Uno degli atteggiamenti più odiosi da
parte di chi scrive (o scribacchia come il qui presente) è l’eccesso
di ermetismo. La simbolizzazione degli elementi narrativi seguendo
una chiave di lettura che non è così scontata per il lettore.
I famigerati manuali di scrittura
vietano tassativamente di spiegare in forma esplicita il senso di una
trama o anche di un singolo episodio. Show, don’t tell e in
certi contesti va benissimo. Ma se io show una tessera che va
inserita in un mosaico, dovrò pure tell qualche suggerimento
riguardo al mosaico, altrimenti il lettore rimarrà con un mucchietto
confuso di tessere inutili.
Perciò, per dire, la mia novella
“Iperbole” ha anche un’introduzione con le relative spiegazioni
sul testo. Ovviamente avviso il lettore dello spoiler e lo invito –
se lo preferisce – a saltarla e tentare la lettura diretta. Qualora
cambiasse idea può sempre tornare indietro.
Però, evidentemente, sono caduto
nell’errore di ritenere una narrazione chiara laddove non lo era
affatto.
Mi riferisco a “Cronaca di natale”,
novella mainstream, psicologica, per la quale credevo di non aver
complicato troppo il mosaico interpretativo.
Nella mia mente io la vedo in questi
termini (uso le stesse parole con le quali l’ho presentata a un
editore):
Il tema della novella
è la “linea d’ombra” dei trent’anni, il momento in cui non
si possono più rimandare (o almeno non si dovrebbero più rimandare)
le scelte su cosa si vuole fare “da grandi”. Il contesto
natalizio accentua l’idea della solitudine e dell’anarchia
mentale del protagonista in un momento dell’anno che dovrebbe
riunire le famiglie e fondarsi sulla tradizione. Il protagonista é
invece estraniato da questo meccanismo. Il titolo del romanzo ricalca
il “Canto di Natale” di Dickens, il noto racconto fiabesco sulla
magia natalizia, che per Aldo Damiani è solo “cronaca”. Lo
spirito dei natali passati è rappresentato da una serie di flashback
che rievocano speranze e delusioni, quello del futuro solo dal buio
del cinema in cui si conclude il romanzo. A differenza di Ebenezer
Scrooge, Aldo non sarà un uomo nuovo alla fine delle feste, ma sarà
semmai ancora di più se stesso, il vero se stesso, colui che in
fondo è disposto a correre il rischio dell’isolamento sociale
derivante dal non fare compromessi con la realtà, senza però
trasformarsi in un vecchio avido e disilluso, ma semplicemente nel
tipico uomo eccentrico di cui spesso si sente parlare nei
pettegolezzi della gente di provincia.
Insomma, questa era il
mio intento. Inoltre nel capitolo XII (che non è quello conclusivo)
c’è un’affermazione della voce narrante:
Era un finale poco
spettacolare, ma Aldo non amava i finali spettacolari. Secondo lui le
storie migliori erano quelle che colpivano nel loro insieme, non
quelle in cui l’intera vicenda serve esclusivamente a fare da
prologo all’istante conclusivo. Storie di questo tipo gli
sembravano artificiose, perché gli davano l’impressione che prima
fosse stato scritto il finale, e solo successivamente aggiunti un
principio ed uno svolgimento che giustificassero questo finale. Nella
vita reale non accade mai niente del genere: il principio viene per
primo, e il finale segue, senza l’obbligo di essere eclatante,
anzi, spesso si rivela fastidiosamente ordinario.
A me pareva che
la conclusione della storia (che non rivelo, e comunque non è
eclatante) fosse perfetta per la narrazione. Invece mi sono sentito
dire un sacco di volte che il finale non va bene perché non spiega
cosa succederà dopo al protagonista e agli altri personaggi.
Evidentemente la chiave
di lettura che ho concepito non è così chiara come credevo. Più
verosimilmente, non è raccontata nella maniera corretta.
Quindi ho costruito (da
autore) la situazione che più odio da lettore: una narrazione dal
significato incerto con una trama che appare incompleta.
Visto che nel 2014 mi
cimenterò nel già annunciato ultimo tentativo di redigere una
novella mainstream soddisfacente, terrò a mente questa lezione.