lunedì 28 gennaio 2013

Weekly blog

In attesa di tempi più propizi, per il momento il blog verrà aggiornato alla media di un post a settimana, ogni mercoledì.
Negli altri giorni potranno comparire messaggi di servizio (tipo questo) o partecipazioni a me.me. e altre iniziative comuni.
Per la settimana corrente però dovrete accontentarvi di una tavola estemporanea del supereroe di noi scribacchini, il grande Writerman.
Appuntamento fissato per il 30 gennaio ;-)

mercoledì 23 gennaio 2013

Strane critiche

All’epoca degli studi universitari ho avuto la possibilità di crearmi una vasta cultura sulla critica letteraria.
Ammetto che non ero un grande appassionato di questo argomento, perciò eviterò di esprimere opinioni serie e mi limiterò a scherzarci sopra, con tante umili scuse a Lukàcs, De Sanctis e tutti gli altri guru di questo particolare settore.
Quello che più mi ha colpito della critica letteraria è stato il tentativo, soprattutto nel XX secolo, di creare un metodo analitico universale, cosa in se stessa condivisibile ma che purtroppo non può prescindere da un aspetto fondamentale della scrittura, ovvero: non è matematica.
Due più due fa quattro, ma due forme retoriche più due rime baciate non necessariamente fanno un capolavoro.
Il critico letterario medio in genere è una persona con un livello culturale estremamente elevato, e forse questo toglie naturalezza al suo approccio con la lettura. Una frase non è più una frase ma un costrutto verbale da smembrare al microscopio, e il critico spesso scorge (o vuole ad ogni costo scorgere) significati nascosti che probabilmente neppure l’autore stesso aveva mai preso in considerazione. Il risultato è che certi saggi critici assomigliano agli studi esegetici sulle profezie di Nostradamus e sono meno appassionanti di un trattato di botanica.
Inoltre la critica non è esente da critiche (scusate, non ho resistito alla tentazione), e talvolta sorgono dispute su un certo autore o una certa opera. La mia tesi di laurea era incentrata sulla raccolta poetica “Astrophel and Stella” del poeta elisabettiano Philip Sidney, e ho dovuto documentarmi. Per il critico Lever, l’io narrativo della raccolta in questione esprime il punto di vista di un “ego moderno” con una sensibilità paragonabile a quella presente nei “Sonetti” di Shakespeare; secondo il critico Lanham invece siamo di fronte a un io narrante assai limitato, con connotati adolescenziali, in nessun modo paragonabile all’io narrante shakespeariano…
Infine, la critica letteraria – al pari della letteratura stessa – è influenzata dal contesto sociale e storico, e il risultato è stato la nascita di certe scuole di pensiero sin troppo vincolate alla loro epoca. Sapevate, ad esempio, che è esistita una critica marxista, che analizzava le opere letterarie basandosi sul presupposto dell’imminente rivoluzione socialista mondiale e considerava gli autori come persone particolarmente sensibili in grado di scorgere i segnali di tale ineluttabile evento? (prescindendo da tale scuola, sappiate che c’è stato chi ha asserito che il romanzo “Controcorrente” di Joris-Karl Huysmans, pietra miliare del decadentismo, in realtà esprima la vergogna di essere borghese e l’auspicio dell’avvento del proletariato… Il fatto che Huysmans abbia poi trovato risposte ai suoi dubbi esistenziali nella fede cattolica è stato stranamente omesso...)
Conclusione di questo post sconclusionato: non criticate i critici e rispettate il loro lavoro. Ma sentitevi liberi di leggere quel che volete leggere e di percepirvi ciò che voi percepite, anche se è limitativo. Se poi volete ampliare le vedute, i saggi di De Sanctis, Lukàcs etc. sono sicuramente disponibili in molte biblioteche.

mercoledì 16 gennaio 2013

Un vecchio lavoretto on line

Quando ancora ero un principiante su internet ho realizzato varie cose per impratichirmi.
Sono pagine web piuttosto scadenti, però ci sono rimasto affezionato e ho rimosso solo quelle improponibili.
Una di quelle che ho mantenuto on line è una sorta di comparazione tra lo stile dei manga e quello delle ukyio-e, le stampe tradizionali giapponesi nate nell'era Tokugawa.
Se qualcuno volesse darci un'occhiata può cliccare QUI.

sabato 12 gennaio 2013

In fondo era questo lo scopo, no?

Come prima cosa voglio ringraziare tutti coloro che si sono interessati ai miei problemi offline. Il loro sostegno mi ha trasmesso un po’ di positività.
Le questioni che mi hanno turbato nei giorni scorsi appartengono, purtroppo, al normale fluire della vita. In genere quando sorge qualche problema nell’ambito famigliare il lavoro diventa una valvola di sfogo, e viceversa. Trovandomi con entrambe le valvole di sfogo intasate, mi sono sentito demoralizzato.
Ho commesso degli errori nella vita, le conseguenze si pagano.
Ma non voglio scrivere un post troppo autoreferenziale, voglio solo dire che in qualche modo continuerò ad aggiornare questo blog come ho sempre fatto: evitando il più possibile riferimenti alla mia vita offline e concentrandomi solo sulle mie attività di scribacchino, di pseudo-traduttore e di erudito dilettante, come se questo blog fosse davvero staccato da tutto il resto.
Lo avevo anche detto in un vecchio post: io in realtà vivo nel 1908 in una torre d’avorio in stile liberty. Questo blog ne è il simbolo.
In fondo era questo lo scopo, no? Avere un angolo virtuale in cui tutto il resto rimane fuori (si fa per dire, perché la vita non è divisa in compartimenti stagni, e se qualcosa mi preoccupa a casa e in ufficio le conseguenze le subisco anche quando mi viene voglia di leggere e scrivere… Letture e scritture annaspano in mezzo ai pensieri, quegli stessi pensieri che la lettura e la scrittura dovrebbero aiutarmi ad accantonare, almeno temporaneamente).
Insomma, fra poco si riprende. Devo solo ritrovare la sensazione, almeno per mezz'ora al giorno, di essere davvero chiuso in una torre dove niente di quel che accade fuori può sfiorarmi. Solo mezz'ora, non di più. Il resto della giornata continuerò a trascorrerlo immerso nelle vicende quotidiane, non fuggirò via, non mi sottrarrò. Il refrain della mia canzone preferita recita I don't want to come back down from this cloud, e non è assolutamente casuale, ma io mi tratterrò sulla nuvola solo il minimo indispensabile, solo per quella benedetta mezz'ora in cui tutto il resto svanisce, restiamo solo io e la mia immaginazione o quella altrui.
Scusate lo sfogo.

mercoledì 9 gennaio 2013

Un tema pittorico ricorrente

Dopo una pausa abbastanza lunga ritorno a postare a proposito di pittura.
Non intendo parlare di un artista specifico ma di un soggetto capace di suscitare la fantasia di una quantità enorme di pittori (alcuni vi si sono cimentati più volte nel corso della loro vita, anche a distanza di parecchi anni).
Le tentazioni di Sant’Antonio Abate, ovvero i tormenti che il demonio avrebbe inflitto all’eremita cristiano vissuto fra il III e il IV secolo D.C., sono l’oggetto di centinaia di quadri, illustrazioni e disegni.
In effetti l’uomo completamente solo, in un luogo deserto, costretto ad affrontare un nemico feroce e subdolo, è un tema archetipo piuttosto stimolante.
Le prime rappresentazioni grafiche delle tentazioni diaboliche di cui è vittima il santo sono assai fedeli ai resoconti del vescovo Atanasio di Alessandria d'Egitto, discepolo di Antonio, che così le descrive:
«Il posto sembrò esser sconquassato da un terremoto, ed i demoni, quasi abbattessero le quattro mura del ricovero sembravano penetrare attraverso esse, ed apparire in forma di bestie e di cose striscianti. Il posto si riempì improvvisamente di forme di leoni, orsi, leopardi, tori, serpenti, aspidi, scorpioni, ed ognuna di esse si muoveva in accordo alla sua natura».
Il pittore istriano Bernardo Parentino (1437-1531) immagina il santo letteralmente aggredito da mostruose figure.


Il visionario pittore olandese Hieronymus Bosch (1450-1516) lo pone al centro di un trittico realizzato nel suo tipico stile: una gigantesca sovrapposizione di immagini grottesche, un’allucinazione mostruosa le cui connotazioni simboliche risultano oscure.


Il fiammingo Joos Van Craesbeeck (1605-1660) sceglie ugualmente un tono grottesco e allucinato, in cui però comincia a prendere forma un accenno psicologico. Le creature che popolano il quadro fuoriescono dalla testa e dalla bocca di una faccia gigante che scruta di sottecchi Sant’Antonio. Un’allusione alla possibile origine onirica delle tentazioni? Un accenno alla possibilità che siano mera fantasia della mente invece di una materiale presenza demoniaca?


L’avanzata dell’umanesimo nel XVIII secolo favorisce questo genere di interpretazione meno sacrale, spingendosi addirittura alla rappresentazione materiale di quella che è, in fondo, la più grande tentazione in cui possa incorrere un uomo che ha fatto voto di castità… La tela del francese Pierre Chasselat (1753-1814) è piuttosto esplicita da questo punto di vista, ma ieratica, e il santo appare in grado di resistere alla sensualità della carne.


Turbamenti più concreti arrivano, inevitabilmente, tra il XIX e il XX secolo. La tentazione erotica non viene più allegorizzata ma rappresentata in modo esplicito. Il nostro Domenico Morelli (1826-1901) sceglie un tono decisamente realistico, compresa l’evidente angoscia di un Sant’Antonio in procinto di cedere all’esca demoniaca.


Il pittore tedesco Lovis Corinth (1858-1925) si spinge oltre e umilia l’eremita sommergendolo sotto un mare di donne lascive di fronte alle quali è in grave affanno.


Il simbolista belga Félicien Rops (1833-1898) abbatte l’ultima barriera, la blasfemia. La sua visione delle tentazioni di Sant’Antonio, pur vecchia di oltre un secolo, appare scandalosa anche ai giorni nostri.


Infine, il surrealismo riporta quasi alle origini le forme rappresentative. Le tentazioni carnali cedono nuovamente il passo a “demoni” che tuttavia non assomigliano a quelli della tradizione ma semmai alle personali ossessioni figurative degli artisti. Le due immagini che concludono questa breve e inevitabilmente superficiale rassegna sono di Max Ernst (1891-1976) e Salvador Dalì (1904-1989).




Chi avesse voglia di approfondire può fare un raffronto con l'interpretazione delle tentazioni di Sant'Antonio dei due Jan Brueghel, di Matthias Grunewald, di Gianbattista Tiepolo, Paul Cézanne, Odilon Redon...
... L'elenco potrebbe essere lunghissimo.

sabato 5 gennaio 2013

Comunicazione di servizio

Causa situazioni spiacevoli di cui avrei volentieri fatto a meno, non so quanto sarò presente nei prossimi giorni.
Ho un post già programmato per la prossima settimana, però, detto con la massima onestà, il blog assomiglierà a un aereo col pilota automatico.
La Befana mi sta per portare una gran quantità di carbone che, probabilmente, servirà a cuocermi a fuoco lento nei prossimi mesi.

giovedì 3 gennaio 2013

Vita materiale e scrittura conseguente

L’influenza biografica nella scrittura è una questione che da noi in genere viene posta nel momento in cui si studia Giacomo Leopardi. Secondo alcuni suoi contemporanei il pessimismo cosmico era frutto delle disgrazie personali del poeta, opinione condivisa anche da alcuni critici letterari vissuti successivamente. Secondo altri invece la visione pessimistica di Leopardi nasce dalla sua straordinaria sensibilità, e i malanni fisici che lo hanno afflitto sin dall’adolescenza hanno soltanto contribuito a fargli sperimentare anticipatamente il decadimento fisico del corpo, esperienza che comunque tocca in sorte a ogni essere umano e che in lui si è condensata in meno di quaranta anni anziché settanta.
Personalmente ritengo che questo tipo di problematica sia secondaria. Vogliamo ipotizzare che un Leopardi in buona salute avrebbe composto poemetti sulla bellezza meravigliosa della vita? Va bene, d’accordo.
Vogliamo immaginare che un Dickens con un’infanzia agiata non avrebbe mai creato i vari David Copperfield e Oliver Twist, ma solo principini felici? E sia, mozione approvata.
Ma secondo me la domanda da porsi è, semmai: le elucubrazioni mentali del poeta recanatese e le storie di miseria del romanziere inglese, hanno una loro ragion d’essere? Hanno attinenza  con l’esperienza umana? Raccontano qualcosa di autentico, quanto meno a livello individuale?
Perché, ecco, la chiave di tutto è proprio la conclusione dell’ultima domanda retorica che ho formulato. L’esperienza è sempre individuale. Ognuno di noi racconta la vita, se stesso, il mondo, la realtà e ogni cosa in base alla propria percezione. Da questo punto di vista ogni individualità è autentica, nonché fine a se stessa. Quando poi tramite la scrittura si esprime tale visione soggettiva, altre persone possono percepire un’assonanza e si crea in tal modo una condivisione, segno evidente che altri esseri umani hanno sperimentato (o continuano a sperimentare) sensazioni simili a quelle provate da Leopardi e Dickens.
Insomma, all’origine di tutto ci sono le esperienze in se stesse, pertanto (per come la vedo io) se Leopardi e Dickens avessero avuto vite diverse e (ipoteticamente) avessero scritto cose differenti, comunque, in qualche altro contesto, sarebbe emersa una figura di pessimista cosmico che - non trovando in letteratura nulla che esprimesse il suo stato d’animo - avrebbe scritto lui qualcosa di simile alla poetica leopardiana. Allo stesso modo ci sarebbe stato un romanziere che, non avendo mai letto storie “dickensiane”, avrebbe deciso lui di narrarle. Persone che nella realtà sono state semplici lettori (o imitatori) dei due letterati, in un contesto privo di opere come “A Silvia” e “Grandi speranze” sarebbero diventati essi stessi i creatori e precursori di certe tematiche, magari con meno talento ma con il risultato di ispirare a loro volta qualcun altro.
Insomma, sarò paradossale ma io capovolgo la questione: le esperienze in se stesse sono la base della letteratura, e la singola persona dotata della giusta sensibilità e capacità narrativa è lo strumento tramite la quale l’esperienza assume forma scritta. Ciò che, ipoteticamente, non fosse stato scritto da Leopardi, o da Dickens, o da qualunque autore, prima o poi sarebbe stato scritto in modo non troppo dissimile da qualcun altro.