita piena.
Io sono talmente morto, ormai, da non aver bisogno di sentirmi vivo, tanto meno in una forma di patetica autocelebrazione. È questa la mia salvezza: l’assenza di motivazioni per inseguire la parvenza della visibilità. Io vorrei il contrario: scomparire del tutto, diventare un invisibile fantasma.
Prima, però, voglio provare a concludere il proposito che mi sono imposto. È difficile stabilire sino a quale punto possa spingermi, sino a dove abbia senso arrivare. In effetti, arrivare dove? E cosa ha davvero senso in questo grottesco teatrino di esibizionisti guardoni?
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Il poliziotto ritenne opportuno raccogliere informazioni sull’autore dei tre messaggi, fregandosene delle opinioni del ministro e del capo della polizia.


CONTINUA…