É sin troppo noto il pluriennale impegno del Manzoni sul suo libro più famoso per modificarne il testo numerose volte.
Ricordo, a titolo di curiosità letteraria, che anche il poeta Giuseppe Ungaretti ha messo mano alle sue raccolte liriche (già pubblicate) per apportare delle modifiche a distanza di anni, cosicché esistono versioni diverse di certe sue poesie, entrambe "ufficiali" (sia pure appartenenti a epoche diverse della sua vita, quindi lasciando intendere che l'ultima edizione sia quella da considerare definitiva).
Insomma, un testo narrativo o poetico talvolta ha una vita propria che non si esaurisce neppure dopo la prima pubblicazione.
Ancora più mutevole è il suo destino da un punto di vista meramente tipografico. Le edizioni che si susseguono presentano talvolta delle differenze redazionali, ovviamente imputabili all'editore e non all'autore, soprattutto quando quest'ultimo è ormai passato a miglior vita.
Ho potuto constatarlo di persona nei giorni scorsi (anche se nel mio caso sono fortunatamente ancora di questo mondo ;-) quando sono stato contattato da amazon. Come ho già detto in un precedente post, il mio ebook Racconti sensazionali è stato selezionato per il servizio Prime, pertanto è sottoposto a maggiori controlli a livello qualitativo. Nel messaggio ricevuto mi informavano che alcuni lettori avevano segnalato che l'indice digitale era alla fine e non all'inizio del libro, cosa ritenuta alquanto bizzarra. A me è sembrata ancor più bizzarra perché ero certo di non aver inserito alcun indice digitale al testo. In effetti, dopo accurata verifica, è risultato che non si trattava di un indice ma delle note a piè di pagina, che naturalmente devono per forza stare alla fine del libro non potendo comparire prima ancora del testo.
Quindi amazon mi ha informato che il testo era a posto così, non c'era più necessità di modificare nulla. Però questo episodio mi ha fatto riflettere sul fatto che i miei ebook non hanno l'indice digitale. Navigare all'interno di un testo tramite tablet o ereader è estremamente facile, praticamente come sfogliare un cartaceo. Però il lettore che ricorre alle nuove tecnologie vuole magari anche poter disporre di quei requisiti che differenziano l'ebook dal libro stampato.
E quindi, anche se sono opere pubblicate ormai già da diversi anni, ho iniziato a revisionarle per inserire un indice digitale almeno in quelle più vendute. Ho iniziato proprio con Racconti sensazionali (operazione già eseguita da più di una settimana), ho aggiornato l'altro giorno anche Altri racconti sensazionali e nelle prossime settimane spero di poter continuare anche altri miei ebook.
Perché le revisioni al contenuto (e alla forma) di un testo letterario non finiscono mai ;-)
Visualizzazione post con etichetta varie letterarie. Mostra tutti i post
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mercoledì 17 ottobre 2018
sabato 13 maggio 2017
Cose da fare prima di morire
Tranquilli, non voglio proporvi l'ennesima guida - come se ne trovano ormai a decine - sui cento luoghi da visitare, o le cinquanta esperienza da provare, o le quaranta pettinature da sfoggiare prima di morire.
Volevo esporre molto più banalmente una riflessione che mi è passata per la testa l'altro giorno, mentre valutavo l'ipotesi, in vecchiaia, di girare a piedi l'Italia per visitare luoghi suggestivi con un approccio da pellegrino viandante più che da turista.
Questa idea, tutt'altro che facile da realizzare e per ora soggetta a ogni possibile capriccio del destino da qui all'effettivo raggiungimento della vecchiaia (che peraltro andrebbe definita in termini cronologici, considerato che per mia figlia vecchio lo sono già ora :-) in effetti non è spontanea. Mi è stata suggerita un po' di tempo fa dalla lettura de L'angusto sentiero del nord di Matsuo Basho, uno dei poeti più celebri della storia letteraria giapponese, che compì un pellegrinaggio del genere nel suo paese raccontandolo nel libro citato.
E qui la riflessione diventa automatica, poiché la lettura - lo sappiamo bene noi bibliofili - è qualcosa che ti allarga la mente, ti fa vedere possibilità e situazioni che prima non avevi neppure immaginato. E mi sono chiesto chissà quante altre volte ho compiuto delle scelte basandomi inconsciamente sulle decisioni analoghe dei personaggi letterari che più mi avevano appassionato.
Ecco, qui la riflessione diventa una sfida della memoria: cercare nella vita trascorsa azioni compiute su ispirazione letteraria. Ma anche - e questa forse è più semplice - cercare nelle letture spunti suggestivi per cose da fare nella vita materiale (cose mai fatte prima, s'intende).
Il pellegrinaggio da viandante è la prima cosa che metterei in lista. Ma sono certo che ne potrei trovare altre.
E voi, avete mai compiuto delle scelte in passato, o ipotizzato di tentare determinate esperienze in futuro, dopo averle scoperte come lettore?
Volevo esporre molto più banalmente una riflessione che mi è passata per la testa l'altro giorno, mentre valutavo l'ipotesi, in vecchiaia, di girare a piedi l'Italia per visitare luoghi suggestivi con un approccio da pellegrino viandante più che da turista.
Questa idea, tutt'altro che facile da realizzare e per ora soggetta a ogni possibile capriccio del destino da qui all'effettivo raggiungimento della vecchiaia (che peraltro andrebbe definita in termini cronologici, considerato che per mia figlia vecchio lo sono già ora :-) in effetti non è spontanea. Mi è stata suggerita un po' di tempo fa dalla lettura de L'angusto sentiero del nord di Matsuo Basho, uno dei poeti più celebri della storia letteraria giapponese, che compì un pellegrinaggio del genere nel suo paese raccontandolo nel libro citato.
E qui la riflessione diventa automatica, poiché la lettura - lo sappiamo bene noi bibliofili - è qualcosa che ti allarga la mente, ti fa vedere possibilità e situazioni che prima non avevi neppure immaginato. E mi sono chiesto chissà quante altre volte ho compiuto delle scelte basandomi inconsciamente sulle decisioni analoghe dei personaggi letterari che più mi avevano appassionato.
Ecco, qui la riflessione diventa una sfida della memoria: cercare nella vita trascorsa azioni compiute su ispirazione letteraria. Ma anche - e questa forse è più semplice - cercare nelle letture spunti suggestivi per cose da fare nella vita materiale (cose mai fatte prima, s'intende).
Il pellegrinaggio da viandante è la prima cosa che metterei in lista. Ma sono certo che ne potrei trovare altre.
E voi, avete mai compiuto delle scelte in passato, o ipotizzato di tentare determinate esperienze in futuro, dopo averle scoperte come lettore?
martedì 28 marzo 2017
Ancora i sette vizi (ma in chiave letteraria)
Il tema dei sette vizi capitali si presta a ricerche assai più lunghe di quelle necessarie a produrre un semplice post. L'ultimo che ho pubblicato era relativo alla loro interpretazione artistica, ma ci sarebbe molto da dire anche sulla loro presenza in letteratura.
Non potrei mai essere esaustivo (così come non lo sono stato nel post precedente) su un tema così vasto, perciò preciso subito che mi limiterò a elencare alcuni libri che ho letto nei quali ho ravvisato i vizi capitali come elemento narrativo.
Se parliamo di avarizia penso subito al papà di Eugenie Grandet, romanzo di Balzac basato proprio sul folle attaccamento al denaro. Un po' meno allo Scrooge di Canto di natale perché alla fine si redime, mentre il signor Grandet muore avaro e, tutto sommato, compiaciuto di questo suo vizio (che probabilmente lui reputa un pregio).
La lussuria è centrale ne Il piacere di D'Annunzio, ma ha un suo ruolo "sociologico", per così dire, nel provocatorio romanzo di Michel Houellebecq Piattaforma. In effetti la lussuria è forse il più ambiguo tra i peccati capitali perché sono tanti ad avere l'impressione che il cristianesimo sia alquanto sessuofobico.
L'invidia mi fa venire in mente la tragedia Otello. In genere viene associata al dramma della gelosia, però è opportuno rammentare che tutto nasce dalla mortale invidia che Iago prova nei confronti del Moro di Venezia. Penso anche a Shunsuke, lo scrittore brutto di Colori proibiti (uno dei libri più complessi di Yukio Mishima) che nei confronti di chi è bello prova ammirazione, frustrazione e, beh, sì, anche tanta invidia.
Se parliamo di gola la vincitrice può essere solo la simpaticissima protagonista de Il diario di Bridget Jones :-D
Passando all'ira, nei libri che ho letto il personaggio più ferocemente posseduto da tale peccato è Silvio Astier, la voce narrante de Il giocattolo rabbioso di Roberto Arlt. É un giovane che non accetta la propria povertà e dunque soffre ovviamente anche di invidia verso i ricchi (d'altronde le emozioni, come pure le attitudini umane, non sono mai univoche ma sempre composte e mescolate con altre) però ciò che maggiormente emerge dai suoi soliloqui e dai suoi gesti materiali è la rabbia, una rabbia che lo divora.
Come esempio di superbia mi viene in mente Raskolnikov, che si arroga addirittura il diritto di uccidere in Delitto e castigo. D'altronde Dostoevskj ha saputo tratteggiare benissimo anche l'invidia e l'ira nel personaggio principale di Memorie dal sottosuolo. Un'altro personaggio malato di superbia che ho incontrato nelle mie letture è l'indimenticabile capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville.
Sempre a proposito di Melville, il suo Bartleby lo scrivano è uno dei più riusciti casi di accidia letteraria che io abbia mai letto. Penso inoltre a Slimak, personaggio principale de L'avamposto di Boleslaw Prus. E me ne potrebbero venire in mente altri poiché - devo ammetterlo - i personaggi accidiosi sono quelli che maggiormente mi intrigano, forse perché anch'io sono afflitto da tale vizio...
Chiunque abbia altre proposte è il benvenuto :-)
Non potrei mai essere esaustivo (così come non lo sono stato nel post precedente) su un tema così vasto, perciò preciso subito che mi limiterò a elencare alcuni libri che ho letto nei quali ho ravvisato i vizi capitali come elemento narrativo.
Se parliamo di avarizia penso subito al papà di Eugenie Grandet, romanzo di Balzac basato proprio sul folle attaccamento al denaro. Un po' meno allo Scrooge di Canto di natale perché alla fine si redime, mentre il signor Grandet muore avaro e, tutto sommato, compiaciuto di questo suo vizio (che probabilmente lui reputa un pregio).
La lussuria è centrale ne Il piacere di D'Annunzio, ma ha un suo ruolo "sociologico", per così dire, nel provocatorio romanzo di Michel Houellebecq Piattaforma. In effetti la lussuria è forse il più ambiguo tra i peccati capitali perché sono tanti ad avere l'impressione che il cristianesimo sia alquanto sessuofobico.
L'invidia mi fa venire in mente la tragedia Otello. In genere viene associata al dramma della gelosia, però è opportuno rammentare che tutto nasce dalla mortale invidia che Iago prova nei confronti del Moro di Venezia. Penso anche a Shunsuke, lo scrittore brutto di Colori proibiti (uno dei libri più complessi di Yukio Mishima) che nei confronti di chi è bello prova ammirazione, frustrazione e, beh, sì, anche tanta invidia.
Se parliamo di gola la vincitrice può essere solo la simpaticissima protagonista de Il diario di Bridget Jones :-D
Passando all'ira, nei libri che ho letto il personaggio più ferocemente posseduto da tale peccato è Silvio Astier, la voce narrante de Il giocattolo rabbioso di Roberto Arlt. É un giovane che non accetta la propria povertà e dunque soffre ovviamente anche di invidia verso i ricchi (d'altronde le emozioni, come pure le attitudini umane, non sono mai univoche ma sempre composte e mescolate con altre) però ciò che maggiormente emerge dai suoi soliloqui e dai suoi gesti materiali è la rabbia, una rabbia che lo divora.
Come esempio di superbia mi viene in mente Raskolnikov, che si arroga addirittura il diritto di uccidere in Delitto e castigo. D'altronde Dostoevskj ha saputo tratteggiare benissimo anche l'invidia e l'ira nel personaggio principale di Memorie dal sottosuolo. Un'altro personaggio malato di superbia che ho incontrato nelle mie letture è l'indimenticabile capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville.
Sempre a proposito di Melville, il suo Bartleby lo scrivano è uno dei più riusciti casi di accidia letteraria che io abbia mai letto. Penso inoltre a Slimak, personaggio principale de L'avamposto di Boleslaw Prus. E me ne potrebbero venire in mente altri poiché - devo ammetterlo - i personaggi accidiosi sono quelli che maggiormente mi intrigano, forse perché anch'io sono afflitto da tale vizio...
Chiunque abbia altre proposte è il benvenuto :-)
sabato 11 febbraio 2017
Città letterarie fittizie - 3
Dopo le città reali e quelle camuffate, un'altra tipologia di centri urbani letterari è quella degli interamente fittizi: luoghi per i quali non è neppure possibile tracciare un parallelo con possibili modelli di ispirazione concreti.
Identificare questa tipologia di città letterarie è semplice quando si fa riferimento a narrativa fantasy o fantascientifica: è evidente che Minas Tirith o Robot City sono completamente immaginarie. É possibile che Tolkien si sia ispirato alla ricostruzione storica di un'antiche urbe o che Asimov abbia preso spunto da elaborazioni architettoniche con ipotetici sviluppi futuri delle grandi metropoli, però non ci può essere alcun tipo di identificazione con luoghi esistenti.
Il discorso è più problematico quando la città fittizia ha connotati realistici. La Castle Rock che fa da sfondo a numerose opere di Stephen King si trova nel Maine, proprio come la sua nativa Portland. Però la piccola città letteraria ha i connotati generici di tante towns americane disseminate nei giganteschi sobborghi delle metropoli. Città camuffata o interamente immaginaria?
Anche Clanton in Mississippi - set di alcuni romanzi di John Grisham - pur ispirandosi chiaramente a certe contee del grande sud americano ha dei connotati indefiniti, probabilmente perché le tensioni razziali narrate dall'autore sono particolarmente gravi cosicché ha preferito evitare un'identificazione troppo esplicita con un luogo reale perché avrebbe potuto incorrere in polemiche che è sempre preferibile evitare.
La Warlock di Oakley Hall è invece generica solo perché l'autore, dovendo immaginare una città di frontiera del selvaggio ovest americano, ha preso spunto dalle numerose opere di letteratura western di fine ottocento, e le città presenti in tali opere si erano ormai evolute in centri urbani moderni senza alcun retaggio dei vecchi saloon, case in legno e ufficio dello sceriffo.
Connotati generici ha anche Dunwich, una delle numerose fictional towns create da H. P. Lovecraft. Mentre altre località immaginarie che compaiono nelle sue opere possono essere ricondotte, nei loro aspetti generali, a città realmente esistenti (ad esempio l'onnipresente Arkham sembrerebbe proprio Providence, residenza dell'autore) la sperduta Dunwich presenta gli aspetti tipici delle comunità dei cosiddetti hillbillies, diffuse soprattutto nella zona dei monti Appalachi, ma senza un legame evidente con località reali. D'altronde gli stereotipi associati agli hillbillies sono decisamente offensivi (l'americano medio li considera montanari aggressivi, rozzi, semi-analfabeti e ostili al progresso) ed essendo in parte riscontrabili nei personaggi di Dunwich inventati da Lovecraft , è stato assai opportuno che l'autore evitasse riferimenti troppo espliciti a comunità realmente esistenti.
Per identiche ragioni il letterato spagnolo Ramòn del Valle-Inclan ha creato la città immaginaria di Santa Fe de Tierra Firme, capitale della nazione omonima. Il suo romanzo Tirano Banderas parla infatti di un ipotetico dittatore sudamericano e ricorre a stereotipi tipici sui latinoamericani, quindi ha preferito tratteggiare in modo confuso e indefinito lo stato in cui si svolge la vicenda.
Rinnovo la stessa domanda dei post precedenti: avete qualche altro nome da menzionare per arricchire questa lista?
Identificare questa tipologia di città letterarie è semplice quando si fa riferimento a narrativa fantasy o fantascientifica: è evidente che Minas Tirith o Robot City sono completamente immaginarie. É possibile che Tolkien si sia ispirato alla ricostruzione storica di un'antiche urbe o che Asimov abbia preso spunto da elaborazioni architettoniche con ipotetici sviluppi futuri delle grandi metropoli, però non ci può essere alcun tipo di identificazione con luoghi esistenti.
Il discorso è più problematico quando la città fittizia ha connotati realistici. La Castle Rock che fa da sfondo a numerose opere di Stephen King si trova nel Maine, proprio come la sua nativa Portland. Però la piccola città letteraria ha i connotati generici di tante towns americane disseminate nei giganteschi sobborghi delle metropoli. Città camuffata o interamente immaginaria?
Anche Clanton in Mississippi - set di alcuni romanzi di John Grisham - pur ispirandosi chiaramente a certe contee del grande sud americano ha dei connotati indefiniti, probabilmente perché le tensioni razziali narrate dall'autore sono particolarmente gravi cosicché ha preferito evitare un'identificazione troppo esplicita con un luogo reale perché avrebbe potuto incorrere in polemiche che è sempre preferibile evitare.
La Warlock di Oakley Hall è invece generica solo perché l'autore, dovendo immaginare una città di frontiera del selvaggio ovest americano, ha preso spunto dalle numerose opere di letteratura western di fine ottocento, e le città presenti in tali opere si erano ormai evolute in centri urbani moderni senza alcun retaggio dei vecchi saloon, case in legno e ufficio dello sceriffo.
Connotati generici ha anche Dunwich, una delle numerose fictional towns create da H. P. Lovecraft. Mentre altre località immaginarie che compaiono nelle sue opere possono essere ricondotte, nei loro aspetti generali, a città realmente esistenti (ad esempio l'onnipresente Arkham sembrerebbe proprio Providence, residenza dell'autore) la sperduta Dunwich presenta gli aspetti tipici delle comunità dei cosiddetti hillbillies, diffuse soprattutto nella zona dei monti Appalachi, ma senza un legame evidente con località reali. D'altronde gli stereotipi associati agli hillbillies sono decisamente offensivi (l'americano medio li considera montanari aggressivi, rozzi, semi-analfabeti e ostili al progresso) ed essendo in parte riscontrabili nei personaggi di Dunwich inventati da Lovecraft , è stato assai opportuno che l'autore evitasse riferimenti troppo espliciti a comunità realmente esistenti.
Per identiche ragioni il letterato spagnolo Ramòn del Valle-Inclan ha creato la città immaginaria di Santa Fe de Tierra Firme, capitale della nazione omonima. Il suo romanzo Tirano Banderas parla infatti di un ipotetico dittatore sudamericano e ricorre a stereotipi tipici sui latinoamericani, quindi ha preferito tratteggiare in modo confuso e indefinito lo stato in cui si svolge la vicenda.
Rinnovo la stessa domanda dei post precedenti: avete qualche altro nome da menzionare per arricchire questa lista?
lunedì 6 febbraio 2017
Città letterarie in incognito - 2
Come avevo detto nel precedente post l'argomento delle città letterarie si presta a numerosi spunti.
Uno di questi riguarda i luoghi camuffati. Perché oltre alle città reali nelle opere letterarie compaiono spesso nomi di paesi e metropoli fittizi dietro i quali però si nascondono luoghi esistenti.
Dissipatio HG di Guido Morselli è un romanzo a metà strada fra fanta-apocalittico e introspettivo, un lungo monologo dell'autore in cui ogni luogo sembra virtuale e avente uno scopo esclusivamente funzionale per l'esposizione dei ragionamenti/deliri della voce narrante. Però è stato notato che la spettrale città senza più esseri umani chiamata Crisopoli ha i riconoscibili connotati di Zurigo.
Stando in contesti narrativi più realistici, le mappe dello stato americano dell'Ohio riportano l'esistenza di una sperduta località chiamata Winesburg, che tuttavia non è quella che ha dato vita all'omonima raccolta di racconti dello scrittore Sherwood Anderson. Il vero palcoscenico dei suoi personaggi è la cittadina di Clyde, che però l'autore ha preferito nascondere dietro un altro nome forse per evitare che qualche abitante si riconoscesse in uno dei protagonisti.
Parlando invece di un caso nostrano, le umoristiche vicende che contrappongono il prete democristiano Don Camillo e il sindaco comunista Giuseppe "Peppone" Bottazzi sono ambientate nell'inesistente paesino di Ponteratto, nel cuore della bassa padana. Ma le descrizioni di Giovannino Guareschi e ancor più la serie di film ispirati alla collana di romanzi lasciano intendere che si tratti invece di Brescello, comune emiliano tutt'altro che immaginario. L'identificazione è stata talmente forte che a Brescello hanno addirittura creato il Museo di Don Camillo e Peppone.
Una serie di gialli di successo, quella arcinota del commissario Montalbano nato dalla penna di Andrea Camilleri, è a sua volta ambientata in un luogo camuffato. La città di Vigàta che fa da sfondo alla sue indagini è fittizia, ma ha dei connotati che la identificano con Porto Empedocle, sebbene lo scrittore siciliano ci tenga a sottolineare che si tratta comunque di un luogo ideale e non reale.
Anche la stazione di villeggiatura di Balbec, uno dei luoghi più frequentati dai personaggi de Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, in effetti non esiste. Però sono state riscontrate sin troppe similitudini con la città costiera di Cabourg, località marittima della Normandia che l'autore conosceva bene.
Persino un luogo letterario apparentemente mitico quale la Macondo che compare in diversi romanzi di Gabriel Garcìa Màrquez nasconderebbe in effetti una città esistente, ovvero Aracataca (che d'altronde ha dato i natali allo scrittore colombiano). Nel 2004 un comitato locale avanzò la proposta di cambiare nome al comune dandogli quello inventato da Màrquez, ma non se ne fece nulla.
Un'operazione del genere è andata invece a buon fine in Francia, sempre con riferimento all'opera di Marcel Proust. I ricordi del protagonista de Alla ricerca del tempo perduto lo portano spesso a Combray, paesino immaginario ma ispirato a Illiers, un piccolo borgo nella regione della Loira in cui lo scrittore trascorreva l'estate durante l'infanzia. Nel 1971, in occasione del centenario della nascita di Proust, il paese venne ribattezzato Illiers-Combray, unendo il nome storico con quello della trasposizione letteraria.
In questo post non ho fatto riferimento alle città letterarie totalmente immaginarie, ovvero quelle non ispirate a nessun luogo in particolare ma create in modo esclusivo dalla fantasia dell'autore. Forse ne parlerò fra qualche giorno ;-)
Restando invece nell'ambito delle città camuffate, vi vengono in mente altre metropoli, paesi, villaggi o borghi letterari inesistenti che però si ispirano chiaramente a luoghi reali?
Uno di questi riguarda i luoghi camuffati. Perché oltre alle città reali nelle opere letterarie compaiono spesso nomi di paesi e metropoli fittizi dietro i quali però si nascondono luoghi esistenti.
Dissipatio HG di Guido Morselli è un romanzo a metà strada fra fanta-apocalittico e introspettivo, un lungo monologo dell'autore in cui ogni luogo sembra virtuale e avente uno scopo esclusivamente funzionale per l'esposizione dei ragionamenti/deliri della voce narrante. Però è stato notato che la spettrale città senza più esseri umani chiamata Crisopoli ha i riconoscibili connotati di Zurigo.
Stando in contesti narrativi più realistici, le mappe dello stato americano dell'Ohio riportano l'esistenza di una sperduta località chiamata Winesburg, che tuttavia non è quella che ha dato vita all'omonima raccolta di racconti dello scrittore Sherwood Anderson. Il vero palcoscenico dei suoi personaggi è la cittadina di Clyde, che però l'autore ha preferito nascondere dietro un altro nome forse per evitare che qualche abitante si riconoscesse in uno dei protagonisti.
Parlando invece di un caso nostrano, le umoristiche vicende che contrappongono il prete democristiano Don Camillo e il sindaco comunista Giuseppe "Peppone" Bottazzi sono ambientate nell'inesistente paesino di Ponteratto, nel cuore della bassa padana. Ma le descrizioni di Giovannino Guareschi e ancor più la serie di film ispirati alla collana di romanzi lasciano intendere che si tratti invece di Brescello, comune emiliano tutt'altro che immaginario. L'identificazione è stata talmente forte che a Brescello hanno addirittura creato il Museo di Don Camillo e Peppone.
Una serie di gialli di successo, quella arcinota del commissario Montalbano nato dalla penna di Andrea Camilleri, è a sua volta ambientata in un luogo camuffato. La città di Vigàta che fa da sfondo alla sue indagini è fittizia, ma ha dei connotati che la identificano con Porto Empedocle, sebbene lo scrittore siciliano ci tenga a sottolineare che si tratta comunque di un luogo ideale e non reale.
Anche la stazione di villeggiatura di Balbec, uno dei luoghi più frequentati dai personaggi de Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, in effetti non esiste. Però sono state riscontrate sin troppe similitudini con la città costiera di Cabourg, località marittima della Normandia che l'autore conosceva bene.
Persino un luogo letterario apparentemente mitico quale la Macondo che compare in diversi romanzi di Gabriel Garcìa Màrquez nasconderebbe in effetti una città esistente, ovvero Aracataca (che d'altronde ha dato i natali allo scrittore colombiano). Nel 2004 un comitato locale avanzò la proposta di cambiare nome al comune dandogli quello inventato da Màrquez, ma non se ne fece nulla.
Un'operazione del genere è andata invece a buon fine in Francia, sempre con riferimento all'opera di Marcel Proust. I ricordi del protagonista de Alla ricerca del tempo perduto lo portano spesso a Combray, paesino immaginario ma ispirato a Illiers, un piccolo borgo nella regione della Loira in cui lo scrittore trascorreva l'estate durante l'infanzia. Nel 1971, in occasione del centenario della nascita di Proust, il paese venne ribattezzato Illiers-Combray, unendo il nome storico con quello della trasposizione letteraria.
In questo post non ho fatto riferimento alle città letterarie totalmente immaginarie, ovvero quelle non ispirate a nessun luogo in particolare ma create in modo esclusivo dalla fantasia dell'autore. Forse ne parlerò fra qualche giorno ;-)
Restando invece nell'ambito delle città camuffate, vi vengono in mente altre metropoli, paesi, villaggi o borghi letterari inesistenti che però si ispirano chiaramente a luoghi reali?
mercoledì 1 febbraio 2017
Città letterarie - 1
Le città sono spesso lo scenario in cui si muovono i personaggi delle opere di narrativa. Il fenomeno della grande urbanizzazione, col conseguente spopolamento delle campagne, è una dinamica sociale ormai in corso da due secoli. La letteratura è ispirata dalla vita e indaga sull'umanità, quindi laddove quest'ultima è più densa si sviluppa maggiormente il desiderio di raccontarla. Inoltre i luoghi di cultura - università, teatri, biblioteche, musei - tendono a concentrarsi nell'urbe, che pertanto attira nel proprio grembo anche i campagnoli e i provinciali con vocazione letteraria.
Certe gigantesche metropoli che sono idealmente la testa e il cuore della loro nazione di appartenenza - Londra, Parigi, Dublino, Tokyo, Buenos Aires - diventano un palcoscenico quasi inevitabile per gli scrittori di quei paesi. Le loro strade, piazze, monumenti e luoghi di ritrovo fanno da sfondo alle opere di centinaia di romanzieri.
In alcuni casi è nata una vera e propria simbiosi fra certe città e degli autori specifici che vi hanno ambientato i propri libri. Quasi tutti gli autori irlandesi raccontano vicende che accadono a Dublino, ma si tende a considerare James Joyce come il vero creatore della Dublino letteraria. Il 16 giugno di ogni anno lo scrittore viene commemorato con il Bloomsday (nome ispirato a Leopold Bloom, il protagonista del romanzo Ulisse) e nella città si tengono discorsi, seminari, letture e rievocazioni a lui dedicate.
Allo stesso modo, Londra è probabilmente la città più (concedetemi il neologismo) letterarizzata del mondo, tuttavia nell'immaginario collettivo il mito romanzesco della capitale inglese viene spesso associato a Charles Dickens (ma gli appassionati di libri gialli mettono al primo posto la Londra di Arthur Conan Doyle).
Nella nostra era caratterizzata dalla globalizzazione può capitare che il successo di un libro determini un improvviso interesse per la città o per il quartiere protagonista del best seller. Istanbul non è certo una città poco nota ed è da decenni un'importante meta turistica, però è indubbio che l'omonimo libro a lei dedicato dal suo celebre cittadino Orhan Pamuk abbia contribuito a far crescere la voglia di visitarla.
La trasformazione di una città in luogo mitico letterario è in genere motivo di orgoglio per i suoi residenti, ma può anche capitare il contrario.
Edimburgo, e più specificamente il quartiere di Leith, sono il palcoscenico in cui Irvine Welsh narra le gesta dei numerosi personaggi ricorrenti che compaiono in Trainspotting, Il lercio, Porno e Skagboys. Molti abitanti della capitale scozzese hanno poco gradito (eufemismo) l'immagine che ne viene data, chissà perché ;-)
E l'Italia?
Nel nostro paese non c'è una metropoli che prevalga in modo assoluto su tutte, infatti credo che sarebbe difficile stabilire se vi sono più romanzi ambientati a Roma, Milano, Napoli o anche in altre città meno grandi ma notissime quali Firenze e Venezia.
Per motivi di vicinanza geografica io sono particolarmente interessato a Roma, e ammetto che mi fa un certo effetto leggere narrativa di fine ottocento con discorsi fra raffinati personaggi dannunziani che si danno appuntamento a Trinità dei Monti, o dove la voce narrante di Pirandello colloca una certa vicenda in Via del Corso. Ho persino trovato citata Tordinona (però ancora nella forma estesa Torre di Nona) nei licenziosi Ragionamenti di Pietro Aretino scritti nel XVI secolo.
Ma l'argomento è vasto e si presta a altri spunti di discussione che preferisco suddividere in più post che seguiranno nei prossimi giorni.
E per voi qual è la versione letteraria di una grande città che vi ha maggiormente sedotto come lettori?
Certe gigantesche metropoli che sono idealmente la testa e il cuore della loro nazione di appartenenza - Londra, Parigi, Dublino, Tokyo, Buenos Aires - diventano un palcoscenico quasi inevitabile per gli scrittori di quei paesi. Le loro strade, piazze, monumenti e luoghi di ritrovo fanno da sfondo alle opere di centinaia di romanzieri.
In alcuni casi è nata una vera e propria simbiosi fra certe città e degli autori specifici che vi hanno ambientato i propri libri. Quasi tutti gli autori irlandesi raccontano vicende che accadono a Dublino, ma si tende a considerare James Joyce come il vero creatore della Dublino letteraria. Il 16 giugno di ogni anno lo scrittore viene commemorato con il Bloomsday (nome ispirato a Leopold Bloom, il protagonista del romanzo Ulisse) e nella città si tengono discorsi, seminari, letture e rievocazioni a lui dedicate.
Allo stesso modo, Londra è probabilmente la città più (concedetemi il neologismo) letterarizzata del mondo, tuttavia nell'immaginario collettivo il mito romanzesco della capitale inglese viene spesso associato a Charles Dickens (ma gli appassionati di libri gialli mettono al primo posto la Londra di Arthur Conan Doyle).
Nella nostra era caratterizzata dalla globalizzazione può capitare che il successo di un libro determini un improvviso interesse per la città o per il quartiere protagonista del best seller. Istanbul non è certo una città poco nota ed è da decenni un'importante meta turistica, però è indubbio che l'omonimo libro a lei dedicato dal suo celebre cittadino Orhan Pamuk abbia contribuito a far crescere la voglia di visitarla.
La trasformazione di una città in luogo mitico letterario è in genere motivo di orgoglio per i suoi residenti, ma può anche capitare il contrario.
Edimburgo, e più specificamente il quartiere di Leith, sono il palcoscenico in cui Irvine Welsh narra le gesta dei numerosi personaggi ricorrenti che compaiono in Trainspotting, Il lercio, Porno e Skagboys. Molti abitanti della capitale scozzese hanno poco gradito (eufemismo) l'immagine che ne viene data, chissà perché ;-)
E l'Italia?
Nel nostro paese non c'è una metropoli che prevalga in modo assoluto su tutte, infatti credo che sarebbe difficile stabilire se vi sono più romanzi ambientati a Roma, Milano, Napoli o anche in altre città meno grandi ma notissime quali Firenze e Venezia.
Per motivi di vicinanza geografica io sono particolarmente interessato a Roma, e ammetto che mi fa un certo effetto leggere narrativa di fine ottocento con discorsi fra raffinati personaggi dannunziani che si danno appuntamento a Trinità dei Monti, o dove la voce narrante di Pirandello colloca una certa vicenda in Via del Corso. Ho persino trovato citata Tordinona (però ancora nella forma estesa Torre di Nona) nei licenziosi Ragionamenti di Pietro Aretino scritti nel XVI secolo.
Ma l'argomento è vasto e si presta a altri spunti di discussione che preferisco suddividere in più post che seguiranno nei prossimi giorni.
E per voi qual è la versione letteraria di una grande città che vi ha maggiormente sedotto come lettori?
venerdì 27 gennaio 2017
Letterati citati nel titolo di opere altrui
I letterati più celebri compaiono talvolta nei titoli di opere scritte da altri letterati vissuti in epoche successive.
Capita soprattutto quando l'opera è incentrata proprio sull'autore citato che ne è addirittura protagonista.
Attenzione: non mi riferisco alle biografie, ma a opere di narrativa pura nelle quali un certo letterato famoso diventa un personaggio lui stesso, protagonista di eventi che ha realmente vissuto o che sono frutto dell'immaginazione di colui che ha scelto tale espediente narrativo. Fornisco due esempi per chiarire.
L'opera teatrale Shakespeare in love di Lee Hall (ispirata dal film omonimo sceneggiato da Tom Stoppard) racconta una storia d'amore del bardo inglese totalmente inventata e priva di qualunque riscontro storico (che peraltro sono in generale assai pochi per il misterioso William). Invece il grazioso libro per ragazzi Kafka e la bambola viaggiatrice di Jordi Sierra-i-Fabra si ispira a un fatto documentato della vita dello scrittore praghese.
Carlo Goldoni, commediografo italiano amatissimo dai suoi contemporanei, divenne talmente famoso che nei decenni successivi alla sua scomparsa divenne il personaggio principale di numerose pièces teatrali di autori che ammiravano la sua opera. Così, per dire, nel 1851 Paolo Ferrari ne fece il protagonista di (appunto) Goldoni e le sue sedici commedie nuove, mentre il veneto Libero Pilotto nel 1880 mise in scena una rappresentazione in dialetto intitolata Un amoreto de Goldoni a Feltre (ma l'elenco delle commedie in cui l'autore Goldoni diventa il personaggio Goldoni è davvero lungo).
Può però capitare che l'autore citato nel titolo sia solo una presenza aleatoria.
Il dramma di Edward Albee intitolato Chi ha paura di Virginia Woolf? ha come protagonisti due coppie di mezza età i cui rapporti coniugali vanno in crisi. La scrittrice inglese viene evocata nel titolo solo come figura inquietante, per così dire, perché rammenta tragicamente l'immagine di una donna intellettuale con propositi suicidi nonostante una vita brillante e un matrimonio apparentemente privo di problemi.
Non ho idea del perché lo scrittore italiano Giordano Tedoldi abbia dato alla sua raccolta di racconti il titolo Odio John Updike, ma sicuramente il romanziere americano non compare fra i personaggi del libro e la citazione del suo nome è funzionale alla narrazione sotto altri punti di vista.
Conoscete altri esempi di titoli di romanzi (non biografie) che citano autori famosi?
Capita soprattutto quando l'opera è incentrata proprio sull'autore citato che ne è addirittura protagonista.
Attenzione: non mi riferisco alle biografie, ma a opere di narrativa pura nelle quali un certo letterato famoso diventa un personaggio lui stesso, protagonista di eventi che ha realmente vissuto o che sono frutto dell'immaginazione di colui che ha scelto tale espediente narrativo. Fornisco due esempi per chiarire.
L'opera teatrale Shakespeare in love di Lee Hall (ispirata dal film omonimo sceneggiato da Tom Stoppard) racconta una storia d'amore del bardo inglese totalmente inventata e priva di qualunque riscontro storico (che peraltro sono in generale assai pochi per il misterioso William). Invece il grazioso libro per ragazzi Kafka e la bambola viaggiatrice di Jordi Sierra-i-Fabra si ispira a un fatto documentato della vita dello scrittore praghese.
Carlo Goldoni, commediografo italiano amatissimo dai suoi contemporanei, divenne talmente famoso che nei decenni successivi alla sua scomparsa divenne il personaggio principale di numerose pièces teatrali di autori che ammiravano la sua opera. Così, per dire, nel 1851 Paolo Ferrari ne fece il protagonista di (appunto) Goldoni e le sue sedici commedie nuove, mentre il veneto Libero Pilotto nel 1880 mise in scena una rappresentazione in dialetto intitolata Un amoreto de Goldoni a Feltre (ma l'elenco delle commedie in cui l'autore Goldoni diventa il personaggio Goldoni è davvero lungo).
Può però capitare che l'autore citato nel titolo sia solo una presenza aleatoria.
Il dramma di Edward Albee intitolato Chi ha paura di Virginia Woolf? ha come protagonisti due coppie di mezza età i cui rapporti coniugali vanno in crisi. La scrittrice inglese viene evocata nel titolo solo come figura inquietante, per così dire, perché rammenta tragicamente l'immagine di una donna intellettuale con propositi suicidi nonostante una vita brillante e un matrimonio apparentemente privo di problemi.
Non ho idea del perché lo scrittore italiano Giordano Tedoldi abbia dato alla sua raccolta di racconti il titolo Odio John Updike, ma sicuramente il romanziere americano non compare fra i personaggi del libro e la citazione del suo nome è funzionale alla narrazione sotto altri punti di vista.
Conoscete altri esempi di titoli di romanzi (non biografie) che citano autori famosi?
venerdì 8 aprile 2016
Una notizia letteraria, un premio e un dubbio
La notizia è quella già ampiamente enfatizzata nei giorni scorsi dai mass media (un esempio lo trovate sul sito dell'Ansa): fra le ventisette opere di narrativa candidate a formare la rosa dei dodici che poi si contenderanno il prestigioso premio letterario Strega, per la prima volta compare un testo il cui editore è Amazon. Insomma, un self-publishing.
Il premio è - appunto - quello citato, una delle più vetuste istituzioni culturali dell'Italia repubblicana.
Il dubbio riguarda il valore da attribuire a questo fatto. É un segnale che l'establishment letterario nazionale ha finalmente riconosciuto il valore dell'auto-pubblicazione? O forse, se si vuole pensare male, non è cambiato assolutamente niente e questa inclusione fra i papabili è puro folklore?
Perché in effetti, per chi non lo sapesse, per poter entrare a far parte della sporca dozzina che può permettersi di sognare la vittoria dello Strega occorre essere 'presentati' da due persone appartenenti al gruppo che gestisce e organizza il premio, i cosiddetti amici della domenica, secondo quanto previsto dall'articolo 1 del regolamento di votazione.
Quindi, affermare come fa il quotidiano La Stampa che "Il self publishing di Amazon debutta tra i candidati al Premio Strega" mi pare eccessivo.
La notizia è, piuttosto, che due 'amici della domenica' hanno presentato un libro ai loro amici che decideranno chi deve vincere il premio tra tutti quelli presentati da altri amici degli amici.
Ecco, così suona molto più realisticamente italiano.
Il premio è - appunto - quello citato, una delle più vetuste istituzioni culturali dell'Italia repubblicana.
Il dubbio riguarda il valore da attribuire a questo fatto. É un segnale che l'establishment letterario nazionale ha finalmente riconosciuto il valore dell'auto-pubblicazione? O forse, se si vuole pensare male, non è cambiato assolutamente niente e questa inclusione fra i papabili è puro folklore?
Perché in effetti, per chi non lo sapesse, per poter entrare a far parte della sporca dozzina che può permettersi di sognare la vittoria dello Strega occorre essere 'presentati' da due persone appartenenti al gruppo che gestisce e organizza il premio, i cosiddetti amici della domenica, secondo quanto previsto dall'articolo 1 del regolamento di votazione.
Quindi, affermare come fa il quotidiano La Stampa che "Il self publishing di Amazon debutta tra i candidati al Premio Strega" mi pare eccessivo.
La notizia è, piuttosto, che due 'amici della domenica' hanno presentato un libro ai loro amici che decideranno chi deve vincere il premio tra tutti quelli presentati da altri amici degli amici.
Ecco, così suona molto più realisticamente italiano.
lunedì 4 aprile 2016
Letterati suicidi - seconda parte
Come dicevo nel post precedente i motivi di un suicidio sono fondamentalmente lo stato di depressione causato da turbe mentali o da mortificanti delusioni o dalla scomparsa di una persona amata, oppure il rifiuto di affrontare qualche grave malattia e la vecchiaia, o ancora una via di fuga estrema per evitare di assistere al proprio pubblico ludibrio o di essere arrestati o uccisi.
Nel caso di Yukio Mishima (1925-1970) l'impressione è che si sia trattato piuttosto della volontà di concludere la propria esistenza in modo spettacolare (sul piano individualistico) e di lasciare un messaggio al suo paese (sul piano storico e sociale). Il suicidio si svolse dopo un teatrale tentativo di aizzare i soldati di una caserma a compiere un colpo di stato contro il Giappone molle e politicamente sottomesso agli Stati Uniti del dopo guerra. Lo scrittore, insieme ad alcuni suoi seguaci coi quali aveva fondato un'associazione paramilitare, dopo aver arringato inutilmente le truppe regolari della caserma si tolse la vita compiendo un seppuku, il suicidio rituale dei samurai, come richiamo agli antichi valori del suo paese e come forma di protesta contro il governo.
Come è stato notato da molti studiosi del letterato giapponese, numerosi dettagli lasciano pensare che quel gesto fosse accuratamente pianificato da circa un anno. Egli sapeva che il suo improbabile colpo di stato non aveva alcuna speranza di riuscita e le sue motivazioni erano di natura "estetica" per così dire: morire nobilmente come un antico samurai dopo aver compiuto il proprio dovere. Una frase scritta su un biglietto il giorno in cui compì questo gesto è assai significativa, quantunque ambigua:
La vita umana è limitata, ma io vorrei vivere per sempre.
"Vivere per sempre" entrando nella Storia? E quale modo migliore se non compiere un gesto clamoroso di grande risonanza mediatica, più ancora che grazie alla sua fama letteraria? Ecco, forse nel caso dello scrittore giapponese la scelta di darsi la morte segue una logica "artistica" anziché esistenziale. Come ulteriore conferma è opportuno notare che Yukio Mishima aveva già messo in scena il proprio seppuku. Nel 1966 aveva infatti girato con alcuni amici un breve film ispirato a uno dei suoi racconti, Patriottismo, in cui il protagonista, un ufficiale, si toglie la vita per motivi di onore e rispetto verso i propri commilitoni che hanno appena tentato un fallito colpo di stato (coincidenza sospetta, non è vero?) Lo scrittore stesso recita in tale cortometraggio impersonando il personaggio principale e la sequenza del suicidio rituale, pur essendo estremamente realistica, è grondante di febbrile esaltazione (se vi interessa, l'intero filmino è visibile su youtube).
Un altro scrittore giapponese, Osamu Dazai (1909-1948), ha vissuto l'intera sua vita adulta cercando di togliersela. La sua biografia denota costanti comportamenti autodistruttivi, abuso di alcolici e medicinali, cure psichiatriche e cinque tentativi di suicidio in vent'anni, quattro dei quali evidentemente falliti.
Ancora più inquietante è il fatto che in tre occasioni convinse le sue compagne occasionali (anche la sua vita sentimentale fu alquanto disordinata) a condividere il gesto. Fu così che Shimeko Tanabe morì annegata nel 1930 mentre Dazai venne salvato da alcuni pescatori. Hatsuyo Oyama, sua moglie, si salvò invece dall'avvelenamento volontario da medicinali che lo scrittore aveva progettato per entrambi (si salvò anche lui in effetti, e ciò lascia presupporre un ripensamento dei coniugi, o più verosimilmente della sola Hatsuyo) mentre nell'ultimo e riuscito tentativo di darsi la morte, nel 1948, insieme a Dazai si suicidò anche la sua ultima amante, Tomie Yamazaki.
Vi sono stati anche suicidi di natura incerta. Il caso più noto è quello dello scrittore americano Jack London (1876-1916), di cui si dice genericamente che si sia tolto la vita poiché questa è anche la fine che sceglie Martin Eden, il protagonista semi-autobiografico di uno dei suoi romanzi più noti, e l'accostamento fra uno scrittore e un suo personaggio sembra sempre una spiegazione plausibile. Inoltre London era alcolizzato e le sue condizioni di salute ne risentivano parecchio. In assenza di un messaggio scritto, l'unico dato certo è che il decesso venne causato da una dose eccessiva di morfina che il romanziere stava assumendo per sopportare il dolore fisico causatogli da un'uremia acuta che lo tormentava. Anche se così diventa assai più banale, forse si è trattato di una morte accidentale dovuta a un avventato sovradosaggio. Il dubbio dell'incidente è spesso presente nei suicidi, che diventano quindi presunti. Persino nel caso di Primo Levi c'è stato chi ha ipotizzato che il tragico volo nella tromba delle scale del palazzo in cui viveva sia stato causato da un malore e non dalla volontà di farla finita.
D'altronde il suicidio viene spesso ammantato di un'aura quasi romanzesca. Di Guido Morselli si dice che si sia tolto la vita per la delusione di vedere i propri manoscritti puntualmente respinti dagli editori, ma in effetti è più corretto affermare che egli viveva in un'Italia post-monarchica che ai suoi occhi appariva di giorno in giorno più disgustosa e nella quale non si riconosceva più da tempo; inoltre aveva raggiunto uno stato di alienazione mentale e deperimento fisico tali da non sentirsi più legato in nessun modo alla sua vita terrena.
Nel caso di Emilio Salgari e di Ernest Hemingway è possibile ipotizzare addirittura una predisposizione genetica al suicidio. É altamente probabile che nel loro DNA allignasse il gene di una qualche paranoia ereditaria, considerato che anche il padre e due figli di Salgari, e il padre, due fratelli e una nipote di Hemingway si sono tolti la vita volontariamente.
Per concludere, con riferimento ancora a Osamu Dazai, si potrebbe inoltre stilare una lista di letterati che pur non essendosi materialmente suicidati hanno lucidamente e volontariamente scelto una serie di comportamenti autolesionistici tali da far supporre che stessero inconsciamente cercando la morte. La vita di Charles Baudelaire, per dire, non è forse caratterizzata da un costante abuso di oppiacei, alcolici e compimento di azioni autodistruttive? Quali nomi potrebbero comparire in una lista del genere?
Nel caso di Yukio Mishima (1925-1970) l'impressione è che si sia trattato piuttosto della volontà di concludere la propria esistenza in modo spettacolare (sul piano individualistico) e di lasciare un messaggio al suo paese (sul piano storico e sociale). Il suicidio si svolse dopo un teatrale tentativo di aizzare i soldati di una caserma a compiere un colpo di stato contro il Giappone molle e politicamente sottomesso agli Stati Uniti del dopo guerra. Lo scrittore, insieme ad alcuni suoi seguaci coi quali aveva fondato un'associazione paramilitare, dopo aver arringato inutilmente le truppe regolari della caserma si tolse la vita compiendo un seppuku, il suicidio rituale dei samurai, come richiamo agli antichi valori del suo paese e come forma di protesta contro il governo.
Come è stato notato da molti studiosi del letterato giapponese, numerosi dettagli lasciano pensare che quel gesto fosse accuratamente pianificato da circa un anno. Egli sapeva che il suo improbabile colpo di stato non aveva alcuna speranza di riuscita e le sue motivazioni erano di natura "estetica" per così dire: morire nobilmente come un antico samurai dopo aver compiuto il proprio dovere. Una frase scritta su un biglietto il giorno in cui compì questo gesto è assai significativa, quantunque ambigua:
La vita umana è limitata, ma io vorrei vivere per sempre.
"Vivere per sempre" entrando nella Storia? E quale modo migliore se non compiere un gesto clamoroso di grande risonanza mediatica, più ancora che grazie alla sua fama letteraria? Ecco, forse nel caso dello scrittore giapponese la scelta di darsi la morte segue una logica "artistica" anziché esistenziale. Come ulteriore conferma è opportuno notare che Yukio Mishima aveva già messo in scena il proprio seppuku. Nel 1966 aveva infatti girato con alcuni amici un breve film ispirato a uno dei suoi racconti, Patriottismo, in cui il protagonista, un ufficiale, si toglie la vita per motivi di onore e rispetto verso i propri commilitoni che hanno appena tentato un fallito colpo di stato (coincidenza sospetta, non è vero?) Lo scrittore stesso recita in tale cortometraggio impersonando il personaggio principale e la sequenza del suicidio rituale, pur essendo estremamente realistica, è grondante di febbrile esaltazione (se vi interessa, l'intero filmino è visibile su youtube).
Un altro scrittore giapponese, Osamu Dazai (1909-1948), ha vissuto l'intera sua vita adulta cercando di togliersela. La sua biografia denota costanti comportamenti autodistruttivi, abuso di alcolici e medicinali, cure psichiatriche e cinque tentativi di suicidio in vent'anni, quattro dei quali evidentemente falliti.
Ancora più inquietante è il fatto che in tre occasioni convinse le sue compagne occasionali (anche la sua vita sentimentale fu alquanto disordinata) a condividere il gesto. Fu così che Shimeko Tanabe morì annegata nel 1930 mentre Dazai venne salvato da alcuni pescatori. Hatsuyo Oyama, sua moglie, si salvò invece dall'avvelenamento volontario da medicinali che lo scrittore aveva progettato per entrambi (si salvò anche lui in effetti, e ciò lascia presupporre un ripensamento dei coniugi, o più verosimilmente della sola Hatsuyo) mentre nell'ultimo e riuscito tentativo di darsi la morte, nel 1948, insieme a Dazai si suicidò anche la sua ultima amante, Tomie Yamazaki.
Vi sono stati anche suicidi di natura incerta. Il caso più noto è quello dello scrittore americano Jack London (1876-1916), di cui si dice genericamente che si sia tolto la vita poiché questa è anche la fine che sceglie Martin Eden, il protagonista semi-autobiografico di uno dei suoi romanzi più noti, e l'accostamento fra uno scrittore e un suo personaggio sembra sempre una spiegazione plausibile. Inoltre London era alcolizzato e le sue condizioni di salute ne risentivano parecchio. In assenza di un messaggio scritto, l'unico dato certo è che il decesso venne causato da una dose eccessiva di morfina che il romanziere stava assumendo per sopportare il dolore fisico causatogli da un'uremia acuta che lo tormentava. Anche se così diventa assai più banale, forse si è trattato di una morte accidentale dovuta a un avventato sovradosaggio. Il dubbio dell'incidente è spesso presente nei suicidi, che diventano quindi presunti. Persino nel caso di Primo Levi c'è stato chi ha ipotizzato che il tragico volo nella tromba delle scale del palazzo in cui viveva sia stato causato da un malore e non dalla volontà di farla finita.
D'altronde il suicidio viene spesso ammantato di un'aura quasi romanzesca. Di Guido Morselli si dice che si sia tolto la vita per la delusione di vedere i propri manoscritti puntualmente respinti dagli editori, ma in effetti è più corretto affermare che egli viveva in un'Italia post-monarchica che ai suoi occhi appariva di giorno in giorno più disgustosa e nella quale non si riconosceva più da tempo; inoltre aveva raggiunto uno stato di alienazione mentale e deperimento fisico tali da non sentirsi più legato in nessun modo alla sua vita terrena.
Nel caso di Emilio Salgari e di Ernest Hemingway è possibile ipotizzare addirittura una predisposizione genetica al suicidio. É altamente probabile che nel loro DNA allignasse il gene di una qualche paranoia ereditaria, considerato che anche il padre e due figli di Salgari, e il padre, due fratelli e una nipote di Hemingway si sono tolti la vita volontariamente.
Per concludere, con riferimento ancora a Osamu Dazai, si potrebbe inoltre stilare una lista di letterati che pur non essendosi materialmente suicidati hanno lucidamente e volontariamente scelto una serie di comportamenti autolesionistici tali da far supporre che stessero inconsciamente cercando la morte. La vita di Charles Baudelaire, per dire, non è forse caratterizzata da un costante abuso di oppiacei, alcolici e compimento di azioni autodistruttive? Quali nomi potrebbero comparire in una lista del genere?
domenica 20 marzo 2016
Letterati suicidi - prima parte
Essendo incorso durante la mia vita in due crisi depressive abbastanza prolungate, sono passato anche attraverso la fase in cui strani pensieri martellano a fasi alterne la mente. Un po' per questa ragione e un po' - all'estremo opposto - per esorcizzare gli strani pensieri in questione, mi sono spesso interessato alle biografie di artisti e letterati che si sono dati la morte volontariamente.
Lo spirito di questo doppio post è riferito proprio all'aspetto esorcizzante e non va assolutamente inteso come un elogio del suicidio. Non va neppure considerato come un post frivolo che banalizza il senso di un gesto estremo riducendolo a un mero elemento biografico che accomuna alcuni scrittori e poeti: reputo che si debba sempre nutrire un profondo rispetto per quelle persone che si sono tolte la vita poiché dietro tale scelta si annida sicuramente un oscuro disagio esistenziale, giustificato o ingiustificato che sia.
Poiché i letterati sanno esprimere immagini e concetti straordinari con l'uso della parola scritta, un'attenzione particolare l'ho avuta soprattutto per le lettere d'addio.
Una delle più celebri è quella di Virginia Woolf (1882-1941) che dopo aver sperimentato stati di grave esaurimento nervoso nel corso della sua esistenza si sentiva ormai troppo anziana per affrontarne altri evidentemente imminenti. Soprattutto, non voleva più essere di peso al marito al quale dedicò frasi cariche di affetto:
Carissimo, sono sicura che sto impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare questa terribile situazione un'altra volta. Stavolta non riuscirei a riprendermi. Comincio a sentire delle voci e non riesco a concentrami. Perciò sto per fare ciò che mi sembra la miglior cosa da fare [...] tutta la felicità della mia vita la devo a te. Sei stato pienamente paziente con me e incredibilmente buono [...] Non posso più continuare a rovinarti l'esistenza.
Un'altra lettera di addio celebre è quella di Stefan Zweig (1881-1942), scrittore austriaco europeista convinto che, dopo aver vissuto con orrore il massacro della Prima Guerra Mondiale e l'avvento del nazismo, non accettava l'idea di assistere a una nuova mattanza e all'accanimento atroce contro la sua gente (Zweig era di ascendenza ebraica). Esule in Brasile, si tolse la vita insieme alla moglie che condivise con lui la scelta, lasciando una nota in cui diceva:
Ogni giorno amo questo paese di più, e non avrei potuto chiedere di ricostruire la mia vita in nessun altro luogo ora che la parte di mondo dove si parla la mia lingua sta sprofondando e la mia patria spirituale, l'Europa, si sta autodistruggendo. Ma per ripartire da zero un uomo di sessant'anni necessita di energie speciali, e io le mie le ho esaurite nel corso di anni di peregrinazioni senza fissa dimora [...] Saluto i miei amici: possano vivere e vedere l'alba di questa lunga notte. Io, che sono più impaziente, me ne vado prima di loro.
Lo scrittore americano Robert Ervin Howard (1906-1936), creatore del celebre guerriero "barbaro" Conan, soffrì spesso di crisi depressive nel corso della sua breve vita. Quando sua madre si ammalò gravemente venne sopraffatto dalla frustrazione di vederla spegnersi lentamente senza poter fare nulla per salvarla e pose fine ai propri giorni. Le ultime parole che scrisse furono due versi rimati (in inglese ovviamente) che evocano le atmosfere dei suoi romanzi:
Tutto è andato, tutto é finito, perciò ponetemi sulla pira:
la festa è terminata e i lumi si spengono.
Cesare Pavese (1908-1950), a sua volta spesso tormentato da crisi depressive, lasciò invece un biglietto assai laconico nel quale sembra emergere una sorta di fastidio verso il mondo che stava lasciando:
Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.
Lo scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa (1892-1927), soggetto a turbe psichiche e frequenti stati di alienazione mentale, lasciò a un amico una lunga spiegazione scritta relativa alla sua decisione di suicidarsi (un tema peraltro presente in alcuni suoi racconti) ma come motivazione del proprio gesto si limitò ad affermare che vi era spinto da
un vago senso di ansia per il mio futuro.
Non sempre tuttavia i letterati che si tolgono la vita ne spiegano le ragioni con parole scritte, sebbene siano sempre facilmente intuibili. In fondo le motivazioni del togliersi la vita sono ricorrenti: incapacità di affrontare una malattia o la vecchiaia (Henry de Montherlant non sopportava l'idea di diventare cieco), depressione, delusione per il crollo degli ideali in cui si credeva, rifiuto di essere pubblicamente infamati, atto estremo per evitare di essere arrestati o uccisi (Pierre Drieu la Rochelle, collaborazionista coi nazisti, non poteva certo sperare di cavarsela quando i partigiani francesi entrarono a Parigi), il trauma per la scomparsa di una persona cara (Sàndor Màrai si tolse la vita pochi mesi dopo aver visto morire prima sua moglie e poi il figlio adottivo).
Nel prossimo post sull'argomento, dopo l'intermezzo pasquale, parlerò di suicidi dalle sfaccettature più complesse.
Lo spirito di questo doppio post è riferito proprio all'aspetto esorcizzante e non va assolutamente inteso come un elogio del suicidio. Non va neppure considerato come un post frivolo che banalizza il senso di un gesto estremo riducendolo a un mero elemento biografico che accomuna alcuni scrittori e poeti: reputo che si debba sempre nutrire un profondo rispetto per quelle persone che si sono tolte la vita poiché dietro tale scelta si annida sicuramente un oscuro disagio esistenziale, giustificato o ingiustificato che sia.
Poiché i letterati sanno esprimere immagini e concetti straordinari con l'uso della parola scritta, un'attenzione particolare l'ho avuta soprattutto per le lettere d'addio.
Una delle più celebri è quella di Virginia Woolf (1882-1941) che dopo aver sperimentato stati di grave esaurimento nervoso nel corso della sua esistenza si sentiva ormai troppo anziana per affrontarne altri evidentemente imminenti. Soprattutto, non voleva più essere di peso al marito al quale dedicò frasi cariche di affetto:
Carissimo, sono sicura che sto impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare questa terribile situazione un'altra volta. Stavolta non riuscirei a riprendermi. Comincio a sentire delle voci e non riesco a concentrami. Perciò sto per fare ciò che mi sembra la miglior cosa da fare [...] tutta la felicità della mia vita la devo a te. Sei stato pienamente paziente con me e incredibilmente buono [...] Non posso più continuare a rovinarti l'esistenza.
Un'altra lettera di addio celebre è quella di Stefan Zweig (1881-1942), scrittore austriaco europeista convinto che, dopo aver vissuto con orrore il massacro della Prima Guerra Mondiale e l'avvento del nazismo, non accettava l'idea di assistere a una nuova mattanza e all'accanimento atroce contro la sua gente (Zweig era di ascendenza ebraica). Esule in Brasile, si tolse la vita insieme alla moglie che condivise con lui la scelta, lasciando una nota in cui diceva:
Ogni giorno amo questo paese di più, e non avrei potuto chiedere di ricostruire la mia vita in nessun altro luogo ora che la parte di mondo dove si parla la mia lingua sta sprofondando e la mia patria spirituale, l'Europa, si sta autodistruggendo. Ma per ripartire da zero un uomo di sessant'anni necessita di energie speciali, e io le mie le ho esaurite nel corso di anni di peregrinazioni senza fissa dimora [...] Saluto i miei amici: possano vivere e vedere l'alba di questa lunga notte. Io, che sono più impaziente, me ne vado prima di loro.
Lo scrittore americano Robert Ervin Howard (1906-1936), creatore del celebre guerriero "barbaro" Conan, soffrì spesso di crisi depressive nel corso della sua breve vita. Quando sua madre si ammalò gravemente venne sopraffatto dalla frustrazione di vederla spegnersi lentamente senza poter fare nulla per salvarla e pose fine ai propri giorni. Le ultime parole che scrisse furono due versi rimati (in inglese ovviamente) che evocano le atmosfere dei suoi romanzi:
Tutto è andato, tutto é finito, perciò ponetemi sulla pira:
la festa è terminata e i lumi si spengono.
Cesare Pavese (1908-1950), a sua volta spesso tormentato da crisi depressive, lasciò invece un biglietto assai laconico nel quale sembra emergere una sorta di fastidio verso il mondo che stava lasciando:
Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.
Lo scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa (1892-1927), soggetto a turbe psichiche e frequenti stati di alienazione mentale, lasciò a un amico una lunga spiegazione scritta relativa alla sua decisione di suicidarsi (un tema peraltro presente in alcuni suoi racconti) ma come motivazione del proprio gesto si limitò ad affermare che vi era spinto da
un vago senso di ansia per il mio futuro.
Non sempre tuttavia i letterati che si tolgono la vita ne spiegano le ragioni con parole scritte, sebbene siano sempre facilmente intuibili. In fondo le motivazioni del togliersi la vita sono ricorrenti: incapacità di affrontare una malattia o la vecchiaia (Henry de Montherlant non sopportava l'idea di diventare cieco), depressione, delusione per il crollo degli ideali in cui si credeva, rifiuto di essere pubblicamente infamati, atto estremo per evitare di essere arrestati o uccisi (Pierre Drieu la Rochelle, collaborazionista coi nazisti, non poteva certo sperare di cavarsela quando i partigiani francesi entrarono a Parigi), il trauma per la scomparsa di una persona cara (Sàndor Màrai si tolse la vita pochi mesi dopo aver visto morire prima sua moglie e poi il figlio adottivo).
Nel prossimo post sull'argomento, dopo l'intermezzo pasquale, parlerò di suicidi dalle sfaccettature più complesse.
domenica 17 gennaio 2016
Un racconto di attualità sulle smanie di noi scribacchini
Mi è capitato di leggere in questi giorni un racconto di attualità che sviscera assai elegantemente le smanie di noi scribacchini.
Il protagonista della narrazione ha da poco pubblicato un romanzo che ha intitolato "Inesorabilmente" e da quel momento
non ebbe più pace nè di giorno nè di notte. Di giorno appostava il procaccia, ansioso di ricevere dal suo editore una lettera che gli annunciasse l'edizione esaurita; di notte non vedeva che donne ideali curve sulle nitide pagine dove egli aveva posto tanta parte di sè stesso
L'esordiente in questione è convinto di aver elaborato un'opera di grande spessore, un romanzo in cui
c'era tanto pensiero da interessare il filosofo, tanto movimento da tener desta l'attenzione dell'uomo di mondo, tanto amore tanto entusiasmo da cattivarsi ogni cuore femminile.
Non ricevendo alcun riscontro dal libraio-editore che glielo ha pubblicato, decide infine di recarsi da lui per saperne qualcosa in più. Il giovane autore è convinto che nella grande città vi sia una attivo fermento culturale e il suo libro abbia avuto maggiori possibilità di emergere. Si sente invece rispondere dal libraio-editore che
- Il suo romanzo? Non va niente affatto.
- Ni…en…te?
- Af-fat-to. Ne vuole la prova? Pietro - (chiamò il commesso) - quante copie hai venduto di «Inesorabilmente»?-
- Neppur una, - rispose il commesso senza pietà.
E si ha compassione per quelli che si rompono una gamba! Quaranta giorni di letto fra morbidi guanciali, accarezzati dai parenti, visitati dagli amici che recano fiori, dolciumi, giornali illustrati… Ah! veramente il cuore è fuori di posto.
E quando l'esordiente si meraviglia non comprendendo come sia possibile che gli intellettuali della borghesia e le giovani donne emancipate della nobiltà non abbiano voglia di leggere il suo romanzo, si sente rispondere che le loro spese librarie sono assai limitate poiché
- Che vuole, la vita è cara. I guanti devono essere freschi tutti i giorni al pari dei fiori, i nastri si gualciscono, le trine si stracciano, i cappelli si sformano prima che finisca la stagione. Un abito appena appena decente costa due o trecento lire, le mantelline duecento, trecento, cinquecento, ottocento a seconda dei ricami. Converrà che una signora vestita a questo modo non può portare scarpe scalcagnate e che se versa una goccia di profumo sul suo fazzoletto non può essere che una essenza da quindici lire la boccetta. Allora è naturale che per fare un po' di economia si permetta solo due e cinquanta al mese di intellettualità.
L'esordiente chiede allora conto dei colleghi scribacchini che, a suo avviso, dovrebbero interessarsi al suo libro:
- E gli scrittori? Essi sono una falange. Questi uomini intelligenti non comperano mantelli da cinquecento lire nè profumi rari. Si interessano ben essi all'opera letteraria dei confratelli.
Ma il libraio-editore la vede diversamente:
- Ah! caro signore, gli scrittori non leggono che sè stessi. È il magro compenso che loro resta.
Infine, nel più nero sconforto, l'esordiente si risolleva quando vede entrare un uomo che sfoglia il suo libro. Tuttavia il potenziale lettore rinuncia all'acquisto lamentandone il costo eccessivo. E allora l'esordiente gli si fionda addosso e
Lo afferrò per la manica del nero pastrano e con voce ancora più umile, ancora più scorata, gli pose nelle mani il suo romanzo sospirando lieve:
- Lo accetti, la prego, lo accetti in omaggio…Sono l'autore.
Come dicevo sopra è un racconto d'attualità della scrittrice Neera, praticamente una mia contemporanea visto che io vivo agli inizi del XX secolo. Forse la sua attualità si estenderà anche agli inizi del XXI secolo, chissà...
Il protagonista della narrazione ha da poco pubblicato un romanzo che ha intitolato "Inesorabilmente" e da quel momento
non ebbe più pace nè di giorno nè di notte. Di giorno appostava il procaccia, ansioso di ricevere dal suo editore una lettera che gli annunciasse l'edizione esaurita; di notte non vedeva che donne ideali curve sulle nitide pagine dove egli aveva posto tanta parte di sè stesso
L'esordiente in questione è convinto di aver elaborato un'opera di grande spessore, un romanzo in cui
c'era tanto pensiero da interessare il filosofo, tanto movimento da tener desta l'attenzione dell'uomo di mondo, tanto amore tanto entusiasmo da cattivarsi ogni cuore femminile.
Non ricevendo alcun riscontro dal libraio-editore che glielo ha pubblicato, decide infine di recarsi da lui per saperne qualcosa in più. Il giovane autore è convinto che nella grande città vi sia una attivo fermento culturale e il suo libro abbia avuto maggiori possibilità di emergere. Si sente invece rispondere dal libraio-editore che
- Il suo romanzo? Non va niente affatto.
- Ni…en…te?
- Af-fat-to. Ne vuole la prova? Pietro - (chiamò il commesso) - quante copie hai venduto di «Inesorabilmente»?-
- Neppur una, - rispose il commesso senza pietà.
E si ha compassione per quelli che si rompono una gamba! Quaranta giorni di letto fra morbidi guanciali, accarezzati dai parenti, visitati dagli amici che recano fiori, dolciumi, giornali illustrati… Ah! veramente il cuore è fuori di posto.
E quando l'esordiente si meraviglia non comprendendo come sia possibile che gli intellettuali della borghesia e le giovani donne emancipate della nobiltà non abbiano voglia di leggere il suo romanzo, si sente rispondere che le loro spese librarie sono assai limitate poiché
- Che vuole, la vita è cara. I guanti devono essere freschi tutti i giorni al pari dei fiori, i nastri si gualciscono, le trine si stracciano, i cappelli si sformano prima che finisca la stagione. Un abito appena appena decente costa due o trecento lire, le mantelline duecento, trecento, cinquecento, ottocento a seconda dei ricami. Converrà che una signora vestita a questo modo non può portare scarpe scalcagnate e che se versa una goccia di profumo sul suo fazzoletto non può essere che una essenza da quindici lire la boccetta. Allora è naturale che per fare un po' di economia si permetta solo due e cinquanta al mese di intellettualità.
L'esordiente chiede allora conto dei colleghi scribacchini che, a suo avviso, dovrebbero interessarsi al suo libro:
- E gli scrittori? Essi sono una falange. Questi uomini intelligenti non comperano mantelli da cinquecento lire nè profumi rari. Si interessano ben essi all'opera letteraria dei confratelli.
Ma il libraio-editore la vede diversamente:
- Ah! caro signore, gli scrittori non leggono che sè stessi. È il magro compenso che loro resta.
Infine, nel più nero sconforto, l'esordiente si risolleva quando vede entrare un uomo che sfoglia il suo libro. Tuttavia il potenziale lettore rinuncia all'acquisto lamentandone il costo eccessivo. E allora l'esordiente gli si fionda addosso e
Lo afferrò per la manica del nero pastrano e con voce ancora più umile, ancora più scorata, gli pose nelle mani il suo romanzo sospirando lieve:
- Lo accetti, la prego, lo accetti in omaggio…Sono l'autore.
Come dicevo sopra è un racconto d'attualità della scrittrice Neera, praticamente una mia contemporanea visto che io vivo agli inizi del XX secolo. Forse la sua attualità si estenderà anche agli inizi del XXI secolo, chissà...
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martedì 12 gennaio 2016
Distillati e antenati
Nelle ultime settimane sono stati ampiamente pubblicizzati (e hanno subito la loro bella dose di ironia, perplessità e critiche sul web dei bibliofili) i 'distillati', ovvero romanzi ridotti a "meno della metà" della loro lunghezza originale tramite accurata soppressione di passaggi ritenuti evidentemente inutili. I curatori di questa collana ci tengono infatti a sottolineare che "non è un riassunto" e la scrittura originale viene mantenuta sebbene sforbiciata qua e là.
Sono tentato di non emettere alcun giudizio riguardo questa idea, soprattutto (perdonate la malignità) visti quali sono i titoli sui quali, per ora, è stata applicata. In linea di massima credo che un libro vada letto nella sua interezza, ma alcuni tomi poderosi contemporanei penso siano stati allungati - allo stesso modo in cui si aggiunge acqua a un brodo ristretto - per far lievitare il numero delle pagine e giustificare il prezzo di copertina a vantaggio di quei lettori che concepiscono un romanzo come se dovesse essere valutato "un tanto al chilo". Della serie: mica posso pagare quindici euro per un volumetto con meno di cento pagine che terminerò in una giornata, se però le pagine sono trecentocinquanta, beh, allora la lettura dura di più, quindi...
Comunque il post è segnato col tag "varie letterarie" e infatti voglio parlare, come curiosità bibliofila, di operazioni analoghe a questa.
Perché in effetti la "distillazione" dei libri non è mica una novità. Chi appartiene alla mia generazione rammenterà i 'Reader's Digest - Selezione della narrativa mondiale' ovvero volumetti rilegati in pelle marrone con una gran quantità di titoli trascritti in oro sul bordo. Ogni volume conteneva "estratti" di vari romanzi che stavano avendo successo (principalmente negli Stati Uniti, poiché l'editore era americano e i suoi compendi venivano tradotti in varie parti del mondo, Italia compresa).
Sono ancora diffusi, a quanto mi risulta, i 'bignami' dell'editore omonimo coi Promessi sposi, libriccino che ne fa un riassunto a beneficio dei maturandi che non hanno voglia di leggerlo per intero. Di pubblicazioni che semplificano e sintetizzano romanzi celebri in effetti ne esistono diverse, e non solo in Italia. Talvolta sono destinate a studenti stranieri che stanno imparando la lingua madre dell'autore ma ancora non la padroneggiano, altre volte sono per studenti... sfaticati.
Ma le operazioni di taglio e cucito su testi originali si sono spinte anche oltre. Nel 1807, nella puritana Inghilterra descritta dai romanzi di Jane Austen, venne pubblicato un volume antologico intitolato The Family Shakespeare. La curatrice dell'opera, Henrietta Maria Bowdler, voleva che tutte le famiglie inglesi potessero leggere le opere del drammaturgo senza essere imbarazzate dal suo linguaggio talvolta troppo crudo (secondo la morale dell'epoca) e aveva edulcorato gli endecasillabi di commedie e tragedie eliminando le parole volgari e le frasi spinte. Secondo una stima divertita di alcuni critici della posterità, la Bowdler avrebbe rimosso circa il 10% del testo originale. Più che una "distillazione" la sua è stata una "rettificazione" (chi s'intende di grappa mi ha capito ;-)
E comunque non è stata l'unica, poiché numerose opere hanno subito analogo procedimento. Nel 1890, ad esempio, Henry Macaulay Fitzgibbon curò una raccolta di testi teatrali inglesi del XVI secolo il cui titolo è assai eloquente: Famous Elizabethan plays; expurgated and adapted for modern readers.
Non pensiate che questo genere di pudore sia esclusivo della società britannica vittoriana: nell'Italia del Rinascimento (ma successivamente al Concilio di Trento) un capolavoro come il Decameron era stato inserito dalla chiesa nell'indice dei libri proibiti a causa delle sue "oscenità", però proprio perché era un capolavoro ed era spiacevole non poterlo più leggere senza correre il rischio di offendere la cristianità, il granduca di Toscana Cosimo I aveva ideato un compromesso chiedendo al dotto sacerdote Vincenzo Borghini di emendare il testo, operazione che in effetti si spinse al taglio integrale di intere novelle troppo osé per i canoni della controriforma. (Per la cronaca: questa versione alleggerita venne rimossa dall'indice e pubblicata nel 1573, ma l'anno seguente venne ritenuta ancora eccessivamente spinta e il libro fu nuovamente proibito).
Vi vengono in mente altre operazioni di riduzioni, modifiche e tagli libreschi simili a quelle sopra citate?
Sono tentato di non emettere alcun giudizio riguardo questa idea, soprattutto (perdonate la malignità) visti quali sono i titoli sui quali, per ora, è stata applicata. In linea di massima credo che un libro vada letto nella sua interezza, ma alcuni tomi poderosi contemporanei penso siano stati allungati - allo stesso modo in cui si aggiunge acqua a un brodo ristretto - per far lievitare il numero delle pagine e giustificare il prezzo di copertina a vantaggio di quei lettori che concepiscono un romanzo come se dovesse essere valutato "un tanto al chilo". Della serie: mica posso pagare quindici euro per un volumetto con meno di cento pagine che terminerò in una giornata, se però le pagine sono trecentocinquanta, beh, allora la lettura dura di più, quindi...
Comunque il post è segnato col tag "varie letterarie" e infatti voglio parlare, come curiosità bibliofila, di operazioni analoghe a questa.
Perché in effetti la "distillazione" dei libri non è mica una novità. Chi appartiene alla mia generazione rammenterà i 'Reader's Digest - Selezione della narrativa mondiale' ovvero volumetti rilegati in pelle marrone con una gran quantità di titoli trascritti in oro sul bordo. Ogni volume conteneva "estratti" di vari romanzi che stavano avendo successo (principalmente negli Stati Uniti, poiché l'editore era americano e i suoi compendi venivano tradotti in varie parti del mondo, Italia compresa).
Sono ancora diffusi, a quanto mi risulta, i 'bignami' dell'editore omonimo coi Promessi sposi, libriccino che ne fa un riassunto a beneficio dei maturandi che non hanno voglia di leggerlo per intero. Di pubblicazioni che semplificano e sintetizzano romanzi celebri in effetti ne esistono diverse, e non solo in Italia. Talvolta sono destinate a studenti stranieri che stanno imparando la lingua madre dell'autore ma ancora non la padroneggiano, altre volte sono per studenti... sfaticati.
Ma le operazioni di taglio e cucito su testi originali si sono spinte anche oltre. Nel 1807, nella puritana Inghilterra descritta dai romanzi di Jane Austen, venne pubblicato un volume antologico intitolato The Family Shakespeare. La curatrice dell'opera, Henrietta Maria Bowdler, voleva che tutte le famiglie inglesi potessero leggere le opere del drammaturgo senza essere imbarazzate dal suo linguaggio talvolta troppo crudo (secondo la morale dell'epoca) e aveva edulcorato gli endecasillabi di commedie e tragedie eliminando le parole volgari e le frasi spinte. Secondo una stima divertita di alcuni critici della posterità, la Bowdler avrebbe rimosso circa il 10% del testo originale. Più che una "distillazione" la sua è stata una "rettificazione" (chi s'intende di grappa mi ha capito ;-)
E comunque non è stata l'unica, poiché numerose opere hanno subito analogo procedimento. Nel 1890, ad esempio, Henry Macaulay Fitzgibbon curò una raccolta di testi teatrali inglesi del XVI secolo il cui titolo è assai eloquente: Famous Elizabethan plays; expurgated and adapted for modern readers.
Non pensiate che questo genere di pudore sia esclusivo della società britannica vittoriana: nell'Italia del Rinascimento (ma successivamente al Concilio di Trento) un capolavoro come il Decameron era stato inserito dalla chiesa nell'indice dei libri proibiti a causa delle sue "oscenità", però proprio perché era un capolavoro ed era spiacevole non poterlo più leggere senza correre il rischio di offendere la cristianità, il granduca di Toscana Cosimo I aveva ideato un compromesso chiedendo al dotto sacerdote Vincenzo Borghini di emendare il testo, operazione che in effetti si spinse al taglio integrale di intere novelle troppo osé per i canoni della controriforma. (Per la cronaca: questa versione alleggerita venne rimossa dall'indice e pubblicata nel 1573, ma l'anno seguente venne ritenuta ancora eccessivamente spinta e il libro fu nuovamente proibito).
Vi vengono in mente altre operazioni di riduzioni, modifiche e tagli libreschi simili a quelle sopra citate?
lunedì 14 dicembre 2015
Letterati consanguinei
Un commento a questo post pubblicato pochi giorni fa mi ha ispirato quel che sto scrivendo ora. Perché se è vero che esistono letterati che si amano e formano una famiglia insieme, ne consegue talvolta (ma non necessariamente) che il talento si propaghi in altri consanguinei. Quel che si dice: avere la poesia nel DNA. No, in effetti meglio non dirlo: suona troppo barbosamente scientifico.
É doveroso che incominci proprio dall'esempio proposto da un amico blogger che parlando di amore fra letterati suggeriva, per estensione, quello fraterno dei celeberrimi Brüder Grimm. Nel loro caso non si può parlare di amore inteso come attrazione sessuale reciproca, però rappresentano egregiamente un caso di autori che condividevano la medesima ascendenza, un'ascendenza all'interno della quale stava germinando una meravigliosa abilità scrittoria sbocciata in pieno nei fratelli Jacob e Wilhelm.
Un esempio analogo è quello dei fratelli francesi Edmond e Jules de Goncourt, autori di numerosi romanzi quasi tutti scritti a quattro mani e celebri peraltro per aver creato la fondazione che porta il loro nome e che ogni anno assegna il premio letterario più prestigioso di Francia, le Prix Goncourt.
Sorelle scrttrici sono state Charlotte e Emily Bronte, autrici rispettivamente di "Jane Eyre" e "Cime tempestose". Sempre restando in Inghilterra, Dante Gabriel Rossetti e sua sorella Christina sono entrambi citati nelle antologie di poesia.
Naturalmente la passione per la scrittura si trasmette non solo all'interno della stessa generazione ma anche da una generazione all'altra.
Tutti conoscono il caso dei due Alexandre Dumas: il più famoso è il padre, autore di libri indimenticabili come "Il conte di Montecristo" o il ciclo dei tre moschettieri. Ma anche il figlio ottenne una discreta fama con la sua narrativa, in particolare col romanzo "La signora delle camelie" ispiratore dell'opera lirica "La traviata" di Giuseppe Verdi.
Un padre scrittore celebre può trasformarsi anche in un peso per il rampollo che ne eredita la passione. Stefano Pirandello è stato un autore teatrale interessante nel contesto della drammaturgia italiana del XX secolo, tuttavia la figura del genitore Luigi, geniale e ineguagliabile, risulta così enormemente preponderante da nascondere il figlio sotto la sua gigantesca ombra.
Anche i sei figli di Thomas Mann tentarono tutti, a vario titolo e in forme diverse, la carriera letteraria, ma nessuno ha eguagliato la grandezza paterna. Peraltro è curioso notare che, oltre che dal padre, questa smania per la narrativa poteva derivare anche dallo zio: Heinrich Mann, fratello maggiore di Thomas, è stato a sua volta romanziere e ha ottenuto un grande successo coi suoi libri, in particolare con "Il professor Unrat" dal quale venne tratto nel 1930 il film noto in Italia come "L'angelo azzurro", ovvero il lungometraggio che ha creato il mito di Marlene Dietrich, straordinaria attrice protagonista.
Un autore contemporaneo che sa cosa significhi essere il figlio di un papà troppo famoso è l'americano Joe Hill, romanziere nonché sceneggiatore di fumetti. Il suo vero nome è Joseph Hillstrom King, e suo padre si chiama Stephen... Per evitare di essere associato in modo troppo diretto a cotanto genitore ha preferito firmare i propri libri con uno pseudonimo.
Un caso italiano in cui l'ambizione letteraria è stata ereditata addirittura da un lontano antenato è quello del giornalista e scrittore Stanislao Nievo (1928-2006), discendente di Ippolito (quello delle "Confessioni di un italiano" per capirci) al quale Stanislao ha dedicato il romanzo "Il prato in fondo al mare", vincitore del Premio Campiello nel 1975.
Conoscete altri esempi simili?
É doveroso che incominci proprio dall'esempio proposto da un amico blogger che parlando di amore fra letterati suggeriva, per estensione, quello fraterno dei celeberrimi Brüder Grimm. Nel loro caso non si può parlare di amore inteso come attrazione sessuale reciproca, però rappresentano egregiamente un caso di autori che condividevano la medesima ascendenza, un'ascendenza all'interno della quale stava germinando una meravigliosa abilità scrittoria sbocciata in pieno nei fratelli Jacob e Wilhelm.
Un esempio analogo è quello dei fratelli francesi Edmond e Jules de Goncourt, autori di numerosi romanzi quasi tutti scritti a quattro mani e celebri peraltro per aver creato la fondazione che porta il loro nome e che ogni anno assegna il premio letterario più prestigioso di Francia, le Prix Goncourt.
Sorelle scrttrici sono state Charlotte e Emily Bronte, autrici rispettivamente di "Jane Eyre" e "Cime tempestose". Sempre restando in Inghilterra, Dante Gabriel Rossetti e sua sorella Christina sono entrambi citati nelle antologie di poesia.
Naturalmente la passione per la scrittura si trasmette non solo all'interno della stessa generazione ma anche da una generazione all'altra.
Tutti conoscono il caso dei due Alexandre Dumas: il più famoso è il padre, autore di libri indimenticabili come "Il conte di Montecristo" o il ciclo dei tre moschettieri. Ma anche il figlio ottenne una discreta fama con la sua narrativa, in particolare col romanzo "La signora delle camelie" ispiratore dell'opera lirica "La traviata" di Giuseppe Verdi.
Un padre scrittore celebre può trasformarsi anche in un peso per il rampollo che ne eredita la passione. Stefano Pirandello è stato un autore teatrale interessante nel contesto della drammaturgia italiana del XX secolo, tuttavia la figura del genitore Luigi, geniale e ineguagliabile, risulta così enormemente preponderante da nascondere il figlio sotto la sua gigantesca ombra.
Anche i sei figli di Thomas Mann tentarono tutti, a vario titolo e in forme diverse, la carriera letteraria, ma nessuno ha eguagliato la grandezza paterna. Peraltro è curioso notare che, oltre che dal padre, questa smania per la narrativa poteva derivare anche dallo zio: Heinrich Mann, fratello maggiore di Thomas, è stato a sua volta romanziere e ha ottenuto un grande successo coi suoi libri, in particolare con "Il professor Unrat" dal quale venne tratto nel 1930 il film noto in Italia come "L'angelo azzurro", ovvero il lungometraggio che ha creato il mito di Marlene Dietrich, straordinaria attrice protagonista.
Un autore contemporaneo che sa cosa significhi essere il figlio di un papà troppo famoso è l'americano Joe Hill, romanziere nonché sceneggiatore di fumetti. Il suo vero nome è Joseph Hillstrom King, e suo padre si chiama Stephen... Per evitare di essere associato in modo troppo diretto a cotanto genitore ha preferito firmare i propri libri con uno pseudonimo.
Un caso italiano in cui l'ambizione letteraria è stata ereditata addirittura da un lontano antenato è quello del giornalista e scrittore Stanislao Nievo (1928-2006), discendente di Ippolito (quello delle "Confessioni di un italiano" per capirci) al quale Stanislao ha dedicato il romanzo "Il prato in fondo al mare", vincitore del Premio Campiello nel 1975.
Conoscete altri esempi simili?
domenica 29 novembre 2015
Amore fra letterati
La condivisione di una medesima passione è spesso il primo passo per l'amicizia, che talvolta aumenta di intensità sino a mutarsi in amore. Vale in tutti i campi e la letteratura non fa eccezione.
Sono numerose le coppie formate da romanzieri, poeti e drammaturghi, menage coniugali nati sulle ali del comune esercizio della scrittura. Alcuni di questi amori sono diventati celebri quanto l'opera letteraria dei due innamorati, talvolta è più nota l'unione che la loro produzione.
Una storia quasi romanzesca ma reale è quella di Elizabeth Barrett e Robert Browning. Lei era una donna di salute cagionevole, paralizzata alle gambe da anni e grande lettrice, nonché un'ispirata poetessa che nel 1844, quasi quarantenne, ottenne un grande successo con la pubblicazione di una raccolta di poesie. Robert Browning si innamorò dell'autrice leggendone i versi, si dice. Di sicuro volle a ogni costo conoscerla e benché lei fosse di sei anni più grande e quasi invalida, lui le chiese di sposarlo. Le nozze furono celebrate di nascosto poiché il padre di Elizabeth era contrario, in effetti quando scoprì che erano avvenute a sua insaputa si infuriò talmente da diseredare la figlia. Robert e Elizabeth se ne andarono allora in Italia, ebbero un figlio e vissero felicemente per sedici anni sino alla morte di lei. Entrambi sono considerati fra i più significativi esponenti della poesia inglese del XIX secolo e certamente la loro romantica storia d'amore ne ha accresciuto la popolarità come personaggi storici.
Sempre nel secolo decimonono, è impossibile non citare la coppia formata dal poeta Percy Bysshe Shelley e Mary Godwin (poi diventata, appunto, Mary Shelley) l'autrice di Frankenstein. Anche nel loro caso la vita reale supera di gran lunga la fantasia di ogni romanzo: lui già sposato, lei che gli da appuntamenti segreti al cimitero, la fuga insieme in Francia, il suicidio della prima moglie di lui, la nascita di numerosi figli quasi tutti morti prematuramente, l'ipotesi di altre donne nella vita del marito, di tradimenti e figli illegittimi, infine la morte tragica di Percy a soli 29 anni in seguito all'affondamento della barca a vela sulla quale viaggiava. Vi risparmio i ricatti a Mary in tarda età da parte di avventurieri senza scrupoli e altri fatti bizzarri nelle vite dei due letterati. Mi limito a puntualizzare che occupano entrambi un posto di rilievo nella storia del Romanticismo e ne sono quasi assurti a simbolo.
Emblema invece dei poeti 'maledetti' sono stati Paul Verlaine e Arthur Rimbaud, protagonisti di una storia d'amore omosessuale che diede scandalo nella puritana Francia di fine '800. La vicenda ebbe risvolti tragici quando Verlaine tentò di uccidere (senza riuscirci) Rimbaud per la disperazione di essere stato lasciato. Finì in carcere per alcuni anni, perdonato poi da Rimbaud che comunque iniziò una vita errabonda e non rivide mai più l'amante. La loro importanza nella storia della poesia francese è indiscussa.
Un'altra coppia omosessuale icona di un movimento letterario è stata quella formata da Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, di fatto l'immagine stessa della Beat Generation. É opportuno però precisare che parlando di talento letterario in senso stretto solo Ginsberg viene considerato un poeta degno di figurare nelle antologie, mentre Orlovsky è una figura di secondo piano.
Sempre a proposito di coppie-icona, quando si parla dell'esistenzialismo è automatico pensare a Jean-Paul Sartre e alla sua compagna Simone De Beauvoir, entrambi celebrati scrittori.
Tornando ancora ai poeti vengono in mente Ted Hughes e Sylvia Plath, ritenuti fra i massimi poeti di lingua inglese del XX secolo. La loro relazione coniugale è purtroppo passata alla storia anche a causa del suicidio di Sylvia, a proposito del quale sono state fatte numerose speculazioni di cattivo gusto.
In Italia l'esempio più noto è probabilmente il matrimonio fra gli scrittori Alberto Moravia ed Elsa Morante. Peraltro Moravia è stato successivamente legato a un'altra scrittrice, Dacia Maraini.
Ma di amori "letterari" analoghi ve ne sono stati molti altri. Ve ne ricordate qualcuno?
Sono numerose le coppie formate da romanzieri, poeti e drammaturghi, menage coniugali nati sulle ali del comune esercizio della scrittura. Alcuni di questi amori sono diventati celebri quanto l'opera letteraria dei due innamorati, talvolta è più nota l'unione che la loro produzione.
Una storia quasi romanzesca ma reale è quella di Elizabeth Barrett e Robert Browning. Lei era una donna di salute cagionevole, paralizzata alle gambe da anni e grande lettrice, nonché un'ispirata poetessa che nel 1844, quasi quarantenne, ottenne un grande successo con la pubblicazione di una raccolta di poesie. Robert Browning si innamorò dell'autrice leggendone i versi, si dice. Di sicuro volle a ogni costo conoscerla e benché lei fosse di sei anni più grande e quasi invalida, lui le chiese di sposarlo. Le nozze furono celebrate di nascosto poiché il padre di Elizabeth era contrario, in effetti quando scoprì che erano avvenute a sua insaputa si infuriò talmente da diseredare la figlia. Robert e Elizabeth se ne andarono allora in Italia, ebbero un figlio e vissero felicemente per sedici anni sino alla morte di lei. Entrambi sono considerati fra i più significativi esponenti della poesia inglese del XIX secolo e certamente la loro romantica storia d'amore ne ha accresciuto la popolarità come personaggi storici.
Sempre nel secolo decimonono, è impossibile non citare la coppia formata dal poeta Percy Bysshe Shelley e Mary Godwin (poi diventata, appunto, Mary Shelley) l'autrice di Frankenstein. Anche nel loro caso la vita reale supera di gran lunga la fantasia di ogni romanzo: lui già sposato, lei che gli da appuntamenti segreti al cimitero, la fuga insieme in Francia, il suicidio della prima moglie di lui, la nascita di numerosi figli quasi tutti morti prematuramente, l'ipotesi di altre donne nella vita del marito, di tradimenti e figli illegittimi, infine la morte tragica di Percy a soli 29 anni in seguito all'affondamento della barca a vela sulla quale viaggiava. Vi risparmio i ricatti a Mary in tarda età da parte di avventurieri senza scrupoli e altri fatti bizzarri nelle vite dei due letterati. Mi limito a puntualizzare che occupano entrambi un posto di rilievo nella storia del Romanticismo e ne sono quasi assurti a simbolo.
Emblema invece dei poeti 'maledetti' sono stati Paul Verlaine e Arthur Rimbaud, protagonisti di una storia d'amore omosessuale che diede scandalo nella puritana Francia di fine '800. La vicenda ebbe risvolti tragici quando Verlaine tentò di uccidere (senza riuscirci) Rimbaud per la disperazione di essere stato lasciato. Finì in carcere per alcuni anni, perdonato poi da Rimbaud che comunque iniziò una vita errabonda e non rivide mai più l'amante. La loro importanza nella storia della poesia francese è indiscussa.
Un'altra coppia omosessuale icona di un movimento letterario è stata quella formata da Allen Ginsberg e Peter Orlovsky, di fatto l'immagine stessa della Beat Generation. É opportuno però precisare che parlando di talento letterario in senso stretto solo Ginsberg viene considerato un poeta degno di figurare nelle antologie, mentre Orlovsky è una figura di secondo piano.
Sempre a proposito di coppie-icona, quando si parla dell'esistenzialismo è automatico pensare a Jean-Paul Sartre e alla sua compagna Simone De Beauvoir, entrambi celebrati scrittori.
Tornando ancora ai poeti vengono in mente Ted Hughes e Sylvia Plath, ritenuti fra i massimi poeti di lingua inglese del XX secolo. La loro relazione coniugale è purtroppo passata alla storia anche a causa del suicidio di Sylvia, a proposito del quale sono state fatte numerose speculazioni di cattivo gusto.
In Italia l'esempio più noto è probabilmente il matrimonio fra gli scrittori Alberto Moravia ed Elsa Morante. Peraltro Moravia è stato successivamente legato a un'altra scrittrice, Dacia Maraini.
Ma di amori "letterari" analoghi ve ne sono stati molti altri. Ve ne ricordate qualcuno?
sabato 24 ottobre 2015
Scrittori raccomandati
Non ho mai cercato polemiche e non ho ancora cambiato politica. So che talvolta taluni scrittori riescono a pubblicare un libro o essere insigniti di un premio letterario solo grazie all'interessamento di amici che danno qualche opportuna ma invisibile spintarella al protetto di turno, ma non sto accusando nessuno. Questo post non nasce per lanciare accuse ad autori viventi.
Mi riferisco invece all'esistenza sempiterna di questa pratica anche nel caso di autori canonici per i quali è proprio il caso di dire: "Meno male che sono stati raccomandati!"
La vicenda più nota è quella di Italo Svevo, i cui romanzi vennero largamente ignorati dalla critica letteraria. Lui aveva però avuto modo di fare conoscenza con il celebre scrittore irlandese James Joyce che aveva peraltro apprezzato i suoi lavori, in particolare l'ancora inedito "La coscienza di Zeno". Joyce lo incoraggiò a pubblicarlo e volle inoltre segnalare l'opera ad alcuni suoi amici della rivista letteraria francese Le navire d'argent che parlarono largamente del libro in questione e del suo autore. Inevitabile che anche la critica italiana fu costretta ad accorgersi di Svevo.
Di Franz Kafka viene invece riportato un pettegolezzo piuttosto maligno a proposito della menzione che ricevette nell'edizione del 1915 del Premio Fontane, un premio letterario di ambito germanico che in quell'anno venne conferito a Carl Sternheim, il quale tuttavia volle devolvere quasi tutto il denaro ricevuto al secondo lui più meritevole Kafka, dando una discreta visibilità al giovane scrittore ceco. Il saggista americano Bill Peschel sostiene che tale generoso atto di Starnheim non fu spontaneo ma venne incoraggiato da Franz Blei, uno dei giurati che assegnava il premio, al quale successivamente Kafka avrebbe ricambiato il favore abbonandosi a una rivista di cui Blei era editore. Naturalmente ciò non toglie nulla al valore dell'opera narrativa di Franz Kafka.
Insomma, anche la raccomandazione può avere la sua utilità.
E a voi, se aveste la certezza di essere letterariamente meritevoli, piacerebbe essere raccomandati o vi vergognereste pensando che si tratterebbe comunque di una truffa ai danni della buona fede altrui?
Mi riferisco invece all'esistenza sempiterna di questa pratica anche nel caso di autori canonici per i quali è proprio il caso di dire: "Meno male che sono stati raccomandati!"
La vicenda più nota è quella di Italo Svevo, i cui romanzi vennero largamente ignorati dalla critica letteraria. Lui aveva però avuto modo di fare conoscenza con il celebre scrittore irlandese James Joyce che aveva peraltro apprezzato i suoi lavori, in particolare l'ancora inedito "La coscienza di Zeno". Joyce lo incoraggiò a pubblicarlo e volle inoltre segnalare l'opera ad alcuni suoi amici della rivista letteraria francese Le navire d'argent che parlarono largamente del libro in questione e del suo autore. Inevitabile che anche la critica italiana fu costretta ad accorgersi di Svevo.
Di Franz Kafka viene invece riportato un pettegolezzo piuttosto maligno a proposito della menzione che ricevette nell'edizione del 1915 del Premio Fontane, un premio letterario di ambito germanico che in quell'anno venne conferito a Carl Sternheim, il quale tuttavia volle devolvere quasi tutto il denaro ricevuto al secondo lui più meritevole Kafka, dando una discreta visibilità al giovane scrittore ceco. Il saggista americano Bill Peschel sostiene che tale generoso atto di Starnheim non fu spontaneo ma venne incoraggiato da Franz Blei, uno dei giurati che assegnava il premio, al quale successivamente Kafka avrebbe ricambiato il favore abbonandosi a una rivista di cui Blei era editore. Naturalmente ciò non toglie nulla al valore dell'opera narrativa di Franz Kafka.
Insomma, anche la raccomandazione può avere la sua utilità.
E a voi, se aveste la certezza di essere letterariamente meritevoli, piacerebbe essere raccomandati o vi vergognereste pensando che si tratterebbe comunque di una truffa ai danni della buona fede altrui?
martedì 28 aprile 2015
Scrittori ostili ai colleghi
Nell'edizione italiana di "Morte di mezza estate" di Yukio Mishima c'è una prefazione di Alberto Moravia in cui il romanziere rammenta il suo incontro col letterato giapponese. Tra le tante cose che lo sorpresero spiccano i commenti poco lusinghieri a proposito di scrittori nipponici suoi contemporanei:
Raccolto, calmo, sdegnoso, Mishima ha risposto con calcolata brutalità alle mie domande su personaggi ben noti: "Che ne pensa di A'A'?" . "Un uomo volgare" . "Di Z'Z'?" . "Un buffone" . "Di R'R'?" . "Un imbroglione senza scrupoli". E così via. Mishima in realtà pareva nutrire un profondo disprezzo per la società letteraria e non nascondeva di preferire (altra analogia con D'Annunzio) alla compagnia dei letterati quella degli aristocratici e degli industriali.
Tra gli scrittori in genere esiste una sorta di cameratismo. Questo non esclude rivalità o polemiche (ne ho parlato in altri post, ad esempio qui e qui e qui), e le dispute non mancano mai, ma un atteggiamento di disprezzo pressoché generalizzato verso tutti i colleghi è qualcosa di abnorme.
Il succitato caso di Yukio Mishima non è tuttavia unico.
Lo scrittore americano Truman Capote, noto soprattutto per "Colazione da Tiffany" e "A sangue freddo", nel corso di varie interviste ha espresso giudizi non proprio amichevoli su un numero enorme di romanzieri suoi contemporanei o di epoche passate. L'elenco (inevitabilmente incompleto) che segue riporta alcuni nomi e, accanto, le parole pronunciate da Capote nei loro confronti:
su William Faulkner: "Non sono un suo grande ammiratore. Non ha mai avuto la benché minima influenza su di me. Mi piacciono tre o quattro suoi racconti [...] Ma lui è soprattutto uno scrittore molto ambiguo e impulsivo. Non rientra tra gli scrittori che davvero rispetto. Conoscevo molto bene Faulkner. Era un mio grande amico. Cioè, per quanto si poteva essere suo amico... a meno che uno non fosse una ninfetta quattordicenne, certo. Allora sì che si poteva essere suoi grandi amici".
su Fedor Dostoevskij: "Gli interessa lo stile. Solo che il suo stile fa schifo".
su Gertrude Stein: "Mi è piaciuto il suo libro su Alice. Ma per il resto..."
su Thomas Pynchon: "Orrendo".
su Jack Kerouac: "Buffone, buffone, buffone".
su Virginia Woolf: "Non mi piace nessun suo romanzo. E li ho letti tutti. Ma mi piacciono la sua critica e il suo diario".
su Simone de Beauvoir: "Che Dio ce ne liberi".
su Jorge Luis Borges: "Uno scrittore di second'ordine. Molto bravo, mi piace, ma uno scrittore di second'ordine".
su Albert Camus: "E' ridicolo che abbiano dato il Nobel a Camus [...] Adoravo Camus, mi piaceva davvero tanto, ma se c'è uno scrittore di second'ordine quello è Camus".
su Gore Vidal: "Non ha mai scritto un romanzo leggibile, tranne 'Myra Breckinridge' [...] I suoi romanzi sono incredibilmente brutti".
su William Golding: "Non sono mai riuscito a finire i suoi libri, ero completamente annientato dalla noia [...] il fatto che Golding abbia improvvisamente vinto il Nobel è una tale barzelletta..."
su Pearl Buck: "Chiunque abbia potuto assegnare il premio [Nobel] a Pearl Buck dovrebbe farsi fare una visita psichiatrica".
su Saul Bellow: "Saul Bellow è una nullità come scrittore. Inesistente".
su Bernard Malamud: "Illeggibile".
su Joyce Carol Oates: "... anche solo vederla significa provare disgusto. Leggerla significa vomitare".
su John Updike: "Lo odio. Mi annoia tutto di lui [...] durante una cerimonia eravamo seduti vicini [...] Mentre chiacchieravamo gli dissi: 'Sai John, il tuo modo di scrivere non lo sopporto proprio'".
Che ne dite, qualcuno si sarà sentito offeso?
Raccolto, calmo, sdegnoso, Mishima ha risposto con calcolata brutalità alle mie domande su personaggi ben noti: "Che ne pensa di A'A'?" . "Un uomo volgare" . "Di Z'Z'?" . "Un buffone" . "Di R'R'?" . "Un imbroglione senza scrupoli". E così via. Mishima in realtà pareva nutrire un profondo disprezzo per la società letteraria e non nascondeva di preferire (altra analogia con D'Annunzio) alla compagnia dei letterati quella degli aristocratici e degli industriali.
Tra gli scrittori in genere esiste una sorta di cameratismo. Questo non esclude rivalità o polemiche (ne ho parlato in altri post, ad esempio qui e qui e qui), e le dispute non mancano mai, ma un atteggiamento di disprezzo pressoché generalizzato verso tutti i colleghi è qualcosa di abnorme.
Il succitato caso di Yukio Mishima non è tuttavia unico.
Lo scrittore americano Truman Capote, noto soprattutto per "Colazione da Tiffany" e "A sangue freddo", nel corso di varie interviste ha espresso giudizi non proprio amichevoli su un numero enorme di romanzieri suoi contemporanei o di epoche passate. L'elenco (inevitabilmente incompleto) che segue riporta alcuni nomi e, accanto, le parole pronunciate da Capote nei loro confronti:
su William Faulkner: "Non sono un suo grande ammiratore. Non ha mai avuto la benché minima influenza su di me. Mi piacciono tre o quattro suoi racconti [...] Ma lui è soprattutto uno scrittore molto ambiguo e impulsivo. Non rientra tra gli scrittori che davvero rispetto. Conoscevo molto bene Faulkner. Era un mio grande amico. Cioè, per quanto si poteva essere suo amico... a meno che uno non fosse una ninfetta quattordicenne, certo. Allora sì che si poteva essere suoi grandi amici".
su Fedor Dostoevskij: "Gli interessa lo stile. Solo che il suo stile fa schifo".
su Gertrude Stein: "Mi è piaciuto il suo libro su Alice. Ma per il resto..."
su Thomas Pynchon: "Orrendo".
su Jack Kerouac: "Buffone, buffone, buffone".
su Virginia Woolf: "Non mi piace nessun suo romanzo. E li ho letti tutti. Ma mi piacciono la sua critica e il suo diario".
su Simone de Beauvoir: "Che Dio ce ne liberi".
su Jorge Luis Borges: "Uno scrittore di second'ordine. Molto bravo, mi piace, ma uno scrittore di second'ordine".
su Albert Camus: "E' ridicolo che abbiano dato il Nobel a Camus [...] Adoravo Camus, mi piaceva davvero tanto, ma se c'è uno scrittore di second'ordine quello è Camus".
su Gore Vidal: "Non ha mai scritto un romanzo leggibile, tranne 'Myra Breckinridge' [...] I suoi romanzi sono incredibilmente brutti".
su William Golding: "Non sono mai riuscito a finire i suoi libri, ero completamente annientato dalla noia [...] il fatto che Golding abbia improvvisamente vinto il Nobel è una tale barzelletta..."
su Pearl Buck: "Chiunque abbia potuto assegnare il premio [Nobel] a Pearl Buck dovrebbe farsi fare una visita psichiatrica".
su Saul Bellow: "Saul Bellow è una nullità come scrittore. Inesistente".
su Bernard Malamud: "Illeggibile".
su Joyce Carol Oates: "... anche solo vederla significa provare disgusto. Leggerla significa vomitare".
su John Updike: "Lo odio. Mi annoia tutto di lui [...] durante una cerimonia eravamo seduti vicini [...] Mentre chiacchieravamo gli dissi: 'Sai John, il tuo modo di scrivere non lo sopporto proprio'".
Che ne dite, qualcuno si sarà sentito offeso?
domenica 12 aprile 2015
Risorgimento letterario
In attesa che ci sia davvero un risorgimento letterario nazionale a smuovere la superficie immota della palude narrativa italica, dedico un post ai letterati del Risorgimento storico: quelli del 1820-1860, gli uomini che si misero in gioco rischiando la libertà e la vita - e in molti casi persero l'una e l'altra - inseguendo il sogno di costruire una nuova Italia (che a distanza di un secolo e mezzo si è dimostrata tanto ingrata nei loro confronti).
Molti patrioti che presero parte ai moti insurrezionali unitari erano anche letterati.
Silvio Pellico è noto per il suo memoriale "Le mie prigioni", ma già prima della detenzione nel carcere asburgico dello Spielberg aveva scritto tragedie teatrali e poesie.
Massimo D'Azeglio fu autore di numerosi romanzi che ai suoi tempi ebbero grande successo. Al giorno d'oggi sono interessanti quasi esclusivamente per gli storici e gli studiosi della letteratura del XIX secolo.
Aleardo Aleardi fu prigioniero degli austriaci nel 1859 e autore di poesie, Santorre di Santarosa scrisse memoriali e saggi sulla lotta unitaria prima di morire in Grecia, Niccolò Tommaseo contribuì alla narrativa italiana col romanzo "Fede e bellezza" e al Risorgimento con la sua attività politica (che scontò con l'arresto da parte delle autorità asburgiche nel 1847) mentre Arnaldo Fusinato fu combattente e cantore della rivolta veneta del 1848 con una celebre poesia.
Alessandro Poerio e Goffredo Mameli - questi ultimi uccisi in combattimento nei moti del 1848/1849 - erano entrambi poeti (l'inno d'Italia è nato proprio da una poesia di Mameli).
Innumerevoli gli scritti autobiografici di coloro che ebbero la fortuna di sopravvivere alle campagne militari risorgimentali: da Francesco Anfossi a Giacinto Bruzzesi, da Giuseppe Bandi a Giuseppe Cesare Abba, è possibile mettere insieme un'infinità di volumi sui moti risorgimentali scritti da testimoni oculari che vi parteciparono attivamente.
Pochi sanno che persino Garibaldi fu scrittore. L'eroe dei due mondi, ormai leggenda vivente dopo la (quasi) raggiuntà unità nazionale del 1861, per riempire le giornate durante gli ultimi anni di vita a Caprera scrisse dei memoriali, un dramma teatrale in cinque atti ("Elisabetta d'Ungheria"), una raccolta di poesie ("Carme alla morte") e soprattutto due romanzi storici: "Clelia ovvero il governo dei preti", fortemente anticlericale e "Cantoni il volontario", celebrazione dei tanti giovani che combatterono durante il Risorgimento. La sua scarsa fortuna letteraria è dovuta al fatto che Garibaldi era più uomo d'azione che uomo di penna, come riconobbero bonariamente già i critici dell'epoca.
Comunque, se a qualcuno interessasse è possibile leggere entrambi i romanzi: qui trovate il primo e qui il secondo.
Molti patrioti che presero parte ai moti insurrezionali unitari erano anche letterati.
Silvio Pellico è noto per il suo memoriale "Le mie prigioni", ma già prima della detenzione nel carcere asburgico dello Spielberg aveva scritto tragedie teatrali e poesie.
Massimo D'Azeglio fu autore di numerosi romanzi che ai suoi tempi ebbero grande successo. Al giorno d'oggi sono interessanti quasi esclusivamente per gli storici e gli studiosi della letteratura del XIX secolo.
Aleardo Aleardi fu prigioniero degli austriaci nel 1859 e autore di poesie, Santorre di Santarosa scrisse memoriali e saggi sulla lotta unitaria prima di morire in Grecia, Niccolò Tommaseo contribuì alla narrativa italiana col romanzo "Fede e bellezza" e al Risorgimento con la sua attività politica (che scontò con l'arresto da parte delle autorità asburgiche nel 1847) mentre Arnaldo Fusinato fu combattente e cantore della rivolta veneta del 1848 con una celebre poesia.
Alessandro Poerio e Goffredo Mameli - questi ultimi uccisi in combattimento nei moti del 1848/1849 - erano entrambi poeti (l'inno d'Italia è nato proprio da una poesia di Mameli).
Innumerevoli gli scritti autobiografici di coloro che ebbero la fortuna di sopravvivere alle campagne militari risorgimentali: da Francesco Anfossi a Giacinto Bruzzesi, da Giuseppe Bandi a Giuseppe Cesare Abba, è possibile mettere insieme un'infinità di volumi sui moti risorgimentali scritti da testimoni oculari che vi parteciparono attivamente.
Pochi sanno che persino Garibaldi fu scrittore. L'eroe dei due mondi, ormai leggenda vivente dopo la (quasi) raggiuntà unità nazionale del 1861, per riempire le giornate durante gli ultimi anni di vita a Caprera scrisse dei memoriali, un dramma teatrale in cinque atti ("Elisabetta d'Ungheria"), una raccolta di poesie ("Carme alla morte") e soprattutto due romanzi storici: "Clelia ovvero il governo dei preti", fortemente anticlericale e "Cantoni il volontario", celebrazione dei tanti giovani che combatterono durante il Risorgimento. La sua scarsa fortuna letteraria è dovuta al fatto che Garibaldi era più uomo d'azione che uomo di penna, come riconobbero bonariamente già i critici dell'epoca.
Comunque, se a qualcuno interessasse è possibile leggere entrambi i romanzi: qui trovate il primo e qui il secondo.
martedì 17 marzo 2015
L'idea non basta
Una delle convinzioni tipiche di chi non scrive è che l'idea di base tramite la quale sviluppare una storia sia molto importante. L'ammirazione di molti lettori verso certi autori nasce soprattutto per l'originalità dello spunto di partenza.
In realtà l'idea in sé serve a ben poco se non viene sorretta da uno sviluppo valido e, soprattutto, da una narrazione capace di coinvolgere emotivamente il lettore. Tanto è vero che può capitare persino che uno spunto realmente peculiare fallisca.
Adesso vi accenno un'idea che nonostante la sua straordinaria originalità è stata insufficiente per dare il successo all'autore che l'ha concepita: un bambino nasce già vecchio e man mano che passano gli anni ringiovanisce...
Sento le voci in sottofondo, mi gridano: "Ehi, ma che stai dicendo? Questa è lo spunto di partenza de Il curioso caso di Benjamin Button che non è stato affatto un insuccesso, ci hanno tratto anche un film in tempi recenti!"
Vero. É una novella di Francis Scott Fitzgerald scritta nel 1922, ma a renderla unica è stato lo stile narrativo del grande scrittore americano, non l'idea in sé. Tanto è vero che questo spunto non è affatto originale: qualcuno lo aveva avuto prima di lui.
Il poeta torinese Giulio Gianelli (1879-1914), amico di Guido Gozzano e appartenente come lui all'area dei cosiddetti 'crepuscolari', nel 1911 (quindi undici anni prima di Fitzgerald) aveva pubblicato un libro per bambini il cui titolo non necessita di spiegazioni: Storia di Pipino nato vecchio e morto bambino. Si potrebbe obiettare che un libro per bambini è ben altra cosa rispetto a una racconto di narrativa mainstream, però ci sono numerosi esempi, proprio in quegli anni, di libri per bambini diventati successi mondiali: Pinocchio di Carlo Collodi (prima edizione 1883), Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll (prima edizione 1865) o Peter Pan di J.M. Barrie (prima messa in scena teatrale nel 1904). Anche volendosi limitare a un libro noto soltanto in Italia, Il giornalino di Gian Burrasca di Luigi Bertelli (prima edizione 1907) pur non avendolo forse mai letto quanto meno lo avrete sentito nominare. Mentre di Giulio Gianelli e del suo Storia di Pipino nato vecchio e morto bambino ne sapevate qualcosa? Eravate a conoscenza dell'esistenza di un libro simile?
Eppure l'idea era originalissima! Ma se il libro ha uno stile un po' noioso, poco coinvolgente, l'idea di partenza non può salvarlo dal farlo rimanere nel limbo delle mere curiosità letterarie note solo agli studiosi (se volete leggerlo per verificare di persona potete dare un'occhiata al testo integrale su questo link)
Conoscete altri casi simili?
In realtà l'idea in sé serve a ben poco se non viene sorretta da uno sviluppo valido e, soprattutto, da una narrazione capace di coinvolgere emotivamente il lettore. Tanto è vero che può capitare persino che uno spunto realmente peculiare fallisca.
Adesso vi accenno un'idea che nonostante la sua straordinaria originalità è stata insufficiente per dare il successo all'autore che l'ha concepita: un bambino nasce già vecchio e man mano che passano gli anni ringiovanisce...
Sento le voci in sottofondo, mi gridano: "Ehi, ma che stai dicendo? Questa è lo spunto di partenza de Il curioso caso di Benjamin Button che non è stato affatto un insuccesso, ci hanno tratto anche un film in tempi recenti!"
Vero. É una novella di Francis Scott Fitzgerald scritta nel 1922, ma a renderla unica è stato lo stile narrativo del grande scrittore americano, non l'idea in sé. Tanto è vero che questo spunto non è affatto originale: qualcuno lo aveva avuto prima di lui.
Il poeta torinese Giulio Gianelli (1879-1914), amico di Guido Gozzano e appartenente come lui all'area dei cosiddetti 'crepuscolari', nel 1911 (quindi undici anni prima di Fitzgerald) aveva pubblicato un libro per bambini il cui titolo non necessita di spiegazioni: Storia di Pipino nato vecchio e morto bambino. Si potrebbe obiettare che un libro per bambini è ben altra cosa rispetto a una racconto di narrativa mainstream, però ci sono numerosi esempi, proprio in quegli anni, di libri per bambini diventati successi mondiali: Pinocchio di Carlo Collodi (prima edizione 1883), Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll (prima edizione 1865) o Peter Pan di J.M. Barrie (prima messa in scena teatrale nel 1904). Anche volendosi limitare a un libro noto soltanto in Italia, Il giornalino di Gian Burrasca di Luigi Bertelli (prima edizione 1907) pur non avendolo forse mai letto quanto meno lo avrete sentito nominare. Mentre di Giulio Gianelli e del suo Storia di Pipino nato vecchio e morto bambino ne sapevate qualcosa? Eravate a conoscenza dell'esistenza di un libro simile?
Eppure l'idea era originalissima! Ma se il libro ha uno stile un po' noioso, poco coinvolgente, l'idea di partenza non può salvarlo dal farlo rimanere nel limbo delle mere curiosità letterarie note solo agli studiosi (se volete leggerlo per verificare di persona potete dare un'occhiata al testo integrale su questo link)
Conoscete altri casi simili?
lunedì 16 febbraio 2015
Scritture sperimentali del XX secolo (SECONDA PARTE)
Un autore che ha seguito un personalissimo percorso negli sperimentalismi letterari del XX secolo è sicuramente Tommaso Landolfi.
L'autore italiano ha prodotto opere molto diverse tra loro come stile e contenuti, inseguendo ogni volta nuove strade espressive.
Una delle sue scritture sperimentali più particolari è il racconto La passeggiata, nel quale sostituisce le parole più normalmente utilizzate dalla lingua italiana con sinonimi desueti od arcaici, non modificando quindi in alcun modo il senso della frase ma rendendola di difficilissima comprensione per il lettore medio.
Questo che segue è l'incipit del racconto:
La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima … Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!…
Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
— Dove le porti?
— Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per loro.
— E il mivolo, o il gobbello?
— Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Un altro esempio abbastanza noto è costituito dalla scrittrice americana Gertrude Stein, altra sperimentatrice modernista della prosa letteraria. Il suo lavoro più indicativo da questo punto di vista è The making of Americans (noto in Italia come C'era una volta gli americani) nel quale utilizza un linguaggio caratterizzato dalla ripetizione e dall'esagerazione verbale del medesimo concetto. Ne propongo un estratto per rendere meglio l'idea.
La signorina Charles era del tipo di quel tipo di uomini e donne che io conosco bene nella vita. Conosco bene tutte le varietà di quel tipo.
In ognuno di quei tipi ci sono quelli graziosi e quelli che non sono poi così graziosi, sono piacevoli e sono spiacevoli, sono quelli che hanno quel tipo d'essere ma così leggero che difficilmente poi li rende di quel tipo, ci sono alcuni di loro che hanno quel modo d'essere di quel tipo d'essere dentro di loro così concentrato che è meraviglioso vederli, vedere quel tipo d'essere così completo in un uomo o una donna.
La signorina Charles era del tipo d'essere che io conosco bene nella vita, decisamente bene nella vita, io conosco bene tutte le varietà del tipo d'essere che la signorina Charles era nella vita in tutte le molte numerose milioni di varietà mai vissute che avessero avuto o avessero quel tipo d'essere in loro.
Potrei reperire altri esempi, ma quelli portati sono sufficienti per tirare una conslusione e proporla a tutti coloro che bazzicano questo blog: queste forme di scrittura sperimentale sono suggestive ma anche un po' fini a se stesse, giochi eruditi difficili da apprezzare per la massa dei lettori. La loro utilità resta però quella di aver proposto nuove vie, nuovi modi che - resi meno ermetici - hanno modificato in modo creativo la maniera di scrivere anche di autori più convenzionali.
Siete d'accordo?
L'autore italiano ha prodotto opere molto diverse tra loro come stile e contenuti, inseguendo ogni volta nuove strade espressive.
Una delle sue scritture sperimentali più particolari è il racconto La passeggiata, nel quale sostituisce le parole più normalmente utilizzate dalla lingua italiana con sinonimi desueti od arcaici, non modificando quindi in alcun modo il senso della frase ma rendendola di difficilissima comprensione per il lettore medio.
Questo che segue è l'incipit del racconto:
La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima … Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.
In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d’esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi magolati, non si va neppure a spasso!…
Basta. Uscii dunque, e m’imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.
— Dove le porti?
— Agli aratori laggiù: vede, dov’è quell’essedo. C’è il crovello per loro.
— E il mivolo, o il gobbello?
— Bah, noialtri si fa senza.
E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai. Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.
Un altro esempio abbastanza noto è costituito dalla scrittrice americana Gertrude Stein, altra sperimentatrice modernista della prosa letteraria. Il suo lavoro più indicativo da questo punto di vista è The making of Americans (noto in Italia come C'era una volta gli americani) nel quale utilizza un linguaggio caratterizzato dalla ripetizione e dall'esagerazione verbale del medesimo concetto. Ne propongo un estratto per rendere meglio l'idea.
La signorina Charles era del tipo di quel tipo di uomini e donne che io conosco bene nella vita. Conosco bene tutte le varietà di quel tipo.
In ognuno di quei tipi ci sono quelli graziosi e quelli che non sono poi così graziosi, sono piacevoli e sono spiacevoli, sono quelli che hanno quel tipo d'essere ma così leggero che difficilmente poi li rende di quel tipo, ci sono alcuni di loro che hanno quel modo d'essere di quel tipo d'essere dentro di loro così concentrato che è meraviglioso vederli, vedere quel tipo d'essere così completo in un uomo o una donna.
La signorina Charles era del tipo d'essere che io conosco bene nella vita, decisamente bene nella vita, io conosco bene tutte le varietà del tipo d'essere che la signorina Charles era nella vita in tutte le molte numerose milioni di varietà mai vissute che avessero avuto o avessero quel tipo d'essere in loro.
Potrei reperire altri esempi, ma quelli portati sono sufficienti per tirare una conslusione e proporla a tutti coloro che bazzicano questo blog: queste forme di scrittura sperimentale sono suggestive ma anche un po' fini a se stesse, giochi eruditi difficili da apprezzare per la massa dei lettori. La loro utilità resta però quella di aver proposto nuove vie, nuovi modi che - resi meno ermetici - hanno modificato in modo creativo la maniera di scrivere anche di autori più convenzionali.
Siete d'accordo?
sabato 14 febbraio 2015
Scritture sperimentali del XX secolo (PRIMA PARTE)
Questo post sarà particolarmente lungo a causa della citazioni che vi sono incluse. D'altronde, se lo scopo è mostrare alcuni esempi di scritture sperimentali, dei campioni delle medesime sono fondamentali. Con una precisazione importante: un testo narrativo può essere giudicato solo nella sua integrità, le citazioni fuori contesto possono addirittura essere ingannevoli. Io però non voglio essere ingannevole, intendo solo fornire alcuni esempi di sperimentalismi letterari.
Come saprete nel XX secolo hanno avuto un ruolo importante. Molti letterati, con l'intento di rinnovare la scrittura, hanno tentato la loro personale via.
Un caso celebre è quello di James Joyce e il "flusso di coscienza" (stream of consciousness). Si può descrivere in breve come il il tentativo di rendere la spontaneità del procedere del pensiero, quindi senza un'organizzazione logica del discorso. Questo estratto che segue dal romanzo più famoso di Joyce, Ulisse, può rendere l'idea: si parte da un dialogo fra due personaggi e la scrittura inizia in forma convenzionale, ma poi man mano la narrazione si mescola col libero scorrere dei pensieri di Leopold Bloom e si disperde in divagazioni raccontate con la stessa spontanità disordinata con la quale fluirebbero nella sua mente.
- Il volantino, disse Mr Bloom.
Bantam Lyons alzò gli occhi all’improvviso sbirciando debolmente.
- Come hai detto? disse la sua voce acuta.
- Che puoi tenerlo, rispose Mr Bloom. Col volantino.
Bantan Lyons rimase in dubbio per un istante, sbirciando di traverso: poi respinse di nuovo le pagine aperte sulle braccia di Mr Bloom.
- Ci azzardo una puntata, disse. Ecco, grazie.
Si affrettò verso l’angolo del Conway’s. Coda di coniglio in gran fuga.
Mr Bloom ripiegò le pagine fino a formare un quadrato perfetto e vi adagiò dentro la saponetta, sorridente. Labbra stupide quel tizio. Scommettere. Un normale focolaio di vizi ultimamente. Fattorini che rubano per scommettersi sei pence. Riffa per un gran tacchino tenero. La cena di Natale per tre pence. Jack Fleming colpevole di appropriazione indebita per scommettere e poi se la fila in America. Ora gestisce un hotel. Non ritornano mai. Pignatte d’Egitto.
Camminò allegramente verso la moschea dei bagni. Ti ricordano una moschea quei mattoncini rossi, minareti. Oggi attività sportive al college, vedo. Adocchiò il poster a ferro di cavallo sopra il cancello del parco del college: un ciclista piegato in due come un pesce sgusciante in pentola. Pubblicità davvero brutta. Ora, se l’avessero fatto rotondo come una ruota. E poi i raggi: sport, sport, sport: e il mozzo della ruota grande: college. Qualcosa che catturi l’attenzione.
C’è Hornblower in piedi in portineria. Scambiaci due chiacchiere: potresti farti un giretto informale all’interno. Come sta, Mr Hornblower? Come sta, signore?
Proprio un tempo fantastico. Se la vita fosse sempre così. Tempo da cricket. Seduto lì all’ombra. Un over dopo l’altro. Non sanno giocare qui. Zero punti per sei wicket. Ma Captain Buller ha rotto una finestra al club di Kildare street con uno slog diretto a sinistra. Più facile che arrivava alla fiera di Donnybrook. E i crani che spaccavamo quando scendeva in campo M’Carthy. Onda di calore. Non durerà. Passa sempre, il flusso della vita, quanto nel flusso della vita rintracciamo ci è più caro di tutto il resto.
Ora goditi il bagno: tinozza pulita piena d’acqua, smalto fresco, il flusso tiepido, delicato. Ecco il mio corpo.
I romanzi di Joyce sono diventati casi letterari e hanno fruttato il Nobel all'autore. Ancora oggi vengono pubblicati e letti.
Altri sperimentalismi hanno avuto meno fortuna e vengono ricordati più come folklore letterario. La prosa futurista di Filippo Tommaso Marinetti è il tipico esempio: in tutte le antologie si parla di questo movimento avanguardista per l'impatto che ebbe, peraltro duraturo e giudicato positivamente ancora oggi soprattutto nell'ambito della pittura e dell'architettura, ma è difficile trovare critici che considerino la narrativa di Marinetti poco più che una curiosità per studiosi e critici. Nelle sue intenzioni Marinetti puntava addirittura a stravolgere le regole grammaticali, almeno secondo il Manifesto tecnico della letteratura futurista nel quale sosteneva di voler "distruggere la sintassi", "abolire l'aggettivo" o che ogni sostantivo doveva "avere il suo doppio". All'atto pratico si limitò all'uso di metafore incoerenti, aggettivi inusitati rispetto al sostantivo al quale si riferiscono e abbinamenti impossibili come suoni con caratteristiche visuali o - per contro - immagini con caratteristiche sonore. Questo che segue è un estratto di Mafarka il futurista.
Allora Gazurmah s'innalzò di nuovo, per contemplare una catena di monti neonati, tutti azzurri sotto le loro mille cime color rosa, dromedari di una immensa carovana che brandì improvvisamente le sue scimitarre insanguinate e poi crollò giù, in mezzo a un ampio sventolio di vapori rossigni. Furono dapprima bandiere che si sfilacciarono a poco a poco, lontanissimo, sulla sussultante agonia di una montagna dalle ferite trionfali.
Enorme, questa girava su sé stessa, lanciava avanti il ventre, indietro la groppa, secondo il ritmo di una danza sotterranea, tanto più spaventevole che pareva svolgersi in un silenzio assoluto.
Finalmente la montagna si immobilizzò, morta, reclinata la fronte, facendo dondolare all'estremità d'un muscolo di verzura, il suo cuore di granito nero, strappato.
Allora Gazurmah s'involò rapidissimo sul mare bianco, oleoso e calmo. E, mentre scavalcava il promontorio del Sud, vide scavarsi in alto mare un abisso, incommensurabile buco nella sugna lucente delle acque.
L'atmosfera era attenta, e tranne quel vasto abisso centrale, la superficie del mare rimaneva immota. Gazurmah si volgeva, a quando a quando, per ammirare l'impeto astioso dei monti lanciati a galoppo e le flessioni tremanti delle valli, sotto il ventaglio convulsivo delle foreste sradicate, mentre, molto in alto, le cime si accoppiavano elasticamente, emettendo lunghi sibili di luce gialla.
Fornirò altri esempi nella seconda parte di questo post, fra pochi giorni.
Come saprete nel XX secolo hanno avuto un ruolo importante. Molti letterati, con l'intento di rinnovare la scrittura, hanno tentato la loro personale via.
Un caso celebre è quello di James Joyce e il "flusso di coscienza" (stream of consciousness). Si può descrivere in breve come il il tentativo di rendere la spontaneità del procedere del pensiero, quindi senza un'organizzazione logica del discorso. Questo estratto che segue dal romanzo più famoso di Joyce, Ulisse, può rendere l'idea: si parte da un dialogo fra due personaggi e la scrittura inizia in forma convenzionale, ma poi man mano la narrazione si mescola col libero scorrere dei pensieri di Leopold Bloom e si disperde in divagazioni raccontate con la stessa spontanità disordinata con la quale fluirebbero nella sua mente.
- Il volantino, disse Mr Bloom.
Bantam Lyons alzò gli occhi all’improvviso sbirciando debolmente.
- Come hai detto? disse la sua voce acuta.
- Che puoi tenerlo, rispose Mr Bloom. Col volantino.
Bantan Lyons rimase in dubbio per un istante, sbirciando di traverso: poi respinse di nuovo le pagine aperte sulle braccia di Mr Bloom.
- Ci azzardo una puntata, disse. Ecco, grazie.
Si affrettò verso l’angolo del Conway’s. Coda di coniglio in gran fuga.
Mr Bloom ripiegò le pagine fino a formare un quadrato perfetto e vi adagiò dentro la saponetta, sorridente. Labbra stupide quel tizio. Scommettere. Un normale focolaio di vizi ultimamente. Fattorini che rubano per scommettersi sei pence. Riffa per un gran tacchino tenero. La cena di Natale per tre pence. Jack Fleming colpevole di appropriazione indebita per scommettere e poi se la fila in America. Ora gestisce un hotel. Non ritornano mai. Pignatte d’Egitto.
Camminò allegramente verso la moschea dei bagni. Ti ricordano una moschea quei mattoncini rossi, minareti. Oggi attività sportive al college, vedo. Adocchiò il poster a ferro di cavallo sopra il cancello del parco del college: un ciclista piegato in due come un pesce sgusciante in pentola. Pubblicità davvero brutta. Ora, se l’avessero fatto rotondo come una ruota. E poi i raggi: sport, sport, sport: e il mozzo della ruota grande: college. Qualcosa che catturi l’attenzione.
C’è Hornblower in piedi in portineria. Scambiaci due chiacchiere: potresti farti un giretto informale all’interno. Come sta, Mr Hornblower? Come sta, signore?
Proprio un tempo fantastico. Se la vita fosse sempre così. Tempo da cricket. Seduto lì all’ombra. Un over dopo l’altro. Non sanno giocare qui. Zero punti per sei wicket. Ma Captain Buller ha rotto una finestra al club di Kildare street con uno slog diretto a sinistra. Più facile che arrivava alla fiera di Donnybrook. E i crani che spaccavamo quando scendeva in campo M’Carthy. Onda di calore. Non durerà. Passa sempre, il flusso della vita, quanto nel flusso della vita rintracciamo ci è più caro di tutto il resto.
Ora goditi il bagno: tinozza pulita piena d’acqua, smalto fresco, il flusso tiepido, delicato. Ecco il mio corpo.
I romanzi di Joyce sono diventati casi letterari e hanno fruttato il Nobel all'autore. Ancora oggi vengono pubblicati e letti.
Altri sperimentalismi hanno avuto meno fortuna e vengono ricordati più come folklore letterario. La prosa futurista di Filippo Tommaso Marinetti è il tipico esempio: in tutte le antologie si parla di questo movimento avanguardista per l'impatto che ebbe, peraltro duraturo e giudicato positivamente ancora oggi soprattutto nell'ambito della pittura e dell'architettura, ma è difficile trovare critici che considerino la narrativa di Marinetti poco più che una curiosità per studiosi e critici. Nelle sue intenzioni Marinetti puntava addirittura a stravolgere le regole grammaticali, almeno secondo il Manifesto tecnico della letteratura futurista nel quale sosteneva di voler "distruggere la sintassi", "abolire l'aggettivo" o che ogni sostantivo doveva "avere il suo doppio". All'atto pratico si limitò all'uso di metafore incoerenti, aggettivi inusitati rispetto al sostantivo al quale si riferiscono e abbinamenti impossibili come suoni con caratteristiche visuali o - per contro - immagini con caratteristiche sonore. Questo che segue è un estratto di Mafarka il futurista.
Allora Gazurmah s'innalzò di nuovo, per contemplare una catena di monti neonati, tutti azzurri sotto le loro mille cime color rosa, dromedari di una immensa carovana che brandì improvvisamente le sue scimitarre insanguinate e poi crollò giù, in mezzo a un ampio sventolio di vapori rossigni. Furono dapprima bandiere che si sfilacciarono a poco a poco, lontanissimo, sulla sussultante agonia di una montagna dalle ferite trionfali.
Enorme, questa girava su sé stessa, lanciava avanti il ventre, indietro la groppa, secondo il ritmo di una danza sotterranea, tanto più spaventevole che pareva svolgersi in un silenzio assoluto.
Finalmente la montagna si immobilizzò, morta, reclinata la fronte, facendo dondolare all'estremità d'un muscolo di verzura, il suo cuore di granito nero, strappato.
Allora Gazurmah s'involò rapidissimo sul mare bianco, oleoso e calmo. E, mentre scavalcava il promontorio del Sud, vide scavarsi in alto mare un abisso, incommensurabile buco nella sugna lucente delle acque.
L'atmosfera era attenta, e tranne quel vasto abisso centrale, la superficie del mare rimaneva immota. Gazurmah si volgeva, a quando a quando, per ammirare l'impeto astioso dei monti lanciati a galoppo e le flessioni tremanti delle valli, sotto il ventaglio convulsivo delle foreste sradicate, mentre, molto in alto, le cime si accoppiavano elasticamente, emettendo lunghi sibili di luce gialla.
Fornirò altri esempi nella seconda parte di questo post, fra pochi giorni.
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