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mercoledì 30 marzo 2011

Plagio o sfida

La professoressa che mi ha fatto da relatrice per la tesi di laurea una volta tenne una lezione molto interessante su un linguista americano di cui non rammento il nome (sorry Mrs. Isenberg, lei era un'ottima docente ma io evidentemente sono rimasto un pessimo studente con scarsa memoria).
Secondo questo studioso, quando l'uomo scrive è "prigioniero della memoria". Nella nostra mente c'è, volenti o nolenti, tutto quello che abbiamo letto, tutte le nozioni e le vicende narrative che abbiamo acquisito, e quando ci si mette al lavoro con carta e penna ci sono due possibili sbocchi: o si "ripete" la scrittura e le tematiche di qualche autore che ci ha particolarmente affascinato (plagio, ovviamente inconscio) o si ritiene di poter fare di meglio, e allora si cerca una scrittura alternativa (sfida) che però è alternativa proprio perchè rapportata a un modello esistente. Quindi, sia l'imitatore che lo sfidante producono le proprie opere in rapporto al modello che è rimasto impresso nella loro memoria. Ecco perchè ne sono entrambi "prigionieri".
Detto così sembra molto teorico e poco realistico, più una speculazione accademica che un reale studio psicologico. Però è anche vero che nella storia della letteratura è possibile trovare parecchi autori e poeti che hanno creato le loro opere con l'obiettivo di dimostrare quanto fosse scadente il romanzo o il poema del rivale.
Personalmente non credo di essere mai entrato nella mentalità "sfidante", cerco più di attenermi allo stile di quegli autori che reputo degni di lode. Forse è per questo che non sono mai riuscito a creare niente di originale.
E voi altri scribacchini come vi atteggiate rispetto ai modelli letterari? Plagio o sfida?

lunedì 28 marzo 2011

La favola del post del lunedì

C’era una volta un blogger a corto di idee, che dopo aver trascorso tanto tempo a pubblicare post alla media di uno ogni due o tre giorni, all’improvviso non sapeva più di cosa parlare.
La sua mamma gli disse: “Porta dei biscotti alla nonna e magari ti tornerà l’ispirazione, ma mentre passi per il bosco non fermarti a parlare col lupo cattivo”.
Il blogger si incamminò verso la casa di sua nonna, e lungo il sentiero incontrò proprio il lupo. La mamma gli aveva proibito di rivolgergli la parola, ma il blogger era alla disperata ricerca di idee per un buon post, e gli venne in mente che avrebbe potuto scriverne uno proprio su quella bestia, qualcosa tipo: “Lui mi inseguiva, feroce e rabbioso, ma io sono riuscito a sfuggire alle sue avide grinfie”.
Però la bestia non era affatto feroce, anzi, si presentò educatamente e invitò il blogger al bar a prendere un caffè insieme. Dopo qualche minuto era sorta una bella confidenza, e il blogger raccontò al lupo che era assai crucciato per l’incapacità di trovare uno spunto interessante per il post del lunedì.
“Io posso darti qualche suggerimento”, spiegò l’animale mentre continuava a sorseggiare caffè. “Per creare interesse non c’è niente di meglio del sesso: ti inventi una storia erotica da paura che ti sarebbe capitata nel fine settimana, e vedrai che raddoppi i contatti. Oppure”, continuò il lupo con sguardo ammiccante “simuliamo una bella polemica a distanza sui nostri blog: tu mi accusi di aver plagiato un tuo racconto, e io ti rispondo per le rime; andiamo avanti per qualche giorno, finché io annuncio che modificherò la storia che ho scritto pur di non sentire più le tue lamentele. Effetto pubblicità garantito”.
Il blogger cominciò a capire perché la mamma si era raccomandata di non dare confidenza al lupo. Fedele alla sua nomina di bravo ragazzo, rispose che lui aveva dei principi morali in cui credeva profondamente, e non avrebbe mai potuto ricorrere a quei suggerimenti perché eticamente disonesti.
Il lupo commentò: “Sei proprio un coglione e rimarrai per sempre un perdente”.
Il blogger uscì dal bar e portò i biscotti a sua nonna compiendo il proprio dovere. Quella sera però dovette ammettere che il lupo aveva ragione, perché in effetti il lunedì seguente non sapeva proprio cosa scrivere. Alla fine non trovò niente di meglio da fare che dire la verità, e per il giorno 28 marzo 2011 pianificò il seguente messaggio:
Mi spiace ma non ho nessuna idea.

sabato 26 marzo 2011

Pier Augusto Breccia

Pier Augusto Breccia è un pittore italiano contemporaneo dal percorso sui generis.
Laureato in medicina e cardiochirurgo, ha iniziato a disegnare e dipingere come hobby intorno ai trent’anni. Il crescente coinvolgimento personale e l’ottenimento di alcuni riconoscimenti lo hanno spinto a dare sempre maggiore importanza a questa attività.
La formazione autodidatta e lo spirito “dilettante” della sua arte si denotano in certe ingenuità che traspaiono sia nella tecnica pittorica che nelle immagini tematiche da lui prescelte, quasi sempre improntate al rapporto fra l’uomo e il mondo spirituale.
Al tempo stesso però, questo stile naïf mantiene una freschezza e una spontaneità che a volte latita nei pittori troppo legati alla formazione accademica o ai dettami di certi movimenti artistici che impongono delle linee guida ai propri seguaci.
Personalmente trovo la sua produzione molto interessante.



giovedì 24 marzo 2011

Scritti come gravidanza

Michel de Montaigne, nel capitolo VIII del libro II dei suoi Saggi, parla diffusamente dell’affetto dei padri per i loro figli, sviluppando numerose e disordinate riflessioni come è nello stile di questa opera considerata tra le più importanti della letteratura francese del XVI secolo.
Nelle ultime pagine del capitolo crea una similitudine abbastanza ardita: paragona l’amore di un essere umano per i suoi figli al sentimento che lo stesso essere umano proverebbe per i propri scritti, intesi come discendenza spirituale di un uomo. Cita esempi storici, ad esempio il caso del romano Labieno i cui manoscritti “sovversivi” vennero bruciati in un pubblico rogo per ordine del senato; in seguito a ciò Labieno si sarebbe suicidato perché l’aver perso le proprie opere equivaleva ad aver perso la propria famiglia e non avere più uno scopo per rimanere vivo.
Premetto che sono sempre scettico su queste interpretazioni così drastiche, comunque è indubbio che chi scrive da molta importanza alle proprie carte (o files digitali), e perderle costituisce sempre un piccolo dramma personale. Ma addirittura paragonarle ai figli mi pare eccessivo.
Comunque, dovendo dare un “valore” ben definito al frutto della propria creatività (non solo scrittura quindi, ma anche disegni, fotografie, musiche e quanto altro), come si potrebbero quantificare?
Ovviamente si tratta di un dato variabile da persona a persona, e anche da scritto a scritto: non tutti i prodotti della mente vengono percepiti allo stesso modo dall’autore, e alcuni suscitano un affetto maggiore rispetto ad altri.
Personalmente paragonerei la perdita definitiva dei miei scritti alla distruzione della casa in cui vivo: sarebbe la scomparsa di qualcosa che faceva parte di me per abitudine, ricordi, routine quotidiana, che non potrei mai ricreare uguale a come era. La vivrei come una mazzata, mi verrebbero le lacrime agli occhi così come accade alle persone che assistono impotenti all’incendio della loro adorata casetta e, pur consolandosi all’idea che la vita continua, si sentono come se ne avessero perduta una parte.
Che dite, sono esagerato o… non abbastanza? ;-)

martedì 22 marzo 2011

Creatività e outing

La blogger Ivana mi ha assegnato il Kreativ Blogger Award, che segue modalità simile al meme o al Sunshine Award. Bisogna quindi riassegnarlo a propria volta a altri bloggers, che poi dovranno fare altrettanto.
Io lo propongo idealmente a tutti i blog che frequento e sui quali posto in modo regolare. Li bazzico proprio perché li ritengo creativi e interessanti ;-)
Al tempo stesso però il premiante deve rivelare 10 cose di se stesso. Io sono abbastanza ostinato nel mantenere la privacy, però in fondo posso fare un po’ di outing. Tutti i bloggers che infastidisco coi miei ridicoli commenti possono seguire l’esempio, se ne hanno voglia, e magari raccontare qualcosa di se stessi. Ovviamente non si pretendono “rivelazioni” clamorose. Le mie non lo saranno, anche perché di clamoroso nella mia vita non c’è assolutamente nulla.
Allora…
 1 - sono tifoso della Juventus (e già con questo ho perso un 80% di simpatie, sbaglio?)
 2 - vado matto per i dolci e ne mangio tanti troppi.
 3 - mi piace disegnare, anche se a giudicare dai risultati è probabile che ai fogli di carta non piaccia essere disegnati da me.
 4 - quando mi sento giù, mi piace ascoltare musica rock. Le chitarre elettriche risollevano il mio umore.
 5 - soffro di vertigini e ho una paura fottuta dell’altezza.
 6 - se mi si chiede di mantenere un segreto, lo mantengo. Sempre e a ogni costo.
 7 - soffro spesso di insonnia.
 8 - avevo una passione smodata per il tè verde e nel corso degli anni ho accumulato una collezione di pregiate confezioni di tè (purtroppo ferma da alcuni mesi).
  9 - il momento della giornata che preferisco è l'alba, col suo prezioso silenzio e il sole che sorge rassicurante.
10 - riesco sempre a cacciarmi in situazioni difficili con le mie mani, senza alcuna spinta esterna :-(

lunedì 21 marzo 2011

Un colpo al cerchio e uno alla botte

Ho riorganizzato le mie tre paginette web dove si può fare il download gratuito dei miei scritti.
Tutti gli ebook disponibili sono storie finite: non c'é nessuna narrazione interrotta a metà, nessuna faccina con gli occhi a forma di (€) che ti dice "Se vuoi sapere il seguito devi pagare".
Nelle versioni su lulu e amazon però c'è qualcosa in più: magari una prefazione, o racconti aggiuntivi non inclusi nella versione free. Alcuni di questi racconti sono stati leggibili gratuitamente per alcuni mesi, ma ho ritenuto giusto favorire gli eventuali lettori risposti a spendere qualcosina.


Comunque, se da un lato inserisco contenuti maggiori nelle versioni a pagamento, dall'altro cerco sempre di aggiungere qualche novità anche fra le cose gratuite.
Così, nella pagina degli scritti atipici ho implementato la traduzione di Hiroshi Miura: oltre a Romanzo sensazionale, adesso potete trovare anche il racconto sinora inedito Le dimissioni di Izanagi, entrambi disponibili nell'ebook "Racconti sensazionali". Naturalmente gratis ;-)

venerdì 18 marzo 2011

150 (4)

 Per chiudere questa serie di post centocinquantenari, esprimo la mia opinione su certi argomenti strettamente correlati alle polemiche sui festeggiamenti. È la mia idea in merito, quindi può essere condivisa, non condivisa, contestata, discussa… È questo il bello della democrazia: il confronto delle diverse idee, nel reciproco rispetto degli interlocutori (questo non sempre avviene, purtroppo).
FEDERALISMO: perché no? Potrebbe essere un nuovo modo di far rapportare i cittadini al potere politico che li rappresenta. L’importante è che non si trasformi in una contrapposizione fra diverse entità regionali e che rimanga il concetto di "solidarietà nazionale".
SECESSIONE: onestamente non credo sia un bene, come ho già spiegato in un precedente post dandone le motivazioni (frazionamento = debolezza). Riconosco l’autodeterminazione dei popoli, quindi se in una regione si verificasse, in modo chiaro e privo di ambiguità, una richiesta di scissione da parte di una maggioranza qualificata (tipo il 60% della popolazione) la riterrei dotata dei crismi della legittimità. Ma la considererei un male, e mi addolorerebbe.
REVISIONISMO STORICO: la Storia ovviamente non è matematica, ed è perfettamente accettabile cercare di ristudiarla e interpretarla in modo diverso. Però queste revisioni devono basarsi sempre e comunque su documenti storici, dati concreti (non inventati), testimonianze certe (non improvvisazioni), e soprattutto devono essere prive di secondi fini. Altrimenti non è più “revisionismo”, ma “manipolazione”. E non ha più niente di “storico”, diventando puramente “propagandistica”.
PATRIOTTISMO: il nazionalismo esasperato del tipo “la mia patria è la migliore del mondo e tutte le altre nazioni fanno schifo” francamente lo detesto. È colpa di questi atteggiamenti se sono nati movimenti di estrema destra molto pericolosi che hanno segnato negativamente la storia europea.
Però “patriottismo” significa anche voler bene al proprio paese senza odiare gli stranieri; impegnarsi per il proprio paese pensando al bene comune e non al tornaconto personale; essere solidali in situazioni difficili; rimanere uniti nei momenti di crisi. Ecco, in Italia manca questo tipo di patriottismo, che è parente stretto dell’educazione civica. Credo che - piuttosto che eventuali scissioni - sarebbe meglio cercare di modificare questo atteggiamento. Passare da un menefreghismo nazionale a un menefreghismo regionale non sarebbe un gran progresso.
ITALIANITA’: l’appartenenza a una nazione non si sceglie, esattamente come una famiglia. Posso non essere soddisfatto dei miei genitori e rinnegarli, ma sarei idiota se pensassi che questo cancellerebbe anche la loro parte di DNA dentro di me. Allo stesso modo, chi odia questo paese non può comunque pensare di tagliare i ponti con la propria “italianità”. Perché nel resto d'Europa, già in epoca pre-unitaria, si parlava di “Italia” e “italiani”. Magari intesi solo come “un’espressione geografica” (copyright conte von Metternich), ma comunque appartenenti a un contesto ben definito. E insultarsi reciprocamente serve solo a trasformarsi in burletta di fronte al prossimo. Quando marito e moglie (o genitori e figli) iniziano a litigare in mezzo a una strada scaricandosi addosso i peggiori insulti, la gente che passa si mette a ridere e trova ridicoli entrambi.
FUTURO: credo che gli eventi storici abbiano una loro bizzarra ineluttabilità. Se qualcosa deve accadere, alla fine accade. Nel contesto delle considerazioni già fatte, se il futuro dell’Italia dovesse essere rappresentato dalla sua fine come entità unitaria, quanto meno mi auguro che il processo di disgregazione sia di tipo cecoslovacco e non yugoslavo. Soprattutto però, mi auguro che non sia un deja vu del periodo storico dal XVI al XVIII secolo…

giovedì 17 marzo 2011

150 (3)

L’Italia dei comuni era prospera. L’Italia delle signorie era la terra del Rinascimento. Insomma, pare quasi che il frazionamento politico fosse un bene, almeno secondo alcuni.
Io personalmente non riesco a condividere del tutto questa tesi. Il Rinascimento ci fu fino a quando i vari stati italiani, grazie all’espansione demografica della penisola e al frazionamento presente anche in altre parti d’Europa, erano in grado di tenere testa ai paesi confinanti. Nel momento in cui Austria, Francia e Spagna divennero grandi nazioni, l’Italia divenne terra di conquista (se qualcuno si azzarda a negare questo, non merita neppure risposta).
Conosco fin troppo bene la storia di Venezia per quanto sono innamorato di quella città. E la cosa più triste della sua vicenda è stata la fine: occupata dalle truppe di Napoleone quasi senza sparare un colpo, depredata delle sue opere d’arte dai francesi, compresi i quattro cavalli in cima alla Basilica di San Marco (non lo sapevate? Vennero caricati di peso e portati in Francia, come documenta la stampa in alto. Ritornarono al loro posto solo dopo la caduta del Bonaparte). Poi ceduta come merce di scambio agli austriaci con trattato di Campoformio. Poi ripresa da Napoleone. E al momento del congresso di Vienna, cosa si fa? Gli si restituisce l’indipendenza come sarebbe giusto? Niente affatto. Venezia è ormai considerata “austriaca” in base a quella prima cessione di cui si parlava sopra, peraltro fatta proprio dal governo rivoluzionario francese di cui si negava la validità! Del tipo: tutti i cambiamenti politici, i nuovi stati creati da Napoleone, e gli stravolgimenti vari sono abominevoli e devono essere cancellati. Ma restituire l’indipendenza a Venezia non se ne parla, anche se a far cadere l’ultimo doge è stato proprio Bonaparte. In quel caso va bene così, e il Veneto passa all’Austria.
Cosa denota questo? Lo scarsissimo, anzi nullo, peso politico di Venezia nel XIX secolo. Da grande potenza del XIV secolo ridotta a merce di scambio senza alcun diritto e considerazione. E qui suonano interessanti le considerazioni dello storico Frederic Lane, americano e quindi non coinvolto dalle questioni nostrane. Già a partire dal 1500 “stretta fra due giganti che le erano cresciuti accanto, l’impero ottomano da un lato e l’impero spagnolo dall’altro, Venezia cominciò a tenere in servizio, anno dopo anno, flotte più poderose di quelle mai avute in passato. Ma non si sentiva in condizione di muovere guerra, da sola, contro nessuno dei due imperi” (Storia di Venezia, Einaudi 1991, pag. 290). Lane smentisce anche il luogo comune della decadenza economica veneziana dopo la scoperta dell’America e la caduta di Costantinopoli. Il valore complessivo dell’economia della Serenissima nel 1797 (anno della caduta) era pari a quello di tre secoli prima, il periodo dello splendore. Però “l’Europa non era rimasta ferma. Nel 1797 Venezia non aveva una quota del commercio e della ricchezza europei uguale a quella del 1423” (ibidem, pag. 492). Tradotto in parole povere: Venezia non poteva crescere più di così, visto che territorialmente e demograficamente era rimasta identica al XV secolo, anzi, aveva perso territori in oriente a causa dello scontro (impari) contro i turchi. Mentre Francia, Spagna e Inghilterra erano diventate nazioni (non più frazionate fra le varie Borgogna, Aragona, Scozia, etc.) ed erano cresciute.
Ecco le origini della scarsissima considerazione ricevuta da Venezia durante il congresso di Vienna: troppo piccola come entità territoriale, vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro.
E si potrebbero fare fin troppi esempi: Firenze occupata dai francesi “di passaggio” per andare a far guerra al Regno di Napoli e costretta a pagargli il soggiorno, cedere le case più belle agli ufficiali e dargli anche una “buonuscita” di centocinquantamila fiorini; Genova bombardata da Luigi XIV per questioni tutto sommato irrilevanti, col doge genovese costretto a recarsi a Versailles per chiedere scusa al re francese, che non si sarebbe mai sognato di imporre un’umiliazione del genere al re d’Inghilterra o all’imperatore austriaco. Al doge di Genova, sì.
“I tempi sono mutati. Ora l’Europa è pacificata”. Sì, vero. Ma le cose spesso cambiano. Quando fu firmata la pace di Lodi fra i vari stati italiani nel 1454, con la contemporanea creazione della Lega Italica, sembrava che la pace fosse garantita per sempre. E in effetti per circa quaranta anni funzionò bene. Ma nel 1494 le truppe francesi di Carlo VIII calarono nella penisola, e la Lega Italica non fu in grado di fermarlo. Dopo Carlo VIII vennero Francesco I, Carlo V, e tanti altri sovrani stranieri. Cosa era l’Italia per loro? Una nazione? No, un insieme di stati piccoli e deboli su cui potevano accampare pretese visto che non avevano le dimensioni (militari e politiche) per potersi opporre. Lo hanno capito anche molti pensatori dei vari stati pre-unitari, ed è così che si cominciò a valutare l’opportunità di una riunificazione di tutte le entità della penisola italica.
L’Italia di oggi appare debole? Sicuramente. Ma se si frazionasse nuovamente in più stati, questi sarebbero singolarmente più forti nel contesto internazionale?
Ognuno può dare la risposta che crede.

mercoledì 16 marzo 2011

150 (2)

 L’unificazione italiana non è stata condivisa all’unanimità. D’altronde è sempre difficile trovare un accordo su questioni epocali, specie quando le parti in causa sono milioni di persone.
La reazione filo-borbonica che si verificò nel meridione dopo la caduta di Francesco II e l’azione repressiva delle truppe piemontesi sono dati di fatto inoppugnabili. Ma è altrettanto vero che molti sostenevano il principio dell’unità e contestavano la dinastia di origine spagnola. Nel corso del regno di Ferdinando II (padre di Francesco II) si erano verificate rivolte contro il potere monarchico, in particolar modo in Sicilia, dove Messina venne addirittura bombardata dalla marina borbonica, in perfetto Gheddafi style.
Quindi, presentare i lealisti monarchici del sud come “briganti” è un’evidente distorsione della propaganda risorgimentale, e non può essere più portata avanti. Però, anche far passare Ferdinando II di Borbone come un sovrano illuminato e il Regno di Napoli come una nazione prospera e pacificata è ugualmente una distorsione.
Allo stesso modo, l’immagine di una Lombardia felice sotto il dominio austriaco è abbastanza forzata, peraltro contraddetta dai moti rivoluzionari del 1848 a Milano (che motivo c’era di rivoltarsi contro un governo tanto capace, liberale ed efficiente?)
Ovviamente anche lì ci sarà stato chi preferiva essere suddito degli Asburgo. Ma è nella norma.
Durante i grandi eventi storici che segnano la vita di una comunità, c’è SEMPRE una pluralità di schieramenti. Immaginare un popolo dove il 100% delle persone la pensano allo stesso modo è irrealistico, oltre che inquietante (sarebbero esseri umani o pecore?)
Anche i fatti propagandati con l’etichetta “tutto il popolo contro una minuscola minoranza” sono esagerazioni.
La rivoluzione americana. L’orgoglio nazionale degli Stati Uniti la presenta spesso come la nascita assoluta della democrazia, il successo dell’autodeterminazione di gente comune contro il dispotico potere centrale di una monarchia (peraltro non assoluta). Eppure, non tutti erano d’accordo. Ogni testo storico da me consultato riporta un concetto interessante: alla fine della rivoluzione la popolazione delle tredici colonie si era dimezzata, per colpa della guerra, certo, ma ANCHE per la fuga verso il Canada dei lealisti che preferirono restare sudditi del re d’Inghilterra... Senza contare, settant'anni dopo, la guerra civile fra nordisti e sudisti, testimonianza di divisioni interne profonde.
Persino la rivoluzione francese, per chi non lo sapesse, non è stata condivisa da tutti. E non mi riferisco solo agli aristocratici spodestati dei loro diritti, ma anche a contadini e gente comune che si oppose ai “giacobini” con rivolte popolari invocando il ritorno del re (le più celebri sono quelle in Vandea e in Bretagna, di cui parla Balzac nel romanzo “Les chouans”).
Per non parlare delle sanguinose transizioni dal potere monarchico (zar e imperatore) a quello popolare in Russia e Cina, dove i vari schieramenti dovettero ricorrere allo scontro armato. Bolscevichi contro "armate bianche", nazionalisti contro comunisti. Milioni di morti per giungere alla pacificazione (o meglio: alla presa del potere da parte dei vincitori).
Insomma, citando il film “Apocalypse now”: applicare le concezioni del codice civile e penale in un contesto di guerra (e purtroppo le rivoluzioni e le unificazioni in genere non si fanno con amichevoli strette di mano) equivale a voler fare multe per eccesso di velocità durante il grand prix di Indianapolis.
Questo non significa che bisogna ignorare le atrocità. Vanno rammentate, e occorre ricucire le ferite. Onorare tutti i caduti, senza distinzioni. E cercare di analizzare più a fondo le varie questioni per capire come mai sia nato il movimento unitario.
Sarà l’argomento di un prossimo post.

martedì 15 marzo 2011

150

 Visto che certe occasioni capitano una volta ogni mezzo secolo (e visto che difficilmente sarò presente alla prossima) penso che sia il caso di spendere qualche post sull'anniversario dell'unità italiana, a partire da questa settimana in cui viene celebrato il giorno ufficiale dell'evento storico, il 17 marzo 1861.
Le polemiche sono tante, e per un paese come il nostro non è una stranezza: l'italiano medio (me compreso) campa di pane e polemiche.
Premetto che reputo sempre legittimo esprimere la propria opinione, quindi fanno bene i leghisti e i borbonici che - in nome della libertà di espressione - dichiarano di non essere soddisfatti dell'unità e la criticano. Come diceva Voltaire, non condivido la tua opinione ma mi batterò per permetterti di poterla sostenere. Guai se non si potesse esprimere il proprio pensiero.
Personalmente sono un pro-unitario. So bene che in questo paese tante cose non funzionano, e anche noi cittadini spesso non siamo migliori dell'apparato pubblico. Sono anche d'accordo sul fatto che l'unità poteva essere costruita meglio. Però...
Però è il solito vecchio discorso: è facile scovare i difetti e criticare a distanza di cent'anni e passa, è semplice dire "Cavour ha sbagliato", "Garibaldi ha sbagliato", "Bisognava dar retta a Mazzini", "Dovevano seguire Gioberti"... Noi siamo qui, comodamente seduti davanti al pc, coi libri di storia a disposizione per sapere tutti i dettagli del periodo post-unitario sino ai giorni nostri.
In quegli anni invece dovevano semplicemente agire. Si trattava di sovvertire uno status quo che durava da secoli, e che (è il caso di ricordarlo) era iniziato già nel 1820, quindi quaranta anni prima, coi moti di Napoli.
Quarant'anni di sommosse, guerriglia clandestina, riunioni segrete, arresti, esili e fucilazioni, col culmine del 1848 e delle centinaia di patrioti morti combattendo a Milano, Brescia, Roma, Venezia e altre città.
"Non bisognava mettersi nelle mani dei Savoia". Per me è facile dirlo. Molto meno lo era per un Garibaldi che, dopo vent'anni spesi a combattere, era costretto a fuggire da Roma come un ricercato per vedere il papa re che rientrava trionfalmente a Roma, gli austriaci che rientravano a Venezia e Milano, e l'Italia ancora divisa con la prospettiva che questa situazione potesse durare per altri cent'anni. Perchè no?
Insomma, in quegli anni non era così facile e scontato pensare che l'Italia sarebbe stata unificata, e non era solo questione di mettersi attorno a un tavolino e decidere i dettagli. In alcuni degli stati pre-unitari non si poteva neppure parlare dell'ipotesi di unità, si rischiava l'arresto per questi argomenti "sovversivi". Noi siamo abituati a parlare liberamente di ogni cosa e neppure possiamo concepire queste situazioni. Ancora meno possiamo capire il fatto di dover prendere il fucile e rischiare la vita per combattere in nome di un ideale. La nostra idea di "combattere per un ideale"  è scendere in piazza e gridare slogan, e la prospettiva di ricevere qualche manganellata ci fa pensare alla dittatura (e a una bella causa contro lo stato invocando un certo articolo di legge...) Invece Garibaldi e i patrioti non potevano scendere in piazza, e neppure sporgere denuncia al tribunale dei diritti dell'uomo (che non esisteva), dovevano direttamente rischiare la vita, sparare e farsi sparare in un'autentica battaglia militare. Oppure stare zitti e buoni, fregarsene, e lasciare a noi posteri la questione. "Vi sta bene la divisione o volete l'unità? Fate voi, decidete voi, la vita rischiatela voi, le fucilate prendetevele voi". Mi piacerebbe vedere un Bossi governato da Radetzky (coi metodi di Radetzky, non con quelli della repubblica italiana) o uno di quei ragazzi meridionali che sputano su Garibaldi di fronte a una monarchia assolutista borbonica (non di fronte al governo democraticamente eletto della Regione Sicilia). Sarebbero più felici? Forse sì. Ma forse anche no.
E qui si arriva al nocciolo. C'è chi dice (adesso): "Ma perchè è stata fatta questa unità? Ma chi l'ha voluta? Solo una minoranza di carbonari e borghesi, il popolo non la voleva". La questione è legittima. Era opportuna questa unità?
Secondo me sì, e ne parlerò più approfonditamente in altri post sull'argomento.

lunedì 14 marzo 2011

Il fiore della speranza

Quando vado al lavoro ai primi di marzo mi piace fare un pezzo di strada un po' più lungo. Aggiungo qualche metro ma transito su un tratto alberato di peschi, e così posso ammirarne la fioritura.
Può sembrare una cosa sciocca, però "vivere" giorno dopo giorno lo sbocciare di questi fiori mi trasmette una sensazione piacevole, una predisposizione all'inizio della primavera e alla fine dell'inverno.
É qualcosa che ho appreso studiando la cultura giapponese. Nel caso di quel paese lontano la fioritura che diventa un rituale è quella del ciliegio, che avviene ugualmente a marzo. Si organizzano dei pic nic sotto i ciliegi in fiore, con l'incessante pioggia di petali rosa che cadono dai rami. Si ammira la bellezza della natura e la sua caducità. Tutto è destinato a finire, a volte in modo improvviso.
In genere non parlo di cronaca in questo blog. Lo mantengo isolato dagli eventi esterni, come un eremo. Questo non significa che ciò che accade nel mondo mi lasci indifferente, anzi. Le immagini del disastro in Giappone sono sconvolgenti, terribili. Vite spazzate via in un attimo, città cancellate. Tutto è destinato a finire, a volte in modo non solo improvviso ma addirittura spaventoso. Di fronte a una catastrofe epocale di queste proporzioni si può solo rimanere attoniti, sembra che nulla abbia più senso. Ma gli uomini, a qualsiasi latitudine, sanno e possono risollevarsi. Non in tempi brevi, e spesso con grandi ferite che non si rimargineranno più, ma riescono ad andare avanti.
In questi giorni nel paese del Sol Levante inizierà la fioritura del ciliegio. Questo mio post è una preghiera, la speranza che lo sbocciare dei fiori rappresenti la rapida ripresa di quel paese e del suo popolo.

sabato 12 marzo 2011

Se potessi riscoprire...

Esistono riferimenti a un’opera di Shakespeare che è andata perduta.
Anche Sarashina, una della dame di corte contemporanea di Sei Shonagon e Murasaki Shikibu, scrisse dei romanzi di cui non è rimasta traccia.
Sartorio dipinse dei quadri dei quali ci restano solo alcune foto in bianco e nero.
E ovviamente esistono altri casi simili.
Qual è l’opera perduta che sarebbe bello ritrovare? Non intendo solo libri, ma anche musiche, film, dipinti…
Una pellicola di Fritz Lang?
Una sinfonia di Mozart?
Un singolo inedito di Elvis Presley?
Un romanzo di Pirandello?

venerdì 11 marzo 2011

Devo ringraziare

In questi giorni sto smanettando parecchio su amazon nella sezione self-publish per impratichirmi, e in modo del tutto inatteso ho scoperto di aver venduto la mia prima copia (per la cronaca "L'etrusco immortale e altri racconti fantastici").
Ringrazio di cuore chi mi ha dato fiducia, presumo che si tratti di uno dei frequentatori abituali di questo blog, ma non gli chiedo di palesarsi. Solo una piccola, quasi ovvia, preghiera: se dovesse piacergli (e solo in questo caso) sarebbe bello ricevere un feedback su amazon; se riscontrasse invece errori o altre cose che non vanno, me le segnali affinchè io le possa correggere (nonchè trovare un sistema per farmi perdonare).
Uno scribacchino ha sempre tante cose da imparare quando riceve delle critiche dettagliate, positive o negative che siano :-)

mercoledì 9 marzo 2011

Incipit

L'incipit di una narrazione è molto importante perchè deve incuriosire il lettore. Nel mercato editoriale anglosassone si usa il termine hook (uncino) per indicare che le prime righe di un romanzo devono "arpionare" il reader (anzi, customer) convincendolo che vale la pena di comprare il libro.
Poichè non ho un'equipe editoriale alle mie spalle, non sono certo che i miei incipit sappiano coinvolgere fino a questo punto gli eventuali lettori (che nel mio caso NON sono clienti, lo possono diventare il modo opzionale ma hanno la possibilità di leggere l'ottanta per cento dei miei scritti gratuitamente).
Per capire se i miei incipit funzionano (e anche perchè sono a corto di idee, lo ammetto) ne posterò alcuni chiedendo a chi transita da queste parti di dirmi se gli sembrano cool o boring.
E visto che ho usato parecchio inglese in questo post, cominciamo con la mia versione di Amleto in "Shakespeare noir" (che potete trovare per intero qui).

Mi scusi se mi intrometto signora. Non ho potuto fare a meno di sentirvi parlare, e posso garantirle che suo marito… fidanzato? Beh, comunque ha ragione lui. Questo è proprio il luogo in cui, a suo tempo, ci fu la resa dei conti fra Claudio Danese e Mike Amato.
All’epoca si chiamava Italian Bar, e era il punto di ritrovo per i ragazzi della famiglia Danese. In uno degli appartamenti ai piani superiori ci abitava Nick Marcelli, uno degli uomini più fidati del clan.
Come faccio a essere così informato? Eh, signorina bella! Lo sa chi sono io? Sono Tommy Orazio. Lo so che a guardarmi adesso sembro solo un povero alcolizzato. Ventisei anni di carcere mi hanno ridotto così, però a quei tempi ero giovane, e le mani non mi tremavano. Se c’era da sparare dovevo solo alzare la pistola e tirare il grilletto, mica avevo bisogno di prendere la mira.
Oggi è il 16, vero? Neanche a farlo apposta, la trafila che ha portato a quella resa dei conti è cominciata esattamente il 16 ottobre di trent’anni fa, e io l’ho vista tutta coi miei occhi, dall’inizio alla fine.

Ero appena tornato dalla Sicilia dove avevo sistemato alcuni affari per conto della famiglia, e ero curioso di capire meglio tutto il casino che era successo mentre stavo a Palermo. Perché in due mesi il mondo si era rivoltato: prima è morto Michele Danese, e già questa era una cosa grossa, ma non sono neppure potuto andare al funerale perché mi hanno detto che era più importante chiudere l’affare coi nostri compari siciliani.
Passano due mesi, e mentre preparo i bagagli per tornare a New York vengo a sapere che Trisha Merone si sposa con Claudio. Mi è sembrata una cosa assurda, una mancanza di rispetto vergognosa. Detto in poche parole: uno schifo. Però volevo parlarne con gli altri prima di emettere giudizi affrettati.

lunedì 7 marzo 2011

Scrittura in senso stretto

La scrittura è una cosa abbastanza comune, eppure quanto è preziosa! Quando si ha qualcuno in qualche angolo remoto del mondo e si è pieni di ansia sul suo conto, ecco che arriva una lettera e ci sembra che la persona sia proprio nella stessa stanza! E, strano a dirsi, dare forma ai propri pensieri in una lettera anche se si sa che probabilmente questa non giungerà mai a destinazione è un grande conforto. Se non esistesse la scrittura, di che atroci depressioni si soffrirebbe!

Questa frase, estrapolata dalle “Note del guanciale” di Sei Shonagon, mi ha costretto a riflettere su vari aspetti della scrittura. Intanto il suo scopo primario: la comunicazione mediata, in sostituzione del contatto verbale. Una lettera da parte di un amico, un documento con informazioni importanti (specialmente in passato quando non esistevano né telefoni né internet), valgono forse di più di qualsiasi romanzo nell’economia della propria esistenza materiale. Eppure la lettura di un libro è qualcosa di così speciale talvolta, riesce a trasmettere emozioni pari a quelle delle esperienze reali.
E poi il concetto che scrivere, pur sapendo che ciò che si scrive forse non verrà mai letto, è comunque un grande conforto. Vero. Ma perché mai? In fondo, che motivo c’è di sentirsi sollevati solo per aver messo nero su bianco emozioni, pensieri e ammonimenti che non verranno letti, o forse lo saranno da parte di estranei che non conoscono nulla della nostra vita?
L’ultima considerazione di Sei Shonagon: Se non esistesse la scrittura, di che atroci depressioni si soffrirebbe!
Sarà davvero così? Forse invece è proprio la scrittura a creare un corto circuito mentale di ragionamenti, riflessioni e sottigliezze che probabilmente non avrebbero luogo se non esistesse la maniera di sistemarle ordinatamente su un foglio di carta per poi rileggerle, esaminarle, correggerle, analizzarle e rielaborarle. Molte volte, nel dormiveglia, transitano dei pensieri complessi e contorti che svaniscono non appena ci si addormenta, e sono del tutto dimenticati al momento del risveglio. Un soffio e via. È possibile che senza scrittura il pensiero procederebbe in modo più lineare, e tutto sembrerebbe più semplice. Certo, senza scrittura vivremmo in un mondo assai più arretrato di quello attuale. Saremmo indietro di un paio di millenni. Ma forse non avremmo neppure gli elementi concettuali per elaborare l'idea di “atroce depressione”.

sabato 5 marzo 2011

Strane parabole letterarie

La fama è una strana creatura che spesso si diverte a giocare con le vite di coloro che la inseguono.
Nella letteratura capita spesso che chi la raggiunge poi la perda irreparabilmente, oppure la ottenga quando è troppo tardi per godersela.
Lo scrittore inglese Hall Caine, contemporaneo di Joseph Conrad e H.G. Wells, da vivo ebbe un successo straordinario creando degli autentici best-sellers, ma da decenni il suo nome è ormai dimenticato e i suoi romanzi non sono più stati ristampati.
Sul versante opposto troviamo coloro le cui opere hanno ricevuto la dignità della stampa solo a beneficio dei propri discendenti.
Guido Morselli ad esempio. I suoi libri vennero sistematicamente respinti dagli editori, ed è diventato un autore di punta del catalogo Adelphi solo dopo la sua morte.
Oppure c’è il caso più raro della scelta volontaria: il poeta Gerard Manley Hopkins decise di farsi prete dopo essersi convertito al cattolicesimo, e nel corso della propria esistenza volle dedicarsi a tempo pieno alla vocazione sacerdotale e all’attività accademica presso l’università di Dublino. Le sue liriche furono pubblicate quasi venti anni dopo la morte a cura dell’amico Robert Bridges, e suscitarono un enorme interesse presso la critica che continua ancora oggi, tanto è vero che molte sue poesie compaiono abitualmente nelle antologie poetiche in lingua inglese.
Ma un caso davvero curioso è quello del nostro connazionale Alfredo Oriani. Da vivo pubblicò numerosi romanzi e saggi, senza mai ottenere successo e restando in secondo piano nel panorama letterario nazionale.
Morto nel 1909, si trovò a diventare involontariamente (e inconsapevolmente) il precursore del fascismo poiché Mussolini considerava il suo saggio La rivolta ideale un’anticipazione dei principî ideologici delle camicie nere. Fu così che durante la dittatura Alfredo Oriani venne celebrato dal regime: si organizzavano pellegrinaggi alla sua casa natale a Faenza e il suo nome era contrapposto a quello di Marx. Il pelatone in persona curò la pubblicazione dell’opera omnia di Oriani, di fatto trasformato in pre-fascista.
Finita la dittatura, lo scrittore ritornò nell’oblio, per di più macchiato da questo scomodo marchio che, paradossalmente, gli era stato appiccicato in modo arbitrario e a sua totale (nonché postuma) insaputa.
Solo verso gli anni ’80 si risvegliò un piccolo interesse nei suoi confronti grazie agli studi di Giovanni Spadolini, noto esponente politico repubblicano - per breve tempo anche Presidente del Consiglio dei Ministri – che rivalutò i saggi di Oriani inquadrandoli nel difficile contesto dell’Italia post-unitaria in cui l’entusiasmo risorgimentale si era rapidamente spento in seguito agli scandali politici e ai disastri militari in Etiopia.
Dopo la scomparsa di Spadolini, per Oriani è iniziato un nuovo periodo di accantonamento, anche se il centocinquantenario dell’unità potrebbe far rinascere un certo interesse verso la sua opera.
O forse no: la fama si diverte a giocare con le sue vittime anche quando sono ormai morte da cento anni.

giovedì 3 marzo 2011

Raw art

Non so quanti di voi abbiano mai sfogliato il volume Fantasy Worlds della Taschen.
Io l’ho trovato estremamente interessante, tanto è vero che lo tengo nello scaffale più basso del mio mobile libreria per averlo sempre a portata di mano.
Offre un elenco accurato e documentato di siti dove compaiono esempi di raw art, un termine con cui vengono definite quelle forme di arte dilettantesca, disordinata (ma non necessariamente) e sproporzionata creata da persone senza la benché minima formazione culturale in ambito figurativo.
Fenomeno poco frequente in Italia, è invece assai diffuso in Francia e negli Stati Uniti. Individui spesso appartenenti a classi sociali medio basse, vengono prese da una smania creativo-costruttiva che trova la sua valvola di sfogo nell’edificazione di “monumenti” realizzati in modo rozzo, raffazzonato, chiaramente privi di un progetto o di uno scopo preciso. Nella maggior parte dei casi i creatori di raw art si dedicano a questa attività solo nei ritagli di tempo, visto che devono lavorare per vivere, e quasi sempre sono costretti a utilizzare materiali di fortuna o di scarto (e comunque a bassissimo costo) poiché non hanno grosse disponibilità economiche. Sono tutti autodidatti, in un senso molto ampio del termine, e spesso c’è una certa ossessività nella loro applicazione a questo hobby.
I risultati possono essere diversi. Si va dal mucchio di oggetti diversi accumulati insieme che ricordano solo una discarica di rifiuti, a strutture più complesse e non prive di fascino. In casi rari riescono addirittura a suscitare un autentico interesse artistico.
Un esempio di raw art ossessiva sono le Watts Towers.

L’immigrato italiano Simone Rodia, operaio semi-analfabeta, le costruì a Los Angeles usando materiali raccolti della discarica dei rifiuti. Non appena smetteva di lavorare, prendeva cemento, cocci, plastica e vetri rotti per costruire “qualcosa di grosso”. Lui stesso non sapeva bene cosa. È andato avanti per anni, accumulando blocco su blocco, travatura su travatura, e raggiungendo i venti metri di altezza.


Molto più armonioso è Le Palais Ideal, che il francese Ferdinand Cheval costruì con le proprie mani, anche lui da solo, durante trent’anni di attività. Finito il suo lavoro, quasi ogni minuto del suo tempo libero era assorbito da questa opera che – per qualche motivo – voleva ad ogni costo accrescere, modellare, abbellire, sino a farla diventare grande come una reggia.
E ci sono decine di altri casi simili.
Trovo affascinante questa mania creativa, quasi malata, che si manifesta in persone dalla vita assolutamente normale. E mi chiedo cosa avrebbero potuto realizzare se fossero nati in una famiglia ricca, con la possibilità di frequentare l’Accademia di Belle Arti.

mercoledì 2 marzo 2011

Grande novità su amazon !

Pensate un po’: da oggi sul più grande rivenditore online del mondo potete trovare anche i miei ebook!
…Va bene, sentitevi pure liberi di inviarmi un vaff[biiip!]ulo. Vi aspettavate qualcosa di interessante, e invece…
Percepisco le vibrazioni negative delle vostre domande:
“Che senso ha mettere alcuni tuoi libri a pagamento su amazon quando quegli stessi libri sono disponibili gratuitamente sul tuo blog?”
Giusto, però fa figo avere il proprio nome su amazon, no?
“Guarda che qualunque imbecille può auto-pubblicarsi su amazon”.
Appunto. Io sono un imbecille qualunque, e anche abbastanza nella media, perché non dovrei uniformarmi?
… Vabbé, un altro pezzetto della mia reputazione è andato. Meno male che non sono uno scrittore famoso!