Essendo un frequentatore di librerie, non posso fare a meno di notare certi titoli che compaiono sugli scaffali...
DISCLAIMER: io ho il massimo rispetto per i libri e per chi li scrive. In questa "rubrica" saltuaria magari non sembrerò tanto rispettoso, ma é solo un modo di scherzare sul variegato universo delle pubblicazioni editoriali italiche, senza voler offendere nessuno.
Dopo una nuova lunga pausa, aggiungo un post al tag "questolibroesiste".
Per chi non avesse familiarità con questa rubrica saltuaria, preciso che la utilizzo per rendere nota l'esistenza di libri che, se qualcuno ne sentisse parlare, potrebbe legittimamente pensare a uno scherzo. Invece esistono davvero...
Abitando a due passi da Roma frequento talvolta alcune librerie capitoline. Onestamente non si distinguono granché dalle altre librerie delle grandi catene con diversa collocazione geografica, se non fosse per la presenza massiccia di volumi sulla storia di Roma, sulla cucina romana, sui personaggi di Roma e ovviamente sulla società calcistica A.S. Roma.
Per raccontare le leggendarie gesta degli eroi giallorossi è stato scritto davvero di tutto, ma non avrei mai pensato di vedere anche...
Ebbene sì, un poema epico per celebrare Totti, ovviamente intitolato Totteide (vedere per credere a questo link). Per la modica somma di dieci euro potete leggere 1800 mirabolanti endecasillabi rimati a partire dall'indimenticabile incipit:
Donate a me la forza d‘un Titano,
l’estro dei vati ed il saper dei dotti,
ch’i’ vo’ narrar del Grande Capitano,
ch’i’ vo’ narrare di Francesco Totti
recensione: non sono romanista, quindi evito di espormi...
consiglio: ... però lo sconsiglio anche ai romanisti. Con dieci euro potete comprare tante altre cose più interessanti.
mercoledì 26 febbraio 2014
sabato 22 febbraio 2014
Stillicidi (o altre confessioni su me stesso)
Nutro un'ammirazione profonda per quelle persone che sembrano conoscere il segreto per estendere la durata del giorno a un numero d'ore maggiore rispetto alle ventiquattro canoniche.
Col tempo ho compreso che in effetti non c'è alcun segreto: basta velocizzare i tempi. Dormire cinque ore anziché otto, leggere duecento pagine al giorno e non venti, scriverne dieci anziché una, vedere un film e contemporaneamente aggiornare il blog e i vari account personali disseminati sul web, mangiare e intanto ascoltare l'audio del corso di aggiornamento professionale...
Ma io non ne sono capace. Non riesco a spingermi oltre l'esecuzione di una singola azione con durata limitata, e la conseguenza é: lentezza endemica che tende a rallentarsi ulteriormente.
Le mie letture, la scrittura di novelle o l'inseguimento di idee per il nuovo post del blog: sono stillicidi, pur sempre piacevoli ma comunque stillicidi che si centellinano lungo tempi dilatatissimi. Settimane per ultimare la lettura di un romanzo; mesi per concludere un racconto; giornate che si sommano le une alle altre cumulando attività al rallentatore, ammonticchiando granello su granello, costantemente alternate agli obblighi fisiologici (ecco, almeno su quelli sono preciso e tempestivo: nutrimento, sonno, relax, sesso, ginnastica, meditazione... su questi fondamentali non sgarro mai, anche perché nel corso degli anni ho dovuto affrontare periodi in cui questi forndamentali, separatamente o talvolta tutti insieme, non erano praticabili, e ho sperimentato quanto la loro assenza incida sul mio equilibrio psicofisico).
Naturalmente ci sono anche altre questioni essenziali quantunque non necessariamente gradite (tipo le quotidiane otto ore lavorative necessarie per generare un reddito...) e il quadro è completo.
Però, proprio per effetto dell'eccessivo trascorrere del tempo, nel momento in cui concludo una lettura protrattasi alla media di poche pagine al giorno, o termino la stesura interminabile di uno scritto, o vengo a capo di qualunque altra cosa durata più a lungo del dovuto, ho una sensazione di leggerezza improvvisa. Mi pare di rinascere: un respiro profondo e via, pronto a ricominciare.
Sono queste reincarnazioni in un me stesso ancora vivente che mi aiutano a rigenerarmi come se fossi davvero all'inizio di una nuova vita. Forse è la spiegazione al perché una parte di me resta sempre un po' bambina, e quando mi chiedono quanti anni ho sono costantemente tentato di rispondere: 13... più 30.
Col tempo ho compreso che in effetti non c'è alcun segreto: basta velocizzare i tempi. Dormire cinque ore anziché otto, leggere duecento pagine al giorno e non venti, scriverne dieci anziché una, vedere un film e contemporaneamente aggiornare il blog e i vari account personali disseminati sul web, mangiare e intanto ascoltare l'audio del corso di aggiornamento professionale...
Ma io non ne sono capace. Non riesco a spingermi oltre l'esecuzione di una singola azione con durata limitata, e la conseguenza é: lentezza endemica che tende a rallentarsi ulteriormente.
Le mie letture, la scrittura di novelle o l'inseguimento di idee per il nuovo post del blog: sono stillicidi, pur sempre piacevoli ma comunque stillicidi che si centellinano lungo tempi dilatatissimi. Settimane per ultimare la lettura di un romanzo; mesi per concludere un racconto; giornate che si sommano le une alle altre cumulando attività al rallentatore, ammonticchiando granello su granello, costantemente alternate agli obblighi fisiologici (ecco, almeno su quelli sono preciso e tempestivo: nutrimento, sonno, relax, sesso, ginnastica, meditazione... su questi fondamentali non sgarro mai, anche perché nel corso degli anni ho dovuto affrontare periodi in cui questi forndamentali, separatamente o talvolta tutti insieme, non erano praticabili, e ho sperimentato quanto la loro assenza incida sul mio equilibrio psicofisico).
Naturalmente ci sono anche altre questioni essenziali quantunque non necessariamente gradite (tipo le quotidiane otto ore lavorative necessarie per generare un reddito...) e il quadro è completo.
Però, proprio per effetto dell'eccessivo trascorrere del tempo, nel momento in cui concludo una lettura protrattasi alla media di poche pagine al giorno, o termino la stesura interminabile di uno scritto, o vengo a capo di qualunque altra cosa durata più a lungo del dovuto, ho una sensazione di leggerezza improvvisa. Mi pare di rinascere: un respiro profondo e via, pronto a ricominciare.
Sono queste reincarnazioni in un me stesso ancora vivente che mi aiutano a rigenerarmi come se fossi davvero all'inizio di una nuova vita. Forse è la spiegazione al perché una parte di me resta sempre un po' bambina, e quando mi chiedono quanti anni ho sono costantemente tentato di rispondere: 13... più 30.
martedì 18 febbraio 2014
Libri vissuti - Zorba il greco
Era un bel po' che non usavo questo tag.
Quando parlo di “libri vissuti” mi riferisco egoisticamente alla traccia che hanno lasciato in me. È possibile che in termini oggettivi non meritino l’appellativo di capolavoro, è persino plausibile che abbiano delle vistose imperfezioni tecniche, ma io non voglio giocare a fare il critico letterario. Intendo esclusivamente raccontare il loro impatto nella mia vita di lettore.
E nel caso di “Zorba il greco”, noto soprattutto per il film che ne è stato tratto (che ha influito anche sulle scelte dell'editore italiano, visto che il titolo originale del romanzo sarebbe "La vita e le avventure di Alexis Zorba") l’impatto è stato notevole.
Zorba è un animale pieno di vitalità feroce. Non viene idealizzato, e neppure trasformato in un vecchio saggio: è semplicemente un uomo che vuole ogni giorno riscoprire la vita e godersela sino in fondo.
Il romanzo è Zorba. In confronto a lui l’altro protagonista – lo scrittore che narra la storia del loro soggiorno a Creta nel tentativo di rendere fruttuosa una miniera di lignite – appare insignificante. È ripiegato dentro la propria mente, insegue questioni ideali senza quasi accorgersi di avere anche un corpo e degli istinti.
Detta così sembra una trama piuttosto cliché: il contrasto fra riflessione e azione, fra anima e carne, fra vita contemplativa e vita (prepotentemente) attiva… Però – che ci posso fare? – la semplicità della scrittura di Nikos Kazantzakis mi appare come un pregio anziché un limite. Le piccole ripetizioni che a volta si notano da un capitolo all’altro, la scelta di raccontare le scene più violente e grottesche quasi con pudore, lasciando sempre trasparire una comprensione e un amore profondo per la natura umana – di cui, comunque, non vengono nascosti né gli eccessi né i vizi – hanno una bellezza, una profondità che talvolta non si scorge in romanzi esteticamente impeccabili ma al tempo stesso asettici.
Un Zorba lo abbiamo conosciuto quasi tutti. É il tipo che ha viaggiato molto, si vanta di aver cambiato tante città e donne, e racconta continuamente le sue storie da spaccone che in molti casi sono talmente esagerate da lasciar pensare che le stia sparando grosse. Però, nonostante tutto, si fa finta di credere a ogni dettaglio e lo si lascia parlare perché la sua esuberanza, la sua energia, la sua vitalità sono troppo affascinanti. Gli si perdonano anche gli eccessi: raccontati da lui sembrano giustificabili anche i comportamenti che in genere non apprezzeremmo.
Ovvio che l'incontro fra due uomini così diversi sia illuminante soprattutto per lo scrittore-narratore. Lui trae il maggior guadagno, lui impara a riemergere dai meandri della propria vita fatta di sola meditazione e studio, lui inizia a comprendere meglio ogni cosa alla luce della furente, straripante energia del vecchio Zorba.
Invece Zorba non deve imparare nulla dallo scrittore: è un farabutto, è spietato, eppure capace di essere generoso; privo di ogni ideale ma disposto a lottare per una causa (e sempre pronto a mollarla in un attimo); è contraddittorio, talvolta odioso, ma compenetrato nella materialità della vita con un'intensità tale da capirla meglio di chiunque, anche nei suoi aspetti più difficili coi quali riesce sempre a trovare una conciliazione.
Una lettura in cui gli eventi, pur presenti, sono secondari rispetto alle numerose pagine dedicate all'introspezione psicologica della voce narrante, in contrapposizione agli aneddoti della vita di Zorba dove c'è spazio solo per le donne, il vino, il lavoro e il buttar tutto per aria e ricominciare daccapo, anche senza un motivo.
Una lettura fortemente incentrata sull'interiorità dell'uomo e i suoi eterni quesiti: la vita, la morte, gli ideali, le gesta, l'amore, la fede nel soprannaturale. Un libro vissuto perché ha esteso la mia visione della condizione umana.
Quando parlo di “libri vissuti” mi riferisco egoisticamente alla traccia che hanno lasciato in me. È possibile che in termini oggettivi non meritino l’appellativo di capolavoro, è persino plausibile che abbiano delle vistose imperfezioni tecniche, ma io non voglio giocare a fare il critico letterario. Intendo esclusivamente raccontare il loro impatto nella mia vita di lettore.
E nel caso di “Zorba il greco”, noto soprattutto per il film che ne è stato tratto (che ha influito anche sulle scelte dell'editore italiano, visto che il titolo originale del romanzo sarebbe "La vita e le avventure di Alexis Zorba") l’impatto è stato notevole.
Zorba è un animale pieno di vitalità feroce. Non viene idealizzato, e neppure trasformato in un vecchio saggio: è semplicemente un uomo che vuole ogni giorno riscoprire la vita e godersela sino in fondo.
Il romanzo è Zorba. In confronto a lui l’altro protagonista – lo scrittore che narra la storia del loro soggiorno a Creta nel tentativo di rendere fruttuosa una miniera di lignite – appare insignificante. È ripiegato dentro la propria mente, insegue questioni ideali senza quasi accorgersi di avere anche un corpo e degli istinti.
Detta così sembra una trama piuttosto cliché: il contrasto fra riflessione e azione, fra anima e carne, fra vita contemplativa e vita (prepotentemente) attiva… Però – che ci posso fare? – la semplicità della scrittura di Nikos Kazantzakis mi appare come un pregio anziché un limite. Le piccole ripetizioni che a volta si notano da un capitolo all’altro, la scelta di raccontare le scene più violente e grottesche quasi con pudore, lasciando sempre trasparire una comprensione e un amore profondo per la natura umana – di cui, comunque, non vengono nascosti né gli eccessi né i vizi – hanno una bellezza, una profondità che talvolta non si scorge in romanzi esteticamente impeccabili ma al tempo stesso asettici.
Un Zorba lo abbiamo conosciuto quasi tutti. É il tipo che ha viaggiato molto, si vanta di aver cambiato tante città e donne, e racconta continuamente le sue storie da spaccone che in molti casi sono talmente esagerate da lasciar pensare che le stia sparando grosse. Però, nonostante tutto, si fa finta di credere a ogni dettaglio e lo si lascia parlare perché la sua esuberanza, la sua energia, la sua vitalità sono troppo affascinanti. Gli si perdonano anche gli eccessi: raccontati da lui sembrano giustificabili anche i comportamenti che in genere non apprezzeremmo.
Ovvio che l'incontro fra due uomini così diversi sia illuminante soprattutto per lo scrittore-narratore. Lui trae il maggior guadagno, lui impara a riemergere dai meandri della propria vita fatta di sola meditazione e studio, lui inizia a comprendere meglio ogni cosa alla luce della furente, straripante energia del vecchio Zorba.
Invece Zorba non deve imparare nulla dallo scrittore: è un farabutto, è spietato, eppure capace di essere generoso; privo di ogni ideale ma disposto a lottare per una causa (e sempre pronto a mollarla in un attimo); è contraddittorio, talvolta odioso, ma compenetrato nella materialità della vita con un'intensità tale da capirla meglio di chiunque, anche nei suoi aspetti più difficili coi quali riesce sempre a trovare una conciliazione.
Una lettura in cui gli eventi, pur presenti, sono secondari rispetto alle numerose pagine dedicate all'introspezione psicologica della voce narrante, in contrapposizione agli aneddoti della vita di Zorba dove c'è spazio solo per le donne, il vino, il lavoro e il buttar tutto per aria e ricominciare daccapo, anche senza un motivo.
Una lettura fortemente incentrata sull'interiorità dell'uomo e i suoi eterni quesiti: la vita, la morte, gli ideali, le gesta, l'amore, la fede nel soprannaturale. Un libro vissuto perché ha esteso la mia visione della condizione umana.
venerdì 14 febbraio 2014
domenica 9 febbraio 2014
Serissimi consigli per rendere originale la vostra scrittura
Dal basso della mia lunga esperienza
come scribacchino mai pubblicato, ho sicuramente tutti i titoli
necessari per non impartire lezioni di scrittura, e infatti mi
sono sempre astenuto da iniziative simili.
Però nessuno mi impedisce di
ironizzare sull’argomento.
Ordunque, coraggiosi aspiranti
scrittori, predisponete le vostre menti a ricevere i sublimi
suggerimenti del magnanimo Ariano Geta, che condividerà con voi le
nozioni apprese dopo anni e anni di pratica.
Partendo con un minimo di serietà,
sono giunto alla conclusione che la scrittura è il mezzo tramite il
quale si persegue il fine ultimo della narrativa: raccontare.
Il mezzo e il fine sono entrambi
necessari.
Un uomo che parla in modo estremamente
forbito, ma di fatto non dice nulla, è vacuo. Uno che invece
racconta storie interessanti, ma si esprime con un linguaggio grezzo,
è genuino. Dovendo scegliere tra i due estremi è preferibile essere
genuino, mantenendo però la consapevolezza di dover migliorare il
mezzo.
Come si fa? Qual è il metodo giusto
per rendere originale la propria scrittura? Ebbene… (da questo
punto in poi la serietà scompare)… esistono varie tecniche.
Una è la rarefazione verbale.
Periodi brevi. Separati da un punto. E basta. Niente virgole. Meglio
è se la sintassi usuale non rispettano. Fa più figo. E poi
interrompere una descrizione. Spezzarla. Al suo interno inserire
stratosferiche levigazioni di un concetto. Inusuali perifrasi di
simboli. Incoerenti come le due che precedono. Utilizzando però
fantasmagoriche parole. Quanto basta per ipnotizzare l’inesperto
lettore. Elevarlo sopra un empireo di significati. Ma prendendolo per
il culo. Perché in realtà non gli hai raccontato un cazzo.
La tecnica opposta è la
moltiplicazione verbale. Che si potrebbe descrivere ed
estrinsecare come forma espressiva comunicativa mediata ottenuta
tramite la proliferazione, l’accrescimento, l’estensione,
l’aggiunta ossessiva e mai doma di parole vane ed inutili pur
tuttavia utilizzate abbondantemente e senza limitarsi. Non fermandosi
mai a un solo, unico, misero, riduttivo aggettivo. Ogni sostantivo
venga invece preceduto e seguito da una corroborante sequela briosa
di elementi pomposamente aggiuntivi. Scrivere, creare, raccontare,
trasmettere, comunicare, emozionare l’incantato e incantevole
lettore affascinato dall’ipertrofia incontrollata del movimentato
testo in cui tante, numerose, infinite parole vengono
entusiasticamente e gioiosamente sparate sulla bianca pagina in un
pirotecnico fulgore di enfasi narrativa, quantunque a lungo andare
potrebbe oltraggiosamente assumere la poco dignitosa forma di
un’accozzaglia forzata. Per un’elegante gestione di tale
particolarissima scrittura si raccomanda premurosamente un’infinita
pratica onde evitare il disastroso e odioso esito di essere bollati
come fastidiosi e prolissi.
Per oggi può bastare. Tornerò
sull’argomento nei prossimi giorni. Forse.
martedì 4 febbraio 2014
Quando andai fuori di testa
Il mio umore oscilla fra estremi, pertanto genera comportamenti antitetici. Ragion per cui ho
sempre ritenuto la coerenza un optional di lusso che non posso
permettermi: troppo costosa in termini nervosi per la mia misera
personalità lunatica.
Inevitabile che da ciò conseguano
situazioni in cui sembrano agire due persone diverse: una posata,
paziente, educata (ed è quella alla quale in genere affido la
gestione del blog); e un’altra nevrotica, cinica, ignorante
(normalmente incaricata di discutere coi clienti morosi e i fornitori
ritardatari).
Talvolta però si scambiano di ruolo in
contesti non specificamente assegnati…
Le attese nel traffico causa auto
parcheggiata in doppia fila, ad esempio. In genere tendo ad
affrontarle flemmaticamente. Spengo il motore e lascio al resto della
fila l’incarico di clacsonare per comunicare al coglione di turno
che se gli pesano le chiappe a percorrere dieci metri, allora
dovrebbe noleggiare un elicottero e farsi calare davanti ai negozi
col cavo d’acciaio in stile “Mission Impossible”, non certo
lasciare la sua macchina a bloccare tutte le altre in attesa che lui
termini l’acquisto.
Però, quella volta nel lontano 1997,
ero piuttosto incazzato alterato per motivi miei.
Quando ho svoltato sul vicolo che
dovevo per forza attraversare ho trovato una macchina ferma in mezzo
alla strada. Intendiamoci: era strettissima, e anche se il mezzo fosse stato accostato al
marciapiede avrebbe bloccato il traffico ugualmente. Infatti il
conducente non aveva neppure simulato il tentativo di lasciare un
margine finto e inutile per chi giungeva alle sue spalle. Motore
spento e auto proprio al centro della carreggiata.
Suono il clacson. Prima una serie di
colpetti, poi un lungo assolo.
Niente. Il tizio (lo intravedo che sta
parlando col negoziante, deve essere per forza lui perché c’è una
sola attività commerciale in quel vicolo) fa finta di non
accorgersene. E diamine: lui sta allegramente cazzeggiando e c’è
uno che si permette di interromperlo perché, con tante strade che ci
sono, deve passare proprio in quella che lui ha adibito a parcheggio.
Che maleducato!
Però il tizio in questione ignora che
il maleducato impegnato a infastidire la sua conversazione a colpi di
clacson è alla guida di un’autovettura prossima alla rottamazione…
Proprio così. Il lunatico in fase
oscura che deve assolutamente attraversare quel vicolo è a bordo di
una Fiat Ritmo, e tra pochi giorni questa verrà consegnata al
concessionario e inviata allo sfascio in cambio di un Nissan Micra
nuova fiammante.
State ipotizzando un'idea potenziale che però
appare insensata? E perché mai dovrebbe essere insensata?...
... Metto la retromarcia e vado indietro il
più possibile. Reinserisco la prima e do gas.
BUM!
L’allegro conversatore esce di corsa
dal negozio.
Il conducente lunatico si affaccia dal
finestrino della Ritmo.
“Ma sei coglione? Lasci la macchina
in mezzo alla strada? Sono arrivato in velocità e non l’ho neppure
vista!”
Il proprietario dell’auto tamponata
da un’occhiata rapida al paraurti posteriore: poche sgraffiature,
niente di rilevante. Il danno maggiore lo ha avuto la Ritmo, ma il
conducente non sembra preoccuparsene. Preferisce continuare a
gridare:
“Vuoi togliere stà cazzo di
macchina, ‘mbecille?”
L’allegro conversatore (che non è
più tanto allegro) guarda negli occhi il tizio che gli sta urlando
di spostarsi. Si capisce che pensa qualcosa tipo: “È un drogato.
Un malato di mente. Forse entrambe le cose”. Monta sull’auto,
accende il motore e schizza via. Siccome anche il drogato malato di
mente deve passare nella stessa direzione, i loro sguardi si
incrociano un’ultima volta quando il conversatore non più allegro
ha finalmente trovato uno spiazzo in cui posteggiare il suo mezzo
senza intralciare il traffico. A ben trenta metri dal negozio,
distanza clamorosa che dovrà percorrere due volte a piedi, poverino.
E intanto – appunto – fa in tempo a voltare gli occhi in
direzione della Ritmo che gli passa accanto e ad osservare ancora il
conducente e il lampo di furore nelle sue iridi lucide.
La smorfia di tensione del tamponato è
un libro aperto. C’è scritto: “Psicopatico, forse pericoloso”.
Un attimo dopo vede solo il portellone
posteriore della Ritmo che si allontana in velocità. E non può
minimamente immaginare che il drogato psicopatico forse pericoloso ha
appena assunto l’espressione di un ragazzino sorridente mentre
guarda beatamente i cartoni animati.
Postilla finale: a distanza di anni devo ammettere che mi vergogno un po' del mio comportamento in quella circostanza, anche perché, in un momento successivo della mia vita, è capitato pure a me di bloccare il traffico lasciando l'auto in mezzo alla carreggiata per entrare in una pizzeria e prenotare un tavolo per la sera... Morale: anch'io sono stato un allegro conversatore, ma nessun lunatico mi ha tamponato.
Postilla finale: a distanza di anni devo ammettere che mi vergogno un po' del mio comportamento in quella circostanza, anche perché, in un momento successivo della mia vita, è capitato pure a me di bloccare il traffico lasciando l'auto in mezzo alla carreggiata per entrare in una pizzeria e prenotare un tavolo per la sera... Morale: anch'io sono stato un allegro conversatore, ma nessun lunatico mi ha tamponato.
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