(Avviso importante: questo NON è il blog di Simone Navarra, è sempre il blog di Ariano Geta. Anche se non sembra)
DEFINIZIONI TRATTE DA WIKIPEDIA
(I COMMENTI IDIOTI OVVIAMENTE NO)
L'episclerite è una malattia infiammatoria, in genere ricorrente, dell'episclera, il sottile strato di tessuto connettivale lasso sovrapposto alla sclera dell'occhio.
Si manifesta nei giovani adulti e colpisce più le donne che gli uomini (e io sono sempre stato vicino alle donne, purtroppo solo idealmente).
Sono presenti iperemia congiuntivale localizzata, irritazione, lieve fotofobia (in effetti ho sempre paura ad apparire nelle fotografie...) e lacrimazione. Una macchia rosso-brillante dolente è presente al di sotto della congiuntiva bulbare nel caso di episclerite semplice; può essere presente anche un nodulo rilevato ad edematoso nel qual caso si parla di episclerite nodulare (la accendiamo? Ovvio che sì, mica potevo beccarmi la versione semplificata!)
Per la terapia curativa talvolta sono utili vasocostrittori, steroidi topici o farmaci antinfiammatori non steroidei per via orale (ma anche un banalissimo collirio ad alto contenuto di desametasone, almeno secondo la mia oculista).
L'episclerite in genere guarisce da sola e raramente si associa a gravi malattie (sono un po' lento a digitare, ma sto usando una sola mano: l'altra sta toccando il portafortuna naturale di noi maschietti).
Concludendo, pare che posso continuare a leggere senza problemi. Però devo avere più cura dei miei occhi: è un ordine medico tassativo.
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venerdì 30 maggio 2014
lunedì 26 maggio 2014
Sclera
Il titolo e il tag non ingannino.
Qualcuno, dopo aver letto sclera e varie personali, potrebbe aver pensato: "Ariano Geta sta confessando che ogni tanto sclera. Ce ne eravamo già accorti senza la necessità che facesse outing, eh!"
Ma la sclera alla quale mi riferisco è quella del mio occhio destro, che da un po' di giorni mi sta creando qualche problema. Arrossamenti estesi ne avevo già avuti tanti, ma è la prima volta che, in mezzo alle vene, mi spunta un piccolo rigonfiamento bianco...
Qualcuno, dopo aver letto sclera e varie personali, potrebbe aver pensato: "Ariano Geta sta confessando che ogni tanto sclera. Ce ne eravamo già accorti senza la necessità che facesse outing, eh!"
Ma la sclera alla quale mi riferisco è quella del mio occhio destro, che da un po' di giorni mi sta creando qualche problema. Arrossamenti estesi ne avevo già avuti tanti, ma è la prima volta che, in mezzo alle vene, mi spunta un piccolo rigonfiamento bianco...
Sarà un caso, sarà suggestione, ma ci vedo meno bene con l'occhio destro in questi ultimi giorni.
Il mio medico mi ha consigliato una visita oculistica specializzata, che farò a breve, e anche di non affaticare l'occhio evitando di stare davanti a pc e tablet.
Non so se riuscirò a obbedire completamente... Comunque, se per qualche giorno fossi latitante, sarà solo per ottemperare alle prescrizioni mediche.
mercoledì 21 maggio 2014
Maschere
L'uomo
è poco se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera
e vi dirà la verità.
Così
diceva il grande Oscar Wilde, e aveva capito in pieno l'importanza
della maschera, assai più protettiva di una corazza d'acciaio.
Anch'io,
ammetto, mi sento più libero quando sono nascosto dietro lo
pseudonimo. Era stata una delle motivazioni di partenza
dell'anonimato.
Ma
col passare degli anni - eh sì, sono anni ormai che dura il blog -
anche il volto fasullo di Ariano Geta si è lentamente adattato al
mio, la maschera ha perduto le sue forme aderendo strettamente ai
miei lineamenti e vado infatti perdendo la rassicurante sensazione
d'essere occultato.
Il
risultato inevitabile è stata la nascita d'un nuovo camuffamento, la
maschera d'una maschera che esiste nel web, l'ennesima falsa identità
in cui si cela la mia prima persona restando però sfuggente, senza
palesarsi neppure tramite un blog. Una maschera di cui nessuno -
eccetto me - saprà mai il nome.
(Tranquilli,
non sono improvvisamente divenuto pazzo. In realtà lo sono sempre
stato, e oggi non riesco a dissimulare così bene come in passato).
sabato 17 maggio 2014
Trucchi per vendere libri divenuti famosi
Per piazzare un paio di copie in più, certi scrittori (e soprattutto certi editori) si inventerebbero di tutto.
La pubblicità è l'animo del commercio, si dice, e in fondo anche il mercato editoriale è - appunto - un mercato in cui ogni trovata può favorire le vendite.
Ma non è un fenomeno limitato ai libri da bancarella. Anche autori poi divenuti celebri hanno fatto ricorso a trucchi da piazzista.
Un esempio è Gabriele D'Annunzio, un vero artista dell'autopromozione. Il suo primo libro di poesie, "Primo vere", pubblicato quando lui aveva appena sedici anni, venne furbescamente ammantato di una triste vicenda: il giovane poeta - questa fu la voce che fece circolare D'Annunzio - era morto cadendo da cavallo, quindi il libro era praticamente postumo.
La notizia della tragica scomparsa alimentò le vendite, e sebbene si dica che le bugie hanno le gambe corte, nel caso del Vate quello fu solo il primo passo verso una grande successo e una fama duratura.
Un altro caso celebre è quello relativo a "Il diavolo in corpo" di Raymond Radiguet. L'editore Bernard Grasset lo pubblicò nel 1923 enfatizzando la giovanissima età dell'autore. 'Le premier livre d'un romancier de 17 ans' recitavano le già allora famigerate 'fascette' pubblicitarie. Inoltre la trama del romanzo sembrava fatta apposta per creare scandalo secondo il noto adagio "si sparli purché se ne parli", pertanto molti intellettuali lo accolsero con estrema diffidenza.
Ma "Il diavolo in corpo" non è diventato uno dei tanti titoli effimeri poi scomparsi nel lungo elenco dei best-sellers dimenticati. La critica francese è concorde nel giudicarlo un'opera di elevato valore letterario, prescindendo dalle furbate editoriali della sua prima pubblicazione, e ancora oggi viene letto e studiato.
Parlando di libri più recenti, "Radici", romanzo di culto per un'intera generazione di lettori afroamericani che racconta la vita dei neri d'America dai tempi della schiavitù sino agli anni '60 del XX secolo, venne presentato dall'autore Alex Haley come una fiction rievocativa basata su fatti autentici riguardanti la storia della sua famiglia, che egli aveva ricostruito tramite un'accurata ricerca di documenti.
La sua "accurata" ricostruzione si dimostrò però assai improbabile e piena di forzature in seguito alle contro-verifiche di alcuni studiosi. Haley continuò per tutta la vita a sostenere che gli eventi narrati fossero veritieri, ma ormai moltissimi si permettono di dubitarne. Però, nonostante questa possibile frode dell'autore, nessuno ha mai messo in discussione la qualità letteraria del libro che continua a essere considerato un testo importante nella storia letteraria americana recente.
Insomma, talvolta anche opere di valore sono state reclamizzate con malizia.
Chissà se qualche libro dei nostri giorni, portato al successo con mirate operazioni di marketing, riuscirà a sopravvivere alla prova del tempo...
La pubblicità è l'animo del commercio, si dice, e in fondo anche il mercato editoriale è - appunto - un mercato in cui ogni trovata può favorire le vendite.
Ma non è un fenomeno limitato ai libri da bancarella. Anche autori poi divenuti celebri hanno fatto ricorso a trucchi da piazzista.
Un esempio è Gabriele D'Annunzio, un vero artista dell'autopromozione. Il suo primo libro di poesie, "Primo vere", pubblicato quando lui aveva appena sedici anni, venne furbescamente ammantato di una triste vicenda: il giovane poeta - questa fu la voce che fece circolare D'Annunzio - era morto cadendo da cavallo, quindi il libro era praticamente postumo.
La notizia della tragica scomparsa alimentò le vendite, e sebbene si dica che le bugie hanno le gambe corte, nel caso del Vate quello fu solo il primo passo verso una grande successo e una fama duratura.
Un altro caso celebre è quello relativo a "Il diavolo in corpo" di Raymond Radiguet. L'editore Bernard Grasset lo pubblicò nel 1923 enfatizzando la giovanissima età dell'autore. 'Le premier livre d'un romancier de 17 ans' recitavano le già allora famigerate 'fascette' pubblicitarie. Inoltre la trama del romanzo sembrava fatta apposta per creare scandalo secondo il noto adagio "si sparli purché se ne parli", pertanto molti intellettuali lo accolsero con estrema diffidenza.
Ma "Il diavolo in corpo" non è diventato uno dei tanti titoli effimeri poi scomparsi nel lungo elenco dei best-sellers dimenticati. La critica francese è concorde nel giudicarlo un'opera di elevato valore letterario, prescindendo dalle furbate editoriali della sua prima pubblicazione, e ancora oggi viene letto e studiato.
Parlando di libri più recenti, "Radici", romanzo di culto per un'intera generazione di lettori afroamericani che racconta la vita dei neri d'America dai tempi della schiavitù sino agli anni '60 del XX secolo, venne presentato dall'autore Alex Haley come una fiction rievocativa basata su fatti autentici riguardanti la storia della sua famiglia, che egli aveva ricostruito tramite un'accurata ricerca di documenti.
La sua "accurata" ricostruzione si dimostrò però assai improbabile e piena di forzature in seguito alle contro-verifiche di alcuni studiosi. Haley continuò per tutta la vita a sostenere che gli eventi narrati fossero veritieri, ma ormai moltissimi si permettono di dubitarne. Però, nonostante questa possibile frode dell'autore, nessuno ha mai messo in discussione la qualità letteraria del libro che continua a essere considerato un testo importante nella storia letteraria americana recente.
Insomma, talvolta anche opere di valore sono state reclamizzate con malizia.
Chissà se qualche libro dei nostri giorni, portato al successo con mirate operazioni di marketing, riuscirà a sopravvivere alla prova del tempo...
lunedì 12 maggio 2014
mercoledì 7 maggio 2014
Serissimi consigli per la... lettura
Qualche anno fa vidi una commedia
inglese abbastanza simpatica, pur senza essere memorabile.
Il protagonista è uno sceneggiatore
televisivo di mezza età, un tranquillo uomo sposato che sta creando
lo script per un film, al quale viene affiancato un giovane regista
trasgressivo.
Discutendo a proposito di una certa
scena, il regista propone che la protagonista assuma delle sostanze
stupefacenti e abbia un trip visionario, ma lo sceneggiatore si
oppone sostenendo che il personaggio in questione non fa ricorso a
droghe.
Il regista lo fissa perplesso e gli
chiede di confermargli se, come lui aveva capito, si tratta di una
donna che ha superato i trent’anni.
Lo sceneggiatore conferma.
Allora il regista si fa ancora più
perplesso, poi di colpo radioso, e pieno di entusiasmo elogia la
fantasia incredibile dello sceneggiatore. Si complimenta sinceramente
con lui perché è riuscito a immaginare una trentenne che non si è
mai drogata in vita sua, una cosa inverosimile…
Questa scena sopra le righe racconta
bene il rischio in cui incorriamo spesso come lettori (o
scribacchini): contestualizziamo i personaggi e i loro comportamenti
in base alle nostre esperienze personali e – soprattutto –
all’epoca e al luogo in cui viviamo, dimenticandoci che non siamo i
depositari dell’esperienza umana nella sua totalità. Socialmente,
geograficamente e cronologicamente parlando noi ne sperimentiamo
soltanto una piccola porzione, saremmo dei presuntuosi se credessimo
che la nostra limitata conoscenza possa essere estesa universalmente.
Invece spesso capita. Magari si legge
un romanzo vecchio di duecento anni e di fronte alle smanie coniugali
della protagonista viene da pensare: “Ma questa è ossessionata
solo dall’idea di sposarsi? Che razza di femmina superficiale e
insignificante!”, dimenticando che due secoli fa per una donna
molte strade erano chiuse, e restare “zitella” significava
trascorrere la propria vita a invecchiare precocemente facendo da
badante ai genitori e a vivere in condizioni economiche assai
precarie, visto che le ricchezze di famiglie sarebbero state
utilizzate come dote per le sorelle sposate, e la sorella nubile non
avrebbe potuto neppure lavorare per mantenersi poiché all’epoca le
donne erano escluse dall’istruzione e conseguentemente da molte
carriere professionali.
Oppure, tornando all’ambito
cinematografico, mi viene in mente una scena di una commedia
americana degli anni ’30 con James Stewart e Ginger Rogers in cui
una grassa cameriera nera si dichiara pronta a lasciare suo marito se
per caso questi le proibisse di fumare. Vista con gli occhi di oggi
può sembrare una sequenza di cattivo gusto: il classico stereotipo
razziale che dipinge la donna nera come una popolana ignorante dedita
a vizi sottoproletari che possono nuocere alla salute. Ma nel corso
del film anche Ginger Rogers fuma piuttosto disinvoltamente (i
pericoli della nicotina erano sottovalutati a quell’epoca) e scopre
che persino sua suocera ama il tabacco e fuma di nascosto per evitare
rampogne dal marito. Pertanto è verosimile che gli spettatori degli
anni ’30 percepissero la scena con la cameriera di colore in modo
tutt’altro che negativo: probabilmente lei incarnava la semplicità
e la schiettezza delle donne del popolo in contrasto con l’ipocrisia
delle dame dell’alta società.
Insomma, occorre saper contestualizzare
in maniera corretta, altrimenti si rischia di fraintendere
completamente la condotta e il simbolismo dei personaggi.
Alzi la mano chi è caduto almeno una
volta in questo errore…
sabato 3 maggio 2014
Un dono non dovuto
“… Aveva notato però che i
denti di Tadzio non erano perfetti: un po’ irregolari, pallidi,
senza la lucentezza della salute, e anzi singolarmente fragili e
trasparenti come si nota talvolta negli organismi anemici. ‘È
molto delicato, è malaticcio’, pensò Aschenbach. ‘È
improbabile che diventi vecchio’...”
Questa breve considerazione del
protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann mi è
tornata in mente durante la prima quindicina di aprile che ho trascorso in preda a
serie difficoltà respiratorie causa una virulenta infezione a gola e
naso.
Da bambino mi capitavano spesso queste situazioni: quasi ogni anno trascorrevo due settimane a letto con la febbre alta, e solo gli antibiotici mi risollevavano. Grazie al progresso medico e al benessere diffuso ero semplicemente uno dei tanti bimbi influenzati, uno che sopportava il virus con maggiore difficoltà rispetto agli altri e necessitava di farmaci più potenti, però alla fine guarivo regolarmente. Anche i fastidi di aprile li ho vissuti con la stessa consapevolezza, sapendo che si trattava solo di pazientare pochi giorni e i farmaci mi avrebbero risanato.
Da bambino mi capitavano spesso queste situazioni: quasi ogni anno trascorrevo due settimane a letto con la febbre alta, e solo gli antibiotici mi risollevavano. Grazie al progresso medico e al benessere diffuso ero semplicemente uno dei tanti bimbi influenzati, uno che sopportava il virus con maggiore difficoltà rispetto agli altri e necessitava di farmaci più potenti, però alla fine guarivo regolarmente. Anche i fastidi di aprile li ho vissuti con la stessa consapevolezza, sapendo che si trattava solo di pazientare pochi giorni e i farmaci mi avrebbero risanato.
Se fossi stato bambino agli inizi del
novecento forse anch’io, come il Tadzio di cui si innamora
Aschenbach, sarei stato osservato con malinconia da qualche anziano
viaggiatore straniero che avrebbe tristemente pronosticato la mia
prematura scomparsa causata da malattie polmonari. In un certo senso
la vita che sto vivendo potrebbe essere classificata come un dono per
il quale devo ringraziare il progresso.
Il discorso può diventare più sottile
e scendere in ambiti assai più personali, slegati dal contesto
storico.
Gabriel Conroy, protagonista del
racconto I morti di James Joyce, scopre in modo casuale che
sua moglie aveva avuto un fidanzatino quando era ancora molto
giovane. Probabilmente lei lo avrebbe sposato se lui non fosse morto
all’improvviso, e di conseguenza non sarebbe mai diventata la
moglie di Gabriel. In un attimo la sua vita coniugale gli appare
come un ‘furto’ ai danni di un povero ragazzo deceduto
prematuramente.
James Joyce aveva potuto rendersi conto
della tangibilità di questi doni non dovuti del destino perché lui
stesso ne aveva beneficiato: la sua compagna, Nora, era rimasta
vittima della medesima disgrazia toccata alla signora Conroy nel
racconto. Lo scrittore irlandese fu talmente colpito da questo
scherzo del fato al punto da voler vedere la tomba dello sfortunato
fidanzatino di Nora nel cimitero di Rahoon, al quale dedicò anche
una poesia, Lei piange pensando a Rahoon.
Insomma, la vita e i suoi intrecci sono
un’infinita fonte di riflessione.