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sabato 26 novembre 2011

Betrothed - testo integrale

Questo racconto partecipa all'iniziativa "Risorgimento di tenebra" del gruppo Moon Base



BETROTHED


1

Togliete all’uomo il potere della creazione!
Le solite frasi prive di senso urlate con voce disperata, la sconfortante litania di concetti deliranti. Durante le giornate di crisi – sempre più frequenti – la camera degli ospiti restava chiusa, sigillata, ma le farneticazioni di Charles Altamont rimbombavano per l’intera casa.
Arthur, che ormai trascorreva la maggior parte del suo tempo all’Università di Edinburgo, aveva dimenticato questi improvvisi scoppi di follia del padre. E anche frugando nella memoria non ricordava attacchi tanto virulenti. Era doppiamente sconvolto: per il dolore di ritrovare suo padre in preda alla malattia, e per l’apparente indifferenza dei famigliari. Non poté fare a meno di rimproverarglielo.
“Tu non puoi capire cosa significa trascorrere intere giornate in queste condizioni”, aveva replicato Mary Foley, sua madre. “Tu vieni svegliato dai tuoi compagni di stanza, non da grida improvvise nel cuore della notte. Tu prendi il tè in refettorio, e ascolti il suono del cucchiaino che scorre lungo la porcellana della tazza mentre lo fai girare per sciogliere lo zucchero. Io devo rinchiudermi in cucina, serrare ogni porta, eppure continuo a sentire la sua voce che profferisce ogni genere di follia e descrive con un’accuratezza ossessiva le allucinazioni che gli scorrono davanti agli occhi”.
E dopo un profondo respiro carico di frustrazione aveva ribadito: “Tu non puoi capire”.
Arthur pareva scettico, ma sua sorella Annette diede ragione alla mamma. Non erano esagerazioni. “Mandiamo spesso Lottie a casa degli zii col solo scopo di non costringerla ad ascoltarlo”, aggiunse malinconicamente. “È un trauma per lei, figurati per le piccole”.
Arthur si pentì di aver usufruito della pausa nei corsi accademici per trascorrere alcuni giorni in casa. Sarebbe stato meglio restare nel pensionato insieme a quegli studenti che non potevano rientrare dalle famiglie. Una noia rassicurante.
“Cosa ha detto il dottor Mackay?”
“Isteria”, rispose sua madre con laconica rassegnazione. “Che non è il nome di una malattia, ma piuttosto la giustificazione che usano i medici per assolversi dall’incapacità di guarire il loro paziente”.
Nella biblioteca universitaria Arthur aveva consultato una gran quantità di libri sull’argomento. “La situazione è peggiorata”, affermò.
“No, non è così”, obiettò Mary. “In passato siamo riusciti a nasconderti la gravità del suo male, ma sono anni che versa in queste condizioni. Mentre stavi in Austria abbiamo passato delle giornate infernali”.
Annette assentì dolorosamente per confermare le parole della mamma.
“È prigioniero della sue fantasie febbrili, le stesse che riversa in quei maledetti quadri”.
Charles Altamont aveva un riconosciuto talento nelle arti figurative, ma le sue tele lasciavano perplessi galleristi e colleghi pittori.
“Francamente le trovo inquietanti”, aveva ammesso con brutale sincerità Lord McAllister per giustificare il suo rifiuto di esporle.
I tre smisero di parlare. Anche nella camera degli ospiti non si udiva più nulla, e un silenzio quasi irreale si era finalmente impadronito della casa.
Arthur portò la tazza di tè alle labbra, ma mentre lo sorseggiava un nuovo urlo echeggiò furioso.
Quel maledetto viaggio in Italia!
Sobbalzò dalla sedia. Gocce di tè colavano sul tavolo e gli imbrattavano la giacca. Si notava l’eccitazione del suo respiro, la velocità con cui il torace si gonfiava ritmicamente assecondando l’affanno dei polmoni. Per lui era inaccettabile che suo padre soffrisse in quel modo.
“Ormai le ho imparate a memoria”, commentò Mary senza scomporsi. “Ridatemi la mia supponenza. Gli spiriti abbiano pietà di me. Togliete all’uomo il potere della creazione. Fuggiamo ora finché siamo in tempo. Quel maledetto viaggio in Italia”.
Erano le litanie ricorrenti dei deliri di Charles Altamont. Pronunciava anche altre frasi – talune incomprensibili, spesso lacerate da gemiti di dolore – ma quelle non mancavano quasi mai.
“Se le ripete avranno una logica nascosta che noi possiamo interpretare”, azzardò Arthur, affascinato dal razionalismo grazie alle brillanti lezioni sull’argomento dell’emerito professor Baldwin, una delle menti più ammirate dell’Impero.
“Non c’è nulla da interpretare, lui stesso ce le ha spiegate nei momenti di lucidità” gli fece presente sua madre. “Il problema è che sono spiegazioni sono prive di senso”.
“Vorrei ascoltarle anch’io”.
“Basterà aspettare che ritorni in se. Con un po’ di fortuna domani mattina sarà in grado di alzarsi dal letto e di riconoscerci”.

Charles Altamont, raggomitolato nella sua vestaglia, si riparava da un freddo immaginario. Persino Edimburgo è calda nel mese di luglio, ma lui sembrava non accorgersene. Le mani gli tremavano mentre si stringevano l’una sull’altra.
“Padre, credo che la vostra salute necessiti di ulteriori accertamenti. Se il dottor Mackay non ha saputo essere d’aiuto, questo non vuol dire che il vostro male sia privo di possibili cure. A Londra dimorano luminari della medicina le cui competenze sono assai superiori a quelle di Mackay. Il professor McGregor ha numerose amicizie tra gli esperti di Nevrastenia, e lui stesso è un’autorità in materia. Se io gli parlassi sono sicuro che verrebbe qui a visitarvi”.
Charles Altamont affondò il viso nelle mani detergendo invisibile acqua dalle guance e dalla fronte, poi rialzò lo sguardo incerto in direzione del figlio. “Non credo che servirà”.
“Padre, non potete abbandonarvi così alla malattia. Dovete reagire!”
Arthur aveva compiuto diciotto anni. Essendo l’unico figlio maschio in mezzo a tante femmine, e avendo il padre malato, si sentiva autorizzato ad agire come “uomo di casa”, con diritti e doveri, incluso quello di alzare la voce. E di essere informato su ogni cosa.
“Potete delucidarmi a proposito delle vostre allucinazioni?” aggiunse con calcolato tempismo. “Cosa è il maledetto viaggio in Italia? E la vostra supponenza?”
Charles Altamont respirò lentamente, gli occhi fissi nel vuoto. La moglie rispose al suo posto.
“Non è un’allucinazione. Charles si recò davvero in Italia quando era ancora ragazzo. I primi attacchi li ebbe al suo ritorno, almeno secondo quanto mi disse la prima volta che lo sorpresi in preda alla nevrastenia”.
“Cosa vi è accaduto in Italia?” domandò Arthur.
Il respiro di Charles divenne più rapido ma anche più irregolare. Esitava a rispondere.
“Iniziò ad avere visioni”, spiegò sua moglie. “Purtroppo è l’unica cosa che sia in grado di riferire. Quando ha raccontato a me e a Annette ciò che gli è accaduto in quel paese non siamo state in grado di capire cosa fosse vero e cosa fosse una mera fantasia. Ricordo e sogno sono confusi nella sua mente”.
“Siete in condizione di ripetere questa storia?” chiese Arthur rivolgendosi direttamente a Charles.
Suo padre sospirò. La respirazione si era stabilizzata, e gli occhi erano meno lucidi.
“Non è facile, perché ogni volta che rievoco quei momenti mi sembra di riviverli. Ma è giusto che anche tu possa ascoltare questa storia, così eviterai di commettere i miei errori”.
Mary scosse la testa con un cenno di scetticismo. Le parole appena pronunciate dal marito le parevano una prova dell’inutilità di questa ennesima rievocazione. Era come voler estrarre il vino della sua ragione dall’acqua della follia dopo che erano stati mescolati. Impossibile recuperarlo, ormai era un’inutile mistura di entrambi i liquidi, senza più le caratteristiche specifiche dell’uno e dell’altro.
“Era il marzo del 1849”, esordì Charles Altamont, “e le grandi sommosse che scuotevano il Continente erano state debellate, tranne che in Italia. Lì ancora si combatteva…”


2

Il professor Pieter Venckman, professore emerito di Teologia presso la rinomata Università di Leida e studioso di scienze occulte, ammirava la splendida campagna della Lombardia che sembrava totalmente ignara della violenza bellica scatenata dall’uomo.
Le truppe piemontesi e austriache si erano fronteggiate in numerose battaglie, ma intanto la natura fioriva rigogliosa e indisturbata.
Il suo bizzarro compagno di viaggio, lo scozzese Charles Altamont, pareva ugualmente incantato dalla bellezza del verde incorniciato tra le finestrelle della carrozza. I rischi legati al violento fermento rivoluzionario che stava incendiando l’Europa avevano inevitabilmente disincentivato il tradizionale Grand Tour nel passato del Vecchio Continente. La visita alle rovine di Roma – quasi un obbligo per ogni giovane studente delle nazioni di stirpe germanica – era al momento impossibile, a meno che non ci si arruolasse in uno dei due schieramenti: ribelli italiani da un lato, truppe francesi dall’altro. Però difficilmente ci sarebbe stato il tempo e la possibilità di ammirare l’antico Foro e l’imponente Colosseo, e inoltre sarebbe stato alquanto scomodo doverlo fare tra colpi di cannone, fucilate, assalti alla baionetta e scontri corpo a corpo.
Pieter Venckman e Charles Altamont si erano conosciuti casualmente nel porto di Genova, dove entrambi erano giunti per la loro inopportuna visita alle terre d’Italia proprio nel momento in cui erano sconvolte dalla guerra.
Lo scozzese si era lanciato in questa rischiosa avventura per sfruttare l’ospitalità offertagli da un ricco barone siciliano amico di suo padre, in ciò dimostrando che c’era qualcosa di vero nella tradizionale fama di avarizia del suo popolo, e che dunque non si trattava soltanto di una volgare calunnia degli inglesi.
Venckman perseguiva invece una missione professionale, per così dire. Un suo conoscente lombardo, il pregiato Marchese Carlo Ripamonti, lo aveva supplicato di mettere le sue competenze al servizio di un caro amico che stava vivendo un momento difficilissimo. Ciò implicava l’inevitabile ingresso nei territori del Regno Lombardo Veneto proprio ora che il conflitto fra Regno di Sardegna e Impero Austriaco era in una fase incerta. Un compagno di viaggio sarebbe stato utile e, sorprendentemente, il giovane scozzese si era offerto per quel ruolo. Voleva vedere il possente corso della Storia svolgersi davanti ai propri occhi (questa era stata la sua giustificazione). Assistere a una battaglia fra i rinomati granatieri piemontesi e i celebri cavalleggeri asburgici gli appariva come un’opportunità alla quale non si poteva rinunciare.
Tali parole erano state più che sufficienti per rivelare al professor Venckman che il giovane Charles Altamont era un incosciente sconsiderato, ma d’altronde non poteva neppure impedirgli di viaggiare sulla stessa carrozza.
“Questa località che diceva, Melegnano” domandò l’idiota, “È tanto lontana?”
“Secondo il vetturino dovrebbero mancare poche miglia”, rispose il professore.
“Anche nella giornata di ieri sosteneva che mancassero poche miglia”.
“Consideri che io gli parlo in francese e lui mi risponde in una specie di dialetto tedesco che non ho mai sentito parlare in nessun angolo dell’Impero e neppure in Svizzera”.
Ma stavolta, malgrado le difficoltà linguistiche, c’era qualcosa di vero. In lontananza si scorgeva un centro abitato, e a giudicare dalla massiccia presenza di divise bianche fu presto chiaro che si stavano addentrando nel cuore del conflitto in corso.
“Lei pensa che le truppe savoiarde potrebbe tentare un’incursione in questa città?” domandò con la massima naturalezza Charles Altamont.
La risposta negativa di Venckman lo deluse. “Posso provare a chiederlo ai soldati austriaci accampati là fuori” azzardò il giovane studente scozzese, e stavolta il professore non seppe trattenersi.
“Se vuole mettersi nei guai è padrone di farlo, ma non dando l’impressione che tra me e lei esista qualcosa che assomigli anche lontanamente ad amicizia o semplice conoscenza. Pertanto, se intende procedere in questa sua idea, la informo che eviterò di parlarle e le impedirò di restare al mio fianco”.
Charles sbuffò. Che pesantezza questo Venckman! Proprio un professore, probabilmente calvinista.
“Va bene, non domanderò nulla agli imperiali. Magari, con un po’ di fortuna, il suo amico che ci alloggerà stanotte saprà dirci qualche notizia fresca sugli spostamenti degli eserciti”.
Pieter si rese conto di aver commesso un grosso errore permettendo a quel ragazzo di seguirlo.


3

Il Marchese Ripamonti conosceva il francese e, sorprendentemente, anche l’inglese, ben presto eletto a lingua franca per permettere al giovane accompagnatore del professor Venckman di comprendere i loro discorsi.
Durante i giorni trascorsi insieme da Genova a Melegnano, in carrozza e nelle luride pensioni in cui avevano pernottato, Pieter Venckman aveva accennato qualcosa riguardo ai motivi che lo avevano trascinato nel nord dell’Italia. Ma era stato sempre piuttosto vago, in parte per la sua riservatezza fiamminga e in parte perché lui stesso non aveva compreso esattamente la natura dei servigi che gli venivano richiesti. C’era qualcosa di sovrannaturale in mezzo, questo sì, ma non molto chiaro neppure per Carlo Ripamonti.
“È una mente eccelsa, uno dei più grandi letterati di Lombardia. Le sue opere sono note in tutte la nazioni d’Italia, gode della stima di numerosi poeti e drammaturghi anche in Francia e nell’Impero Germanico. Purtroppo, come spesso accade a coloro che troppo sfruttano la propria testa, è soggetto a ricorrenti crisi di malinconia, che talvolta sfociano in deliri sulle ingiustizie della vita e della condizione umana. Negli ultimi mesi, tuttavia, la situazione è degenerata al punto tale che egli è convinto di essere perseguitato da una creatura la cui natura non è di questo mondo…”
Mentre lo diceva allargava le braccia rassegnato.
“La scienza medica ha tentato invano di guarirlo dalle sue fissazioni. Egli è ormai convinto di essere oggetto delle sgradite attenzioni di questa… creatura. Qualche tempo fa, prima che iniziassero le sue stranezze, io gli avevo parlato di te, mio caro amico, e dei tuoi studi sulle scienze occulte. Nelle scorse settimane egli ha rammentato questi miei discorsi e mi ha pregato di farti accorrere affinché tu possa esaminare il suo caso. Tu sai che io sono alquanto scettico su certi argomenti, e d’altronde la nostra differenza di vedute non è mai stata motivo di divisione tra noi. Per l’affetto che provo verso questo amico scrittore, mi sono deciso a chiedere la tua urgente venuta pur nel bel mezzo del conflitto che lacera la mia terra. Spero che tu possa quanto meno tranquillizzarlo, giacché è stato proprio lui a invocare la tua consulenza”.
Venckman aveva ascoltato con estrema attenzione senza mostrare alcuna emozione. Charles invece aveva permesso al proprio volto di lasciar trasparire incredulità, fastidio e infine una certa supponenza, che aveva esternato senza troppi giri di parole.
“Il vostro amico è diventato pazzo”.
“Si da il caso che stiamo parlando di un uomo con un cervello straordinario”, replicò Ripamonti piuttosto infastidito, “e al momento non è per niente pazzo, ma sta solo accusando una grande tensione nervosa”.
“Che è una perifrasi per definire una persona che sta uscendo di senno” scherzò Charles Altamont.
Venckman gli lanciò un’occhiata talmente feroce da zittirlo per un bel pezzo.
Anche Ripamonti, assai infastidito dall’insolenza di quel ragazzo, gli riservò un piccolo sgarbo smettendo di parlare in inglese e passando al francese.
Comunque, dopo pochi minuti andarono tutti a coricarsi nelle proprie stanze.


4

Il mattino seguente Ripamonti informò Venckman che lo avrebbe condotto dal suo amico scrittore, e domandò se fosse necessario portarsi dietro lo scozzese idiota.
“Rischia di mettersi di guai”, suggerì con spirito caritatevole il professore. “Lo spingerò a imbarcarsi sul primo vapore per la Sicilia, almeno raggiungerà il suo conoscente e sarà al sicuro”.
“Per farlo dovrà tornare a Genova, ed è un bel problema. A quanto pare ieri l’esercito austriaco ha inflitto una disfatta ai piemontesi, e nei territori sabaudi è il caos. Nello Stato Pontificio la situazione non è migliore, e anche a Venezia c’è un gran movimento di truppe straniere che muovono guerra ai patrioti”.
Quella parola fece comprendere a Venckman quale fosse la posizione del suo amico rispetto ai conflitti che scuotevano la penisola italica.
“Non ci sono alternative: l’imbecille deve venire con noi”, si rassegnarono entrambi.
Charles Altamont invece avrebbe andare per conto proprio, e per una ragione che dimostrava nuovamente la sua stupidità: la notizia dell’armistizio cancellava la possibilità di assistere all’agognata battaglia tra piemontesi e austriaci, e allora pensava di raggiungere gli altri fronti di guerra.
“Oserei dire che è suggestivo in una forma quasi epica: discendenti dei Romani e discendenti dei Galli che si fronteggiano sul suolo della Città Eterna, come ai tempi di Furio Camillo e del Brenno”, faceva notare dando libero sfogo all’immaginazione. E con un filo di rimpianto aggiungeva: “Perché non siamo passati da Novara? Avremmo visto lo scontro così da vicino da poter raccogliere le palle di cannone come ricordo di questo soggiorno”. Si consolava pensando a quanto sarebbe stato interessante conoscere personalmente quell’avventuriero italiano, quel… Come si chiamava?... Garibaldi, sì.
“Sta combattendo a Roma, vero? O forse a Venezia?”
“A Milano” rispose Ripamonti, “la città in cui siamo diretti”.
“Ma io sapevo che laggiù la rivolta è stata soffocata lo scorso anno” obiettò Charles.
“Sì, ma sta per ricominciare” gli confidò il Marchese simulando la massima serietà.
Dopo un’ora la carrozza postale conduceva i tre uomini verso la capitale del Regno Lombardo Veneto, provincia in terra italiana del grande Impero Asburgico.
Ma non giunsero sino alla città. All’ultima stazione smontarono e salirono sul carro di un contadino trainato da un solo cavallo. Li avrebbe condotti a nord, in una zona rurale disseminata di borghi e piccoli villaggi.
“Il suo amico non risiede a Milano?” domandò incuriosito Venckman.
“Quando le sue crisi sono arrivate al parossismo ha scelto di lasciare la propria casa in gran fretta. Preferisce restare nascosto. Non vuole che la gente si accorga di come sia ridotto per paura di quella creatura”.
Mentre i due amici parlavano, il giovane scozzese osservava il panorama e – carta e carboncino in mano – tracciava uno schizzo. Aveva un discreto talento per il disegno, e lo aveva già mostrato più volte al professore fiammingo. Ricevette complimenti anche dal Marchese lombardo, che preferiva definirsi italiano.
“Ha un ottimo senso delle proporzioni. Sa anche dipingere?”
“Sì, ma devo ancora apprendere molto. Una volta giunto in Sicilia conto di realizzare alcune tele con gli splendidi colori del mar Mediterraneo e la luce abbagliante del sole più meridionale d’Europa”.
Così grande è il potere dell’arte, che quei tratti in chiaroscuro tracciati su un foglio permisero a Charles Altamont di riguadagnare una certa stima da parte dei suoi più anziani compagni di viaggio.


5

La cascina sorgeva in mezzo a vasti campi dormienti, dove i primi germogli si intravedevano appena. Il carretto smontò i passeggeri davanti a un lungo viale alberato. Ripamonti pagò il contadino e condusse i due viaggiatori verso una piccola stamberga accanto alla costruzione principale.
“Nessuno, eccetto me ed i suoi famigliari più stretti, sanno che lui si trova qui”.
Entrarono nel bugigattolo con cautela. La stanza era in penombra. Al centro emergeva una tavola rustica con gli avanzi di un pasto campagnolo a base di pane nero e verdure cotte. Seduto, lo sguardo basso, un uomo anziano dall’aria dimessa pareva meditare in silenzio. Solo la voce del Marchese lo destò dal suo raccoglimento.
“Alessandro”.
“Carlo, amico mio”, replicò lo scrittore con sollievo. Poi, volgendo rapidamente i propri occhi agli accompagnatori, aggiunse pieno di speranza: “Uno di costoro è il dotto di cui mi parlasti?”
Si svolsero le presentazioni.
L’esimio professor Pieter Venckman (“Colui che forse può aiutarti”).
Lo studente Charles (“Un giovane proveniente dalla Scozia”).
Il letterato Alessandro Manzoni (“Forse lo avrete sentito nominare”).
Il giovane rispose seccamente di no: mai aveva udito il suo nome.
Con più diplomazia, Venckman ammise che si interessava poco alle Lettere, essendo sin troppo assorbito dallo studio della Teologia, della Cabala e delle Arti Divinatorie.
Si sedettero attorno al rozzo tavolaccio.
“Parla Alessandro. Racconta il tuo cruccio in ogni minimo dettaglio”.
Lo scrittore narrava il proprio caso in francese, mentre Ripamonti, con fastidio e solo per rispetto del galateo, traduceva sommariamente in inglese a beneficio del loro inutile ospite scozzese.
Le parole di Manzoni furono più o meno queste.


6

Per lunghi anni ho lavorato alacremente a un romanzo che si è impossessato del mio tempo e della mia mente forse più del dovuto.
Esso si è espanso al di là del suo stesso scopo, ha persino generato un’ulteriore novella partorita da un episodio sin troppo corposo del manoscritto originale.
Io ho letto, riletto, scritto e riscritto questa vicenda un’innumerevole quantità di volte, cosicché essa ha assorbito enormemente la mia energia, e d’altronde io glielo ho permesso. Come sostiene monsieur Honoré de Balzac, tutti abbiamo a disposizione una specifica quantità di energia vitale, e l’uso o l’abuso di essa implica delle conseguenze.
Nel mio caso, l’aver riversato una così elevata quantità della mia vita in tali vicende immaginarie, ha permesso a queste ultime di prenderne una parte e di trasformarsi  (da fantasie che erano) in devianti realtà.
Il mio riposo notturno cominciò ad essere spesso turbato da strani sogni. Nel buio della camera da letto io vedevo d’improvviso delle lame di luce che fendevano l’oscurità, simili a quelle che si creano attraverso le fessure delle porte quando una stanza è illuminata e l’altra è in penombra.
Queste lame iridescenti mostravano la polvere che fluttua normalmente nell’aria, ma a poco a poco i granelli – bianchi come frammenti di luna – si addensavano formando una strana sagoma allungata, opalescente, trasparente eppure densa, come quelle viscide creature marine, le meduse, che in mezzo all’acqua appaiono fatte d’acqua eppure si nota che dispongono di un corpo.
Il pulviscolo misto a luce e oscurità assumeva lentamente i contorni di una figura con connotati di donna, ma non poteva definirsi umana.
Sopra quello che poteva essere il corpo, avvolto in miriadi di veli trasparenti dai quali emergevano impudiche le sue forme femminili, vi era una testa, o piuttosto un’estremità celata da un velo particolarmente lucente. Dentro questo velo vi era un vuoto nero, un viso in ombra forse, e degli inquietanti punteruoli biancastri in basso. Erano come piccoli denti aguzzi, due file parallele da cui scendevano o salivano queste estremità appuntite. Immaginate un abbozzo di bocca, ma orrendamente animalesca e minacciosa.
Per lunghe settimane solo questa immagine veniva a disturbare il mio sonno. Ma una notte da essa fuoriuscì una voce di donna, eppure priva di grazia. Era orrenda, spaventevole.
Le due linee di denti lucenti tremolavano nell’ombra sussurrando insulti osceni alla mia persona. E mi accusavano di aver commesso del male.
“Tu mi hai dato vita per rendermi infelice. Tu mi hai fatto conoscere la passione per un uomo e poi me lo hai sottratto. Tu hai giocato con la mia esistenza immaginaria per il tuo capriccio. A che scopo soffiare l’alito vitale in me per poi immergermi nella sofferenza? Non potevi lasciarmi nel Nulla privo di forma? Mi hai creato a tuo piacimento, ma non puoi abbandonarmi nelle pagine di un libro. Devi restituirmi la dignità!”
Io tentavo di ignorare questa creatura, mi ripetevo che doveva per forza essere un incubo notturno generato dal mio sonno inquieto. E quando trovai la forza – neppure io so come – di dirglielo in uno dei momenti in cui essa mi apparve, in risposta ebbi un urlo simile al ringhio di una bestia. E da quel momento cominciò a funestarmi anche durante la veglia!
Mi accadde la prima volta mentre desinavo con la mia famiglia. Un angolo del salone, dietro un fitto tendaggio, era in ombra. In quel riquadro di oscurità la polvere luminescente assunse la forma della donna infernale, e la sua voce stregata mi lanciò nuovamente accuse. Io vacillai. I miei famigliari pensarono che fossi stato colto da un malore. Non ebbi il coraggio di raccontargli la verità, non volevo causargli inutili agitazioni. Non meritavano di essere coinvolti, perché quel fantasma è sorto solo per me. Io l’ho creato, e solo per me esiste.
Nel romanzo di cui vi dicevo, quello che troppo ha assorbito le mie energie vitali, compare una donna di chiesa dalla condotta immorale, ma animata da ingenuo amore verso un uomo. Ella si ritrova nell’impossibilità di vivere felicemente questa passione. A causa d’essa è costretta financo ad uccidere. La vicenda romanzesca lo impone.
Ma questa donna si è ribellata alla trama e pretende di appagare la propria tresca. Lei esige da me che io riscriva con miglior esito la storia, anzi, la sua storia.
Io… mi credete pazzo se vi confido che la vedo anche adesso, alle vostre spalle? La sua bocca dentata emerge dal buio del volto incappucciato, pronta a vomitare insulti e a minacciarmi.
Potete salvarmi? Vi supplico, liberatemene!


7

Venckman era sbalordito. Gli era capitato di leggere resoconti su fantasmi di persone morte o su demoni di antiche creature pagane, ma mai gli erano capitati degli spiriti… di personaggi romanzeschi. Esseri che prendono vita a causa del troppo intenso potere creativo del proprio autore…
Charles Altamont fissò per alcuni istanti il volto terrorizzato di Alessandro Manzoni, si voltò a guardare la parete ammuffita in cui avrebbe dovuto esserci la strana creatura, e infine si rivolse al professore fiammingo dicendo semplicemente:
“Elementare Venckman. Quest’uomo è pazzo, come dicevo io”.
“Quest’uomo” intervenne Ripamonti parlando in inglese affinché Manzoni non comprendesse “ha bisogno di aiuto. Egli è ormai incapace di reagire, ma la presenza di un esperto di Scienze Occulte può ridargli fiducia. É ossessionato da questa visione generata dalla sua fantasia di scrittore, e pensa che la monaca presente nel romanzo esiga una nuova versione della propria vicenda. Secondo me basterebbe che lui riscrivesse questo episodio e tutto si risolverebbe: nutrirebbe l’illusione di aver contentato questo spirito di carta e inchiostro e ciò lo tranquillizzerebbe. La tranquillità ridarebbe serenità al suo sonno, e le sue fantasie malate svanirebbero”.
“Quindi concorda con me: è pazzo”, ribadì Charles.
Ripamonti lo ignorò, e si rivolse direttamente a Venckman.
“Digli che daremo alla creatura ciò che essa chiede: una nuova vicenda a lei favorevole. Se glielo proponessi io non mi darebbe retta, ma a te crederà”.
“In pratica mi stai proponendo di ingannarlo”, osservò il professore.
“Sì, a volte non si può prescindere dagli inganni”, rispose il Marchese con profondo imbarazzo nella voce e nello sguardo. “Se serve a guarire un uomo dalle proprie morbose allucinazioni, anche una bugia si trasforma in una benedizione”.
“Insomma, sono qui in veste di attore ciarlatano e non di studioso di fenomeni occulti”, sottolineò Venckman piuttosto deluso da colui che riteneva un amico.
“Hai ragione mio caro Pieter, ma credimi: ti ho mentito per il bene di un uomo sconvolto” (e mentre lo diceva lanciò un’occhiata compassionevole verso Manzoni, che continuava a fissare la parete del bugigattolo con gli occhi febbrili, come se vi scorgesse davvero quella donna biancastra con la bocca orrenda).
“E cosa dovrei fare? Mettermi a danzare urlando strane parole per scacciare via il demonio? Oppure far cadere gocce d’olio in una ciotola d’acqua per togliergli il malocchio? Ditemi Marchese, se volete posso denudarmi e tingermi il corpo di vari colori, come i selvaggi del Borneo, oppure prendere una sfera di cristallo e leggere in essa la salvezza del suo amico”.
Le parole di Venckman erano glaciali. L’essersi rivolto all’italiano con il suo titolo (Marchese) anziché col nome di battesimo come faceva abitualmente nella loro corrispondenza, era la prova più evidente di quanto fosse offeso. La loro amicizia era rotta per sempre.
Ripamonti si scusò nuovamente, senza però ammettere il timore che lo aveva spinto all’imbroglio: se fosse stato sincero e avesse rivelato anticipatamente il suo piano al professor Venckman, probabilmente quest’ultimo non si sarebbe neppure sognato di recarsi in Italia. Avrebbe risposto “Noleggi un attore di teatro che fingerà di essere me”, e sarebbe rimasto mortalmente offeso. Amicizia ugualmente troncata e senza neppure aver ottenuto l’aiuto sperato.
Inoltre Alessandro Manzoni voleva il professor Venckman, insigne esperto di Scienze Occulte, e per quanto sconvolto dalle sue visioni era ancora abbastanza lucido da capire se aveva di fronte un vero studioso o un impostore.
“Cosa vuole dunque che faccia?” ripeté ancora una volta il fiammingo, alquanto infastidito.
“Io avrei un’idea. Visto che parliamo dello spirito di un… personaggio immaginario, è possibile sfruttare il talento pittorico del nostro giovane ospite. Egli potrebbe trasporre su tela un’immagine della donna così come ci è stata descritta, e accanto a lei l’uomo che essa amava e con il quale può finalmente ricongiungersi. Si dovrebbe poi convincere Alessandro che ciò è sufficiente per placare la monaca fantasma che compare nelle allucinazioni, e forse la sua mente offuscata ritroverà la pace”.
“Ottima idea” intervenne Charles. “Mi racconti la vicenda romanzesca nei dettagli”.
Appresa la storia della famigerata Monaca di Monza, lo studente iniziò a fantasticarvi sopra. “Potrei disegnare il fantasma all’interno di una biblioteca. In basso a destra metterei in primo piano un libro… un libro caduto in terra che si regge dritto simile a una lapide… Sì! E da questo libro-lapide fuoriuscirebbe un corpo scheletrico e decomposto, una sorta di cadavere che risorge, ovviamente l’uomo bramato dalla monaca passionale! I due amanti infine riuniti dopo la morte! Nonostante le avversità della vita e l’indifferenza dello scrittore che li ha creati, riescono a coronare il proprio amore! È proprio il tipo di immagine che prediligo: ho una grande passione per le storie gotiche. A voi piacciono?”
Né Venckman né Ripamonti risposero a quest’ultima domanda, essendo entrambi troppo assorti dai loro rispettivi stati d’animo.
Il primo si sentiva preso in giro per essere stato coinvolto in questo caritatevole imbroglio, penoso e volgare come un melodramma (ineffabilmente italiano).
Il secondo era dispiaciuto proprio per la consapevolezza di aver perduto l’amicizia del professore. Ma d’altronde lo stava facendo per Alessandro Manzoni: perdeva un amico e ne ritrovava un altro.
“Disegni questa scena su carta” ordinò Pieter a Charles con l’aria di chi si vuol cavare un dente fastidioso quanto prima possibile. “Finito il disegno io gli fornirò il marchio fasullo di catalizzatore del male. Quanto a voi”, aggiunse rivolto a Ripamonti “Fatemi trovare una carrozza pronta domani mattina. Ed evitate di ragguagliarmi sull’esito della vostra brillante idea. Se questo tizio continua a sognare monache mostruose, portatelo in un convento di frati e illudetelo che là nessuna donna potrebbe mai entrare, neppure in forma di fantasma”.
Manzoni, pallido, non aveva capito una sola parola di questo dialogo in inglese. Continuava a sentirsi impaurito.


8

Charles Altamont realizzò un disegno a carboncino di elevata qualità. Aveva il tocco dell’artista, e le figure che aveva elaborato mentalmente prendevano forma sul bianco del foglio con una mirabolante potenza evocatrice.
Il volto nero coperto sotto il velo con le due file di denti acuminati. Il corpo femminile provocante, nascosto parzialmente da alcuni veli al pari di una peccaminosa Salomé. Il libro che emergeva dal pavimento in equivoca rassomiglianza con la lapide di un cimitero. Il cadavere consunto che da esso sorgeva per congiungersi finalmente alla donna amata…
Una storia racchiusa in un’immagine: due amanti, separati in vita dall’odioso obbligo di clausura imposto alla giovane e costretti al peccato e al rischio della dannazione eterna per nascondere il proprio segreto, ritrovavano finalmente la dignità dell’inestinguibile passione che li attraeva l’uno all’altra.
Con una scrittura elegante caratterizzata da rotondità raffinate, Charles vergò infine il titolo del disegno, ovvero i nomi dei due personaggi: Gertrude e Egidio.
Uno svogliato Venckman rassicurò Manzoni parlandogli in francese: in quello schizzo – vivente allo stesso modo in cui ogni frutto della creatività artistica e letteraria dell’uomo assume una particolare forma di vita – vi era la consolazione cercata dal suo personaggio. Il romanzo terminava lasciandola prigioniera nel convento che lei odiava, ma questo disegno ispirato alla vicenda della Monaca di Monza rappresentava un prolungamento, un ramo cresciuto da esso, uno sviluppo in cui la donna trovava – almeno dopo la morte – la felicità dell’amore appagato e non più negato dalle circostanze sfortunate della vita.
Insomma, lo spirito che lo tormentava era ormai fissato su quelle figure di carboncino e pertanto non avrebbe più preso forma materiale davanti ai suoi occhi.
“Poiché il sole è tramontato”, concluse Venckman, “Vi invito a coricarvi e riposare. Domattina vi desterete libero dai vostri incubi”.


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Il professore era assai pessimista sull’esito di questa farsa, e la sua unica premura era che la carrozza giungesse presto al mattino per permettergli di andarsene via da quel ridicolo teatrino.
Tuttavia, all’ultimo secondo subentrò l’umano e comprensibile sentimento della curiosità. Fece pertanto attendere il vetturino e aspettò il risveglio di Manzoni, il cui sonno fu particolarmente lungo e si concluse ben oltre il sorgere del sole.
Lo scrittore pareva un altro uomo. Il volto, quantunque segnato dalla vecchiaia e dalla stanchezza di una vita costellata di dispiaceri, non aveva più la fissità febbrile della giornata precedente. Ammise, quasi con la paura di rompere un incantesimo, che nessuna creatura aveva rischiarato l’oscurità della stanza in cui dormiva, e attorno a se vedeva solo una cascina di campagna e tre uomini che lo avevano aiutato, e ai quali era profondamente grato.
“Io ho fatto ben poco” commentò Ripamonti. “Ringrazia soprattutto il professor Pieter Venckman per la sua sapienza” (e mentre lo diceva provò vergogna) “e il giovane Charles Altamont per il suo talento artistico”.
Alessandro Manzoni offrì agli ospiti la possibilità di soggiornare per alcune settimane a Milano, presso la propria dimora, dove voleva immediatamente tornare.
“Datemi la possibilità di esprimere la mia riconoscenza”.
Ma Venckman declinò cortesemente, e anche Charles – una volta appreso che Garibaldi era a Roma e non a Milano – rispose che voleva proseguire per la Città Santa; o forse, meno rischiosamente, avrebbe raggiunto la Sicilia e il barone amico di suo padre che lo attendeva ormai da numerosi giorni.
La guarigione (per così dire) dello scrittore avvenne giusto in tempo per evitargli problemi con le autorità. La polizia austriaca, in quel clima insurrezionale che da mesi funestava le provincie lombarde e venete, vedeva cospirazioni ovunque, e la misteriosa scomparsa da Milano di Alessandro Manzoni era considerata sospetta.
Lo scrittore riferì semplicemente di aver avuto problemi di salute, ed ebbe il guizzo di aggiungere che da quel giorno in poi avrebbe inviato ogni mattino una lettera al governatore di Milano per informarlo dei propri spostamenti. “Oppure, se preferite, posso spedirla direttamente a Vienna all’attenzione dell’Imperatore”.
I gendarmi asburgici non gradirono le ultime parole e profferirono minacciose frasi in tedesco, ma Manzoni non gli diede peso. Un uomo che sopravvive ai propri fantasmi non si lascia certo spaventare da uomini in carne e ossa, sia pure armati e con la divisa bianca.


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“Da quel giorno”, terminò il racconto Charles Altamont, “Iniziarono i miei guai. Io credevo, con supponenza, che quella creatura fosse il frutto di una mente bacata, e invece…”
Strinse i denti come se un brivido di freddo lo avesse attraversato.
“Invece no. Nelle settimane seguenti, mentre ero in Sicilia, vedevo quella monaca fantasma e il suo amante spettrale. Pensavo di essere stato suggestionato, e allora per distrarmi dipingevo paesaggi: colline ricoperte di alberi di limoni, l’azzurro mare Mediterraneo che placidamente bagnava spiagge sabbiose… Ma mentre il pennello tracciava la linea morbida di un’onda, all’improvviso mi sorprendevo mio malgrado a dargli la forma di una sirena. Io… un attimo prima avevo sognato le leggende greche ambientate in quelle terre, ed esse prendevano forma nei miei quadri. Non c’erano più ostacoli a dividere quel che vedevo e quel che immaginavo. La mia mente pensava…”
Si interruppe.
“No, non posso parlare di pensiero. Prima di quella maledetta esperienza effettivamente pensavo i miei disegni. Avevo una fantasia fervida, ero affascinato dalle leggende sul Piccolo Popolo, dai romanzi gotici e dalle antiche leggende celtiche. Ma dopo quell’unico giorno trascorso in uno sperduto villaggio della Lombardia, la mia mente iniziò a viverli, a percepirli come entità reali. Le figure fuoriuscivano dalla mia testa! So che sembra assurdo, ma è così! Fuoriuscivano e pretendevano di essere immortalate su carta. Io sono… sono circondato dalle mie fantasie, assediato come se fossero reali. Io gli do vita e io devo fornirgli una collocazione”.
Arthur ascoltava il padre provando compassione. Aveva ragione sua madre: il cervello di Charles Altamont era perduto.
“Avete mai pensato a chiamare quello studioso, quel… Pieter Venckman?”
“A quale scopo? Allora non hai ancora compreso che egli non credeva a questi… fantasmi della creatività umana. E d’altronde io stesso, con infinita supponenza, le ritenevo sciocchezze e commiseravo quello scrittore italiano considerandolo un povero pazzo. Se ora mi potesse vedere, chissà cosa penserebbe lui di me…”
Mary e Annette si mantenevano in silenzio mentre Charles continuava a raccontare la propria vita, o piuttosto la propria follia.
“All’inizio lo ritenni una sorta di dono. Potevo creare in forma concreta, sulla tela o sulla carta, un intero mondo vivente di cui io ero la divinità creatrice. Tua madre sa quanto ero entusiasta a quell’epoca. Poi però questo universo ha iniziato a sovrastarmi, è diventato più grande di me, più enorme delle mia testa. Sono come Atlante, il dio greco che sorregge la Terra. Anch’io ho sopra le spalle un pesante, allucinante mondo, e non sono più in grado di sostenerlo”.
E con un faticoso respiro ripeté per l’ennesima volta “Sia maledetto il potere della creazione”.


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Arthur non parlò più con suo padre delle strane allucinazioni che lo tormentavano. Tuttavia, pur essendo un razionale studente di Medicina attratto dalla Logica, iniziò a interessarsi di occultismo.
Raccolse informazioni sul professor Pieter Venckman, scoprendo che da alcuni anni non insegnava più a Leida e si era trasferito nelle ex Colonie, dove esercitava come docente in un ateneo americano.
In quello stesso periodo Arthur scoprì anche di essere attratto dalla scrittura. Pubblicò dei racconti sul giornale universitario, e successivamente storie poliziesche che ottennero un clamoroso successo.
Si rammentò della curiosa storia di suo padre molti anni dopo, quando – sia pure in circostanze più prosaiche – fu costretto a resuscitare un personaggio romanzesco che aveva fatto morire. Era come se quell’uomo immaginario di carta e inchiostro fosse diventato un’entità reale dotata di vita propria, almeno per i lettori.
Scoprì anche che lo ‘scrittore lombardo’, Alessandro Manzoni, era una gloria nazionale italiana e aveva effettivamente pubblicato un romanzo in cui compariva una monaca dai facili costumi. Si intitolava “Betrothed”, in un certo senso profetico per il destino di quella religiosa e del suo amante.
Tutto questo però avrebbe avuto luogo nei decenni a seguire.
In quel giorno di luglio dell’anno 1877, Arthur era solo uno studente che assisteva con rassegnata impotenza alla malattia mentale di suo padre.
Non poteva neppure lontanamente supporre che proprio in quell’istante, a Milano, l’altro protagonista della vicenda, il Marchese Carlo Ripamonti, era sul letto di morte. Aveva appena ricevuto l’estrema unzione dopo aver confessato i propri peccati, eppure si sentiva inquieto. Un’ombra opprimeva la sua anima, ma non sapeva dove essa traesse origine. Troppo tempo era trascorso, ed egli non si rendeva conto di aver dimenticato una colpa grave, sebbene parzialmente involontaria, risalente addirittura al marzo del 1849: l’aver coinvolto un giovane scozzese in un inganno a beneficio dell’amico Alessandro Manzoni, rovinando così per sempre la sua vita. La vita di Charles Altamont Doyle, futuro padre di Arthur Ignatius Conan Doyle.

8 commenti:

  1. Pocojuda... metterlo in pdf\epub no, eh!? ;)

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  2. In effetti, pure io richiedo a gran voce un formato scaricabile, che a leggerlo al pc mi si suicidano gli occhi! :)

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  3. Mi è veramente piaciuto,bravo.Ottimo l'uso di personaggi storici e graditissima la citazione a Ghostbusters (Peter Venkman...)

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  4. Appena letto ti lascio un bel feedback :)
    Però potevi farne una versione scaricabile, che era più comodo...

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  5. Il copianincolla unito ad un bel calibre mi hanno risolto il problema e ora il racconto è un epab sul mio ereader. Letto e approvato senz'altro!

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  6. @ molti : vista la brevità dello scritto, ho immaginato che si poteva ricorrere al copia-incolla come ha fatto Tim. E poi mi serviva un post per riempire il blog ;-P
    Comunque, prometto che lunedì fornirò anche una versione pdf scaricabile.
    @ Fra Moretta : sì, un VenCkman molto serio che alla fine è rimasto nelle ex Colonie, e non avrebbe mai immaginato che il suo discendente Peter (nel frattempo l'anagrafe si è mangiata una "c") diventasse un tale cialtrone... però con lo stesso talento ghostbuster del suo trisavolo!

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  7. uuuh! Ma adesso copio-e-incollo come non ci fosse domani e leggoooo!

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