Chi segue il mio blog sa bene che, al pari del natale, non vivo serenamente neppure la Pasqua.
Sono un cristiano quasi mio malgrado (detto così suona grottesco ma non trovo una definizione migliore) e so, anche per esperienza diretta, che ogni tanto bisogna attraversare un calvario di dolori e umiliazioni per essere degni (non è blasfemia, piuttosto eresia. D'altronde il nickname "ariano" non è riferito a ridicole teorie razziali ma a un vescovo eretico vissuto secoli fa).
Già in un'occasione avevo augurato la Pasqua con una poesia, questa'anno mi ripeto fondendo la celebrazione cristiana con una forma lirica tipicamente giapponese, l'haiku, con la quale mi sono già vergognosamente cimentato in passato, sottolineando l'elemento stagionale - la primavera - in relazione al mistero religioso:
Mistero e sangue,
morte genera vita.
Fiori sbocciati.
Buona resurrezione a tutti.
venerdì 25 marzo 2016
domenica 20 marzo 2016
Letterati suicidi - prima parte
Essendo incorso durante la mia vita in due crisi depressive abbastanza prolungate, sono passato anche attraverso la fase in cui strani pensieri martellano a fasi alterne la mente. Un po' per questa ragione e un po' - all'estremo opposto - per esorcizzare gli strani pensieri in questione, mi sono spesso interessato alle biografie di artisti e letterati che si sono dati la morte volontariamente.
Lo spirito di questo doppio post è riferito proprio all'aspetto esorcizzante e non va assolutamente inteso come un elogio del suicidio. Non va neppure considerato come un post frivolo che banalizza il senso di un gesto estremo riducendolo a un mero elemento biografico che accomuna alcuni scrittori e poeti: reputo che si debba sempre nutrire un profondo rispetto per quelle persone che si sono tolte la vita poiché dietro tale scelta si annida sicuramente un oscuro disagio esistenziale, giustificato o ingiustificato che sia.
Poiché i letterati sanno esprimere immagini e concetti straordinari con l'uso della parola scritta, un'attenzione particolare l'ho avuta soprattutto per le lettere d'addio.
Una delle più celebri è quella di Virginia Woolf (1882-1941) che dopo aver sperimentato stati di grave esaurimento nervoso nel corso della sua esistenza si sentiva ormai troppo anziana per affrontarne altri evidentemente imminenti. Soprattutto, non voleva più essere di peso al marito al quale dedicò frasi cariche di affetto:
Carissimo, sono sicura che sto impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare questa terribile situazione un'altra volta. Stavolta non riuscirei a riprendermi. Comincio a sentire delle voci e non riesco a concentrami. Perciò sto per fare ciò che mi sembra la miglior cosa da fare [...] tutta la felicità della mia vita la devo a te. Sei stato pienamente paziente con me e incredibilmente buono [...] Non posso più continuare a rovinarti l'esistenza.
Un'altra lettera di addio celebre è quella di Stefan Zweig (1881-1942), scrittore austriaco europeista convinto che, dopo aver vissuto con orrore il massacro della Prima Guerra Mondiale e l'avvento del nazismo, non accettava l'idea di assistere a una nuova mattanza e all'accanimento atroce contro la sua gente (Zweig era di ascendenza ebraica). Esule in Brasile, si tolse la vita insieme alla moglie che condivise con lui la scelta, lasciando una nota in cui diceva:
Ogni giorno amo questo paese di più, e non avrei potuto chiedere di ricostruire la mia vita in nessun altro luogo ora che la parte di mondo dove si parla la mia lingua sta sprofondando e la mia patria spirituale, l'Europa, si sta autodistruggendo. Ma per ripartire da zero un uomo di sessant'anni necessita di energie speciali, e io le mie le ho esaurite nel corso di anni di peregrinazioni senza fissa dimora [...] Saluto i miei amici: possano vivere e vedere l'alba di questa lunga notte. Io, che sono più impaziente, me ne vado prima di loro.
Lo scrittore americano Robert Ervin Howard (1906-1936), creatore del celebre guerriero "barbaro" Conan, soffrì spesso di crisi depressive nel corso della sua breve vita. Quando sua madre si ammalò gravemente venne sopraffatto dalla frustrazione di vederla spegnersi lentamente senza poter fare nulla per salvarla e pose fine ai propri giorni. Le ultime parole che scrisse furono due versi rimati (in inglese ovviamente) che evocano le atmosfere dei suoi romanzi:
Tutto è andato, tutto é finito, perciò ponetemi sulla pira:
la festa è terminata e i lumi si spengono.
Cesare Pavese (1908-1950), a sua volta spesso tormentato da crisi depressive, lasciò invece un biglietto assai laconico nel quale sembra emergere una sorta di fastidio verso il mondo che stava lasciando:
Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.
Lo scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa (1892-1927), soggetto a turbe psichiche e frequenti stati di alienazione mentale, lasciò a un amico una lunga spiegazione scritta relativa alla sua decisione di suicidarsi (un tema peraltro presente in alcuni suoi racconti) ma come motivazione del proprio gesto si limitò ad affermare che vi era spinto da
un vago senso di ansia per il mio futuro.
Non sempre tuttavia i letterati che si tolgono la vita ne spiegano le ragioni con parole scritte, sebbene siano sempre facilmente intuibili. In fondo le motivazioni del togliersi la vita sono ricorrenti: incapacità di affrontare una malattia o la vecchiaia (Henry de Montherlant non sopportava l'idea di diventare cieco), depressione, delusione per il crollo degli ideali in cui si credeva, rifiuto di essere pubblicamente infamati, atto estremo per evitare di essere arrestati o uccisi (Pierre Drieu la Rochelle, collaborazionista coi nazisti, non poteva certo sperare di cavarsela quando i partigiani francesi entrarono a Parigi), il trauma per la scomparsa di una persona cara (Sàndor Màrai si tolse la vita pochi mesi dopo aver visto morire prima sua moglie e poi il figlio adottivo).
Nel prossimo post sull'argomento, dopo l'intermezzo pasquale, parlerò di suicidi dalle sfaccettature più complesse.
Lo spirito di questo doppio post è riferito proprio all'aspetto esorcizzante e non va assolutamente inteso come un elogio del suicidio. Non va neppure considerato come un post frivolo che banalizza il senso di un gesto estremo riducendolo a un mero elemento biografico che accomuna alcuni scrittori e poeti: reputo che si debba sempre nutrire un profondo rispetto per quelle persone che si sono tolte la vita poiché dietro tale scelta si annida sicuramente un oscuro disagio esistenziale, giustificato o ingiustificato che sia.
Poiché i letterati sanno esprimere immagini e concetti straordinari con l'uso della parola scritta, un'attenzione particolare l'ho avuta soprattutto per le lettere d'addio.
Una delle più celebri è quella di Virginia Woolf (1882-1941) che dopo aver sperimentato stati di grave esaurimento nervoso nel corso della sua esistenza si sentiva ormai troppo anziana per affrontarne altri evidentemente imminenti. Soprattutto, non voleva più essere di peso al marito al quale dedicò frasi cariche di affetto:
Carissimo, sono sicura che sto impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare questa terribile situazione un'altra volta. Stavolta non riuscirei a riprendermi. Comincio a sentire delle voci e non riesco a concentrami. Perciò sto per fare ciò che mi sembra la miglior cosa da fare [...] tutta la felicità della mia vita la devo a te. Sei stato pienamente paziente con me e incredibilmente buono [...] Non posso più continuare a rovinarti l'esistenza.
Un'altra lettera di addio celebre è quella di Stefan Zweig (1881-1942), scrittore austriaco europeista convinto che, dopo aver vissuto con orrore il massacro della Prima Guerra Mondiale e l'avvento del nazismo, non accettava l'idea di assistere a una nuova mattanza e all'accanimento atroce contro la sua gente (Zweig era di ascendenza ebraica). Esule in Brasile, si tolse la vita insieme alla moglie che condivise con lui la scelta, lasciando una nota in cui diceva:
Ogni giorno amo questo paese di più, e non avrei potuto chiedere di ricostruire la mia vita in nessun altro luogo ora che la parte di mondo dove si parla la mia lingua sta sprofondando e la mia patria spirituale, l'Europa, si sta autodistruggendo. Ma per ripartire da zero un uomo di sessant'anni necessita di energie speciali, e io le mie le ho esaurite nel corso di anni di peregrinazioni senza fissa dimora [...] Saluto i miei amici: possano vivere e vedere l'alba di questa lunga notte. Io, che sono più impaziente, me ne vado prima di loro.
Lo scrittore americano Robert Ervin Howard (1906-1936), creatore del celebre guerriero "barbaro" Conan, soffrì spesso di crisi depressive nel corso della sua breve vita. Quando sua madre si ammalò gravemente venne sopraffatto dalla frustrazione di vederla spegnersi lentamente senza poter fare nulla per salvarla e pose fine ai propri giorni. Le ultime parole che scrisse furono due versi rimati (in inglese ovviamente) che evocano le atmosfere dei suoi romanzi:
Tutto è andato, tutto é finito, perciò ponetemi sulla pira:
la festa è terminata e i lumi si spengono.
Cesare Pavese (1908-1950), a sua volta spesso tormentato da crisi depressive, lasciò invece un biglietto assai laconico nel quale sembra emergere una sorta di fastidio verso il mondo che stava lasciando:
Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.
Lo scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa (1892-1927), soggetto a turbe psichiche e frequenti stati di alienazione mentale, lasciò a un amico una lunga spiegazione scritta relativa alla sua decisione di suicidarsi (un tema peraltro presente in alcuni suoi racconti) ma come motivazione del proprio gesto si limitò ad affermare che vi era spinto da
un vago senso di ansia per il mio futuro.
Non sempre tuttavia i letterati che si tolgono la vita ne spiegano le ragioni con parole scritte, sebbene siano sempre facilmente intuibili. In fondo le motivazioni del togliersi la vita sono ricorrenti: incapacità di affrontare una malattia o la vecchiaia (Henry de Montherlant non sopportava l'idea di diventare cieco), depressione, delusione per il crollo degli ideali in cui si credeva, rifiuto di essere pubblicamente infamati, atto estremo per evitare di essere arrestati o uccisi (Pierre Drieu la Rochelle, collaborazionista coi nazisti, non poteva certo sperare di cavarsela quando i partigiani francesi entrarono a Parigi), il trauma per la scomparsa di una persona cara (Sàndor Màrai si tolse la vita pochi mesi dopo aver visto morire prima sua moglie e poi il figlio adottivo).
Nel prossimo post sull'argomento, dopo l'intermezzo pasquale, parlerò di suicidi dalle sfaccettature più complesse.
martedì 15 marzo 2016
Collaborazioni incrociate... again?
Circa cinque anni fa (come passa il tempo, eh?) il qui presente blogger pubblicò questo post per rendere partecipe il mondo intero dell'esperienza che stava sperimentando insieme all'amico Temistocle, ovvero: una collaborazione incrociata.
Lui aveva due racconti inconclusi nel cassetto, io avevo una bozza di romanzo incompiuto sotto il letto (sono molto più disordinato di Temistocle, lo ammetto ;-) e ce li siamo pertanto scambiati per vedere se riuscivamo a terminare l'uno il lavoro dell'altro.
É stata un'esperienza simpatica che ha contribuito a cementare il rapporto che ci legava sul web e che continua ancora oggi.
Mi piacerebbe ripetere un'esperienza del genere perciò mi chiedevo: c'è nessuno fra i frequentatori di questo blog che cela nel proprio armadio un povero racconto rimasto orfano della conclusione? É disposto a correre il rischio di affidarlo a un estraneo per verificare se saprebbe portare a compimento il suo sviluppo elaborando il finale che ancora gli manca? E al tempo stesso, accoglierebbe nel proprio cassetto una trama inconclusa di uno scribacchino senza arte né parte?
Fatemi sapere ;-)
Lui aveva due racconti inconclusi nel cassetto, io avevo una bozza di romanzo incompiuto sotto il letto (sono molto più disordinato di Temistocle, lo ammetto ;-) e ce li siamo pertanto scambiati per vedere se riuscivamo a terminare l'uno il lavoro dell'altro.
É stata un'esperienza simpatica che ha contribuito a cementare il rapporto che ci legava sul web e che continua ancora oggi.
Mi piacerebbe ripetere un'esperienza del genere perciò mi chiedevo: c'è nessuno fra i frequentatori di questo blog che cela nel proprio armadio un povero racconto rimasto orfano della conclusione? É disposto a correre il rischio di affidarlo a un estraneo per verificare se saprebbe portare a compimento il suo sviluppo elaborando il finale che ancora gli manca? E al tempo stesso, accoglierebbe nel proprio cassetto una trama inconclusa di uno scribacchino senza arte né parte?
Fatemi sapere ;-)
giovedì 10 marzo 2016
I limiti espressivi della narrazione scritta
Qualche giorno fa ho letto un post molto grazioso sul blog di Cristina Cavaliere in cui venivano accostati i cinque sensi a cinque libri e cinque quadri che in qualche modo potrebbero simboleggiarli (quanto meno dal punto di vista del blogger).
L'approccio sensoriale ci trasmette l'apprendimento diretto, che sviluppiamo nella nostra mente per poi immagazzinarlo nella memoria come patrimonio di conoscenza. Però i cinque sensi, sebbene collaborino l'uno con l'altro, hanno una rilevanza diversa. Vi sono studi scientifici secondo i quali l'uso della vista tende a essere esageratamente preponderante, arrivando addirittura (secondo un'ipotesi) a far ridurre l'uso degli altri sensi persino relativamente a percezioni che richiederebbero maggiormente l'uso delle orecchie o del naso anziché quello degli occhi.
Da questo punto di vista la scrittura ha lo svantaggio di essere collegata all'uso della vista ma solo in termini concettuali. Una tradizionale pagina scritta non utilizza immagini o figure che, invece, stimolano maggiormente l'occhio (è una lezione ben compresa da molti blogger che integrano i loro articoli con fotografie, disegni, eleganza grafica del blog stesso).
Parlando quindi di fiction, il cinema - specialmente certi blockbuster hollywoodiani pieni di CGI spettacolari - o anche il fumetto, hanno una sorta di vantaggio espressivo rispetto al romanzo: una superiore potenzialità recettiva per il ricevente grazie alla succitata preponderanza della percezione sensoriale, tramite la vista, di figure definite anziché di concetti.
Ci scherzavo commentando un post di Andrea Cabassi sulla crisi della narrativa di fantascienza notando come invece la SF cinematografica (e fumettistica) sembra godere di ottima salute. L'orgia di colori e di azione di una pellicola 3D riesce probabilmente a colpire l'attenzione più di una descrizione scritta.
Quindi - ipotesi per assurdo - la narrativa farebbe meglio a concentrarsi su quel tipo di elementi che sono meno adatti a una percezione sensoriale diretta? Ad esempio l'approfondimento psicologico, l'esposizione di stati d'animo, etc.? In questo modo, però, si imporrebbe dei limiti. Paradosso estremo: imporsi dei limiti contenutistici per superare i propri limiti espressivi.
No, penso che la scrittura debba comunque sforzarsi di raccontare ciò che non può rappresentare esplicitamente a causa dei propri limiti espressivi intrinseci. Deve raccontarlo usando un punto di vista diverso.
Prendiamo ad esempio il suono. Un suono va ascoltato. Lo si può evocare per iscritto, ma la sua descrizione, per quanto accurata, non ci permetterà mai di udirlo materialmente. E allora, più che descrivere il suono, bisogna trasformarlo in qualcosa di diverso ai fini della narrazione. Bisogna concettualizzarlo, per così dire. Concludo quindi questo post citando un passaggio di "Casa Howard" di E.M. Forster in cui una delle protagoniste, Helen, sta ascoltando la Quinta Sinfonia di Beethoven durante un concerto. Questo è il modo in cui Forster racconta la musica: non descrivendola ma evocando il suo effetto sul personaggio, le visioni che essa le suscita, la sua contemplazione delle reazioni alla sinfonia in coloro che le stanno vicino.
Era infatti cominciato l'Andante - bellissimo, ma con una certa aria di famiglia con tutti gli altri bellissimi Andanti che Beethoven ha scritto e, a giudizio di Helen, tale da staccare gli eroi e i naufraghi del Primo Tempo dagli eroi e i folletti del Terzo. Essa ascoltò il tema una volta; poi si divagò e si mise a osservare ora il pubblico, ora l'organo, ora l'architettura. Criticò molto i fragili Cupidi che cingono il soffitto della Queen's Hall, inclinati l'uno verso l'altro con insipidi gesti, vestiti di brache giallastre, su cui batteva il sole di ottobre. "Che orrore sposare un uomo che somigliasse a quei Cupidi!" pensò Helen. A questo punto Beethoven cominciò a variare il tema; così lei lo ascoltò un'altra volta e poi sorrise alla cugina Frieda. Ma Frieda, poiché ascoltava Musica Classica, non poteva rispondere. Anche Herr Liesecke aveva l'aspetto di chi non può essere distratto neppure da cavalli sfrenati: aveva la fronte corrugata, la bocca socchiusa, il pince-nez ad angolo retto col naso, le mani bianche, massicce, posate sulle ginocchia.
E vicino a lei c'era zia Juley, così britannica, che desiderava battere il tempo. Come era interessante quella fila di persone! Quali influssi diversi avevano contribuito a formarle! Ora Beethoven , dopo aver ronzato e bisbigliato con grande tenerezza, disse "uffa" e l'andante finì. Applausi, e una serie di "wundershon" e di "prachtvoll" da parte del contingente tedesco. Margaret si mise a parlare col suo nuovo giovanotto; Helen disse alla zia: "Ora viene il tempo meraviglioso: prima i folletti e quindi un trio di elefanti che danzano"; e Tibby implorò tutta la comitiva di non farsi sfuggire il passaggio del tamburo.
"Di che cosa caro?"
"Del tamburo, zia Juley".
"No, non fatevi sfuggire quel punto in cui sembra che i folletti se ne siano andati e invece ritornano" sospirò Helen, mentre la musica aveva inizio con un folletto che scorrazzava tranquillamente sull'universo, in lungo e in largo. Altri lo seguirono. Non erano creature aggressive; era questo che li rendeva tanto terribili per Helen. Si limitavano a osservare, passando, che nel mondo non c'era niente che assomigliasse allo splendore o all'eroismo. Dopo l'interludio degli elefanti che danzavano, tornarono i folletti e ripresero da capo a osservare... Helen non poteva contraddirli, perché una volta aveva avuto la stessa sensazione, ed aveva persino visto le solide mura della giovinezza crollare. Panico e vuoto! Panico e vuoto! I folletti avevano ragione.
Suo fratello alzò un dito: era il passaggio del tamburo.
Infatti, come se le cose stessero andando troppo oltre, Beethoven afferrò i folletti e fece far loro quello che voleva lui. Intervenne di persona. Diede loro una piccola spinta, ed essi incominciarono a camminare in tonalità maggiore anziché in minore; e poi soffiò ed essi si dispersero! Fiammate di splendore, dei e semidei che lottano con enormi spade, colori e fragranze diffusi sul campo di battaglia, magnifica vittoria, magnifica morte! Oh, tutto questo esplose davanti alla ragazza e lei tese persino le mani guantate, quasi potesse toccarlo. Ogni fatto era titanico; ogni lotta desiderabile; conquistatore e conquistato sarebbero stati egualmente applauditi dagli angeli e dalle stelle più alte.
L'approccio sensoriale ci trasmette l'apprendimento diretto, che sviluppiamo nella nostra mente per poi immagazzinarlo nella memoria come patrimonio di conoscenza. Però i cinque sensi, sebbene collaborino l'uno con l'altro, hanno una rilevanza diversa. Vi sono studi scientifici secondo i quali l'uso della vista tende a essere esageratamente preponderante, arrivando addirittura (secondo un'ipotesi) a far ridurre l'uso degli altri sensi persino relativamente a percezioni che richiederebbero maggiormente l'uso delle orecchie o del naso anziché quello degli occhi.
Da questo punto di vista la scrittura ha lo svantaggio di essere collegata all'uso della vista ma solo in termini concettuali. Una tradizionale pagina scritta non utilizza immagini o figure che, invece, stimolano maggiormente l'occhio (è una lezione ben compresa da molti blogger che integrano i loro articoli con fotografie, disegni, eleganza grafica del blog stesso).
Parlando quindi di fiction, il cinema - specialmente certi blockbuster hollywoodiani pieni di CGI spettacolari - o anche il fumetto, hanno una sorta di vantaggio espressivo rispetto al romanzo: una superiore potenzialità recettiva per il ricevente grazie alla succitata preponderanza della percezione sensoriale, tramite la vista, di figure definite anziché di concetti.
Ci scherzavo commentando un post di Andrea Cabassi sulla crisi della narrativa di fantascienza notando come invece la SF cinematografica (e fumettistica) sembra godere di ottima salute. L'orgia di colori e di azione di una pellicola 3D riesce probabilmente a colpire l'attenzione più di una descrizione scritta.
Quindi - ipotesi per assurdo - la narrativa farebbe meglio a concentrarsi su quel tipo di elementi che sono meno adatti a una percezione sensoriale diretta? Ad esempio l'approfondimento psicologico, l'esposizione di stati d'animo, etc.? In questo modo, però, si imporrebbe dei limiti. Paradosso estremo: imporsi dei limiti contenutistici per superare i propri limiti espressivi.
No, penso che la scrittura debba comunque sforzarsi di raccontare ciò che non può rappresentare esplicitamente a causa dei propri limiti espressivi intrinseci. Deve raccontarlo usando un punto di vista diverso.
Prendiamo ad esempio il suono. Un suono va ascoltato. Lo si può evocare per iscritto, ma la sua descrizione, per quanto accurata, non ci permetterà mai di udirlo materialmente. E allora, più che descrivere il suono, bisogna trasformarlo in qualcosa di diverso ai fini della narrazione. Bisogna concettualizzarlo, per così dire. Concludo quindi questo post citando un passaggio di "Casa Howard" di E.M. Forster in cui una delle protagoniste, Helen, sta ascoltando la Quinta Sinfonia di Beethoven durante un concerto. Questo è il modo in cui Forster racconta la musica: non descrivendola ma evocando il suo effetto sul personaggio, le visioni che essa le suscita, la sua contemplazione delle reazioni alla sinfonia in coloro che le stanno vicino.
Era infatti cominciato l'Andante - bellissimo, ma con una certa aria di famiglia con tutti gli altri bellissimi Andanti che Beethoven ha scritto e, a giudizio di Helen, tale da staccare gli eroi e i naufraghi del Primo Tempo dagli eroi e i folletti del Terzo. Essa ascoltò il tema una volta; poi si divagò e si mise a osservare ora il pubblico, ora l'organo, ora l'architettura. Criticò molto i fragili Cupidi che cingono il soffitto della Queen's Hall, inclinati l'uno verso l'altro con insipidi gesti, vestiti di brache giallastre, su cui batteva il sole di ottobre. "Che orrore sposare un uomo che somigliasse a quei Cupidi!" pensò Helen. A questo punto Beethoven cominciò a variare il tema; così lei lo ascoltò un'altra volta e poi sorrise alla cugina Frieda. Ma Frieda, poiché ascoltava Musica Classica, non poteva rispondere. Anche Herr Liesecke aveva l'aspetto di chi non può essere distratto neppure da cavalli sfrenati: aveva la fronte corrugata, la bocca socchiusa, il pince-nez ad angolo retto col naso, le mani bianche, massicce, posate sulle ginocchia.
E vicino a lei c'era zia Juley, così britannica, che desiderava battere il tempo. Come era interessante quella fila di persone! Quali influssi diversi avevano contribuito a formarle! Ora Beethoven , dopo aver ronzato e bisbigliato con grande tenerezza, disse "uffa" e l'andante finì. Applausi, e una serie di "wundershon" e di "prachtvoll" da parte del contingente tedesco. Margaret si mise a parlare col suo nuovo giovanotto; Helen disse alla zia: "Ora viene il tempo meraviglioso: prima i folletti e quindi un trio di elefanti che danzano"; e Tibby implorò tutta la comitiva di non farsi sfuggire il passaggio del tamburo.
"Di che cosa caro?"
"Del tamburo, zia Juley".
"No, non fatevi sfuggire quel punto in cui sembra che i folletti se ne siano andati e invece ritornano" sospirò Helen, mentre la musica aveva inizio con un folletto che scorrazzava tranquillamente sull'universo, in lungo e in largo. Altri lo seguirono. Non erano creature aggressive; era questo che li rendeva tanto terribili per Helen. Si limitavano a osservare, passando, che nel mondo non c'era niente che assomigliasse allo splendore o all'eroismo. Dopo l'interludio degli elefanti che danzavano, tornarono i folletti e ripresero da capo a osservare... Helen non poteva contraddirli, perché una volta aveva avuto la stessa sensazione, ed aveva persino visto le solide mura della giovinezza crollare. Panico e vuoto! Panico e vuoto! I folletti avevano ragione.
Suo fratello alzò un dito: era il passaggio del tamburo.
Infatti, come se le cose stessero andando troppo oltre, Beethoven afferrò i folletti e fece far loro quello che voleva lui. Intervenne di persona. Diede loro una piccola spinta, ed essi incominciarono a camminare in tonalità maggiore anziché in minore; e poi soffiò ed essi si dispersero! Fiammate di splendore, dei e semidei che lottano con enormi spade, colori e fragranze diffusi sul campo di battaglia, magnifica vittoria, magnifica morte! Oh, tutto questo esplose davanti alla ragazza e lei tese persino le mani guantate, quasi potesse toccarlo. Ogni fatto era titanico; ogni lotta desiderabile; conquistatore e conquistato sarebbero stati egualmente applauditi dagli angeli e dalle stelle più alte.
sabato 5 marzo 2016
Le discutibili tesi di sedicenti esperti sul calo dei lettori in Italia
Qualche giorno fa ho letto un articolo che mi ha lasciato piuttosto perplesso su Il Fatto Quotidiano (potete leggerlo per intero cliccando su QUESTO LINK). É l'ennesimo tentativo di analizzare il perché in Italia si leggano così pochi libri.
Ora, già in apertura l'articolista spiega che non sta esponendo tesi proprie ma sta facendo riferimento a un'indagine di Censis e Treccani che viene cortesemente linkata, cosicché ho potuto verificare subito che tra i presenti a questo dibattito c'erano, fra gli altri, Carletto Freccero, ex dirigente della Rai di cui ricordo perfettamente un'intervista durante la quale spiegava che è "normale" che certi servizi dei tiggì debbano essere "pettinati" - ipse dixit - perché le notizie vanno riferite in una certa forma (praticamente nascondendo o enfatizzando alcuni aspetti); e poi Riccardo Luna, che è stato il direttore del giornale Il romanista - il quotidiano dei tifosi più tifosi del mondo (non sto scherzando).
Dopo aver appurato che le tesi erano state discusse da fonti così autorevoli le ho probabilmente esaminate con un atteggiamento già preconcetto, però, ecco, alcune affermazioni mi sono sembrate... Beh, io le riporto, voi giudicherete.
Si parte sottolineando che pur aumentando il numero dei laureati diminuisce il numero dei lettori, mentre
"in epoca predigitale l’automatismo tra crescita dei laureati e propensione alla lettura 'aveva funzionato bene' ".
e subito si aggiunge che
"I primi a risentire di questo trend sono gli editori: calano i fatturati e aumentano le cessazioni di attività. La flessione dei ricavi, sostengono però Censis e Treccani, non dipenderebbe solo da fattori strutturali ma anche dalla rivoluzione digitale, che ha reso l’approccio al sapere e alla lettura, specialmente da parte di alcuni segmenti della popolazione, più smart, più efficiente e più rapido, causando un allontanamento dai libri a favore dei sistemi digitali".
e già qui qualcosa mi sfugge. Se gli stessi relatori ammettono che la rivoluzione digitale ha reso l'approccio alla lettura "più smart, più efficiente e più rapido" qual è il problema? Che si leggano meno libri cartacei e che si legga di più su supporti digitali? Ma non è sempre lettura?
E poi un'affermazione che sa tanto di pregiudizio:
"per Censis–Treccani è segno di una mutazione antropologica, perché il mezzo di apprendimento 'non è neutrale' ".
In che senso non è neutrale? Perché, un quotidiano cartaceo nazionale appartenente a un partito politico o un canale televisivo berlusconiano è neutrale? Un libro di Travaglio è neutrale? I servizi del TG2 "pettinati" da Carletto Freccero erano neutrali? Er quottidiano de l'ultrà daa curva sudde di Riccardo Luna era neutrale?
Vediamo la spiegazione:
Libro e web, sostiene il rapporto, attivano facoltà mentali diverse: quando i messaggi passano attraverso lo schermo, gli elementi emotivi hanno la meglio su quelli cognitivi. I dispositivi digitali, inoltre, ci pongono in uno stato di attenzione parziale continua: l’interruzione ha la meglio sulla concentrazione. Allo stesso tempo, siamo nella condizione di reperire rapidamente, ovunque e gratuitamente quasi ogni genere di informazione.
A cambiare non sono dunque solo i consumi culturali ma anche le tecniche della conoscenza. E ciò che espande internet sarebbe anche ciò che allontana dal libro.
É una tesi rispettabilissima, ma non so se possa ritenersi inconfutabilmente esatta. Anche quando si legge un libro o un giornale si interrompe talvolta la lettura. O sbaglio? Inoltre, essere "nella condizione di reperire rapidamente, ovunque e gratuitamente quasi ogni genere di informazione" non mi sembra un fatto negativo, né tanto meno limitativo all'apprendimento, anzi, permette di confrontare più fonti - anche internazionali per chi conosce l'inglese - in tempo reale. O sbaglio anche stavolta?
Ma la relazione prosegue:
La rete, sostengono Censis e Treccani, porterebbe con sé inediti pericoli di solipsismo e conformismo: la personalizzazione e l’autoreferenzialità dell’impiego di media digitali consentirebbero di fatto di comporre, su ogni dispositivo, un’enciclopedia fatta solo con informazioni che l’utente sa già di voler conoscere. In un ecosistema dove 'aziende editoriali e istituzioni culturali non fanno più da filtro', la rete svolgerebbe una funzione 'oracolare' ma le si attribuirebbero 'caratteristiche sovrastimate di attendibilità ed esaustività' ".
Questa è l'affermazione che mi sembra più discutibile. Ciò che spaventa Censis e Treccani è che le "aziende editoriali e istituzioni culturali non fanno più da filtro," quindi, dal loro punto di vista, esse dovrebbero essere il Verbo Unico del lettore. Dovremmo tutti leggere i libri che ci vengono propinati da Fabio Fazio o da Bruno Vespa, dovremmo uniformarci pedissequamente ai 'consigli' dei grandi editori e delle terze pagine dei quotidiani poiché se non lo facessimo ciò "porterebbe con sé inediti pericoli di solipsismo e conformismo"... Curiosissima come tesi: fare riferimento ai media digitali con una "personalizzazione" della ricerca porterebbe al conformismo; leggere libri in base ai diktat di Fazio o della Lipperini invece non implica conformismo. Interessante, davvero interessante. Suona benissimo anche da un punto di vista logico, non è vero?
La parte finale è la più gustosa. Si fa riferimento ai laureati con più di 25 anni, la gente più istruita insomma, e si afferma che
"Questo campione accede a internet tutti i giorni e legge libri. E qui la musica cambia. 'Il segmento' sostiene il rapporto 'sembra muoversi con disinvoltura nella direzione di una integrazione tra le diverse tecnologie, tradizionali e digitali, in chiave critica e adattiva'. Il 79% degli italiani laureati over 25 valuta positivamente la possibilità di produrre, sul web, una propria bibliografia multimediale personalizzata. Allo stesso tempo, il 74,4% ritiene comunque insostituibile il libro".
Allora attingere a mezzi digitali non è un pericolo! Se la parte più istruita della popolazione dà la stessa importanza a digitale e cartaceo, allora il problema non è internet ma il livello di istruzione di chi ne usufruisce! Eppure, come avevo detto sopra, la relazione era partita dicendo che "crescono i laureati e calano i lettori, i tassi di scolarizzazione e la propensione alla lettura seguono traiettorie divergenti" e da lì erano partiti tutti i dubbi e le paure e l'accusa al digitale. Ma sulla base dei dati del precedente paragrafo sembrerebbe che la gente istruita sappia bilanciare correttamente l'uso di libro e supporto digitale.
Insomma, la mia impressione è che ci sia un'interpretazione preconcetta di informazioni raccolte in vario modo. Il mio professore di Italiano citava, scherzando, un paradosso per cui se ci fossero delle statistiche che parlano di incidenti stradali aumentati del 10% e, nello stesso periodo, altre statistiche che rilevano un aumento del consumo di carne del 10%, sicuramente salterebbe fuori qualcuno che penserebbe che l'aumento del consumo di carne ha causato un aumento equivalente degli incidenti stradali.
Mi sa che non è solo un paradosso...
Ora, già in apertura l'articolista spiega che non sta esponendo tesi proprie ma sta facendo riferimento a un'indagine di Censis e Treccani che viene cortesemente linkata, cosicché ho potuto verificare subito che tra i presenti a questo dibattito c'erano, fra gli altri, Carletto Freccero, ex dirigente della Rai di cui ricordo perfettamente un'intervista durante la quale spiegava che è "normale" che certi servizi dei tiggì debbano essere "pettinati" - ipse dixit - perché le notizie vanno riferite in una certa forma (praticamente nascondendo o enfatizzando alcuni aspetti); e poi Riccardo Luna, che è stato il direttore del giornale Il romanista - il quotidiano dei tifosi più tifosi del mondo (non sto scherzando).
Dopo aver appurato che le tesi erano state discusse da fonti così autorevoli le ho probabilmente esaminate con un atteggiamento già preconcetto, però, ecco, alcune affermazioni mi sono sembrate... Beh, io le riporto, voi giudicherete.
Si parte sottolineando che pur aumentando il numero dei laureati diminuisce il numero dei lettori, mentre
"in epoca predigitale l’automatismo tra crescita dei laureati e propensione alla lettura 'aveva funzionato bene' ".
e subito si aggiunge che
"I primi a risentire di questo trend sono gli editori: calano i fatturati e aumentano le cessazioni di attività. La flessione dei ricavi, sostengono però Censis e Treccani, non dipenderebbe solo da fattori strutturali ma anche dalla rivoluzione digitale, che ha reso l’approccio al sapere e alla lettura, specialmente da parte di alcuni segmenti della popolazione, più smart, più efficiente e più rapido, causando un allontanamento dai libri a favore dei sistemi digitali".
e già qui qualcosa mi sfugge. Se gli stessi relatori ammettono che la rivoluzione digitale ha reso l'approccio alla lettura "più smart, più efficiente e più rapido" qual è il problema? Che si leggano meno libri cartacei e che si legga di più su supporti digitali? Ma non è sempre lettura?
E poi un'affermazione che sa tanto di pregiudizio:
"per Censis–Treccani è segno di una mutazione antropologica, perché il mezzo di apprendimento 'non è neutrale' ".
In che senso non è neutrale? Perché, un quotidiano cartaceo nazionale appartenente a un partito politico o un canale televisivo berlusconiano è neutrale? Un libro di Travaglio è neutrale? I servizi del TG2 "pettinati" da Carletto Freccero erano neutrali? Er quottidiano de l'ultrà daa curva sudde di Riccardo Luna era neutrale?
Vediamo la spiegazione:
Libro e web, sostiene il rapporto, attivano facoltà mentali diverse: quando i messaggi passano attraverso lo schermo, gli elementi emotivi hanno la meglio su quelli cognitivi. I dispositivi digitali, inoltre, ci pongono in uno stato di attenzione parziale continua: l’interruzione ha la meglio sulla concentrazione. Allo stesso tempo, siamo nella condizione di reperire rapidamente, ovunque e gratuitamente quasi ogni genere di informazione.
A cambiare non sono dunque solo i consumi culturali ma anche le tecniche della conoscenza. E ciò che espande internet sarebbe anche ciò che allontana dal libro.
É una tesi rispettabilissima, ma non so se possa ritenersi inconfutabilmente esatta. Anche quando si legge un libro o un giornale si interrompe talvolta la lettura. O sbaglio? Inoltre, essere "nella condizione di reperire rapidamente, ovunque e gratuitamente quasi ogni genere di informazione" non mi sembra un fatto negativo, né tanto meno limitativo all'apprendimento, anzi, permette di confrontare più fonti - anche internazionali per chi conosce l'inglese - in tempo reale. O sbaglio anche stavolta?
Ma la relazione prosegue:
La rete, sostengono Censis e Treccani, porterebbe con sé inediti pericoli di solipsismo e conformismo: la personalizzazione e l’autoreferenzialità dell’impiego di media digitali consentirebbero di fatto di comporre, su ogni dispositivo, un’enciclopedia fatta solo con informazioni che l’utente sa già di voler conoscere. In un ecosistema dove 'aziende editoriali e istituzioni culturali non fanno più da filtro', la rete svolgerebbe una funzione 'oracolare' ma le si attribuirebbero 'caratteristiche sovrastimate di attendibilità ed esaustività' ".
Questa è l'affermazione che mi sembra più discutibile. Ciò che spaventa Censis e Treccani è che le "aziende editoriali e istituzioni culturali non fanno più da filtro," quindi, dal loro punto di vista, esse dovrebbero essere il Verbo Unico del lettore. Dovremmo tutti leggere i libri che ci vengono propinati da Fabio Fazio o da Bruno Vespa, dovremmo uniformarci pedissequamente ai 'consigli' dei grandi editori e delle terze pagine dei quotidiani poiché se non lo facessimo ciò "porterebbe con sé inediti pericoli di solipsismo e conformismo"... Curiosissima come tesi: fare riferimento ai media digitali con una "personalizzazione" della ricerca porterebbe al conformismo; leggere libri in base ai diktat di Fazio o della Lipperini invece non implica conformismo. Interessante, davvero interessante. Suona benissimo anche da un punto di vista logico, non è vero?
La parte finale è la più gustosa. Si fa riferimento ai laureati con più di 25 anni, la gente più istruita insomma, e si afferma che
"Questo campione accede a internet tutti i giorni e legge libri. E qui la musica cambia. 'Il segmento' sostiene il rapporto 'sembra muoversi con disinvoltura nella direzione di una integrazione tra le diverse tecnologie, tradizionali e digitali, in chiave critica e adattiva'. Il 79% degli italiani laureati over 25 valuta positivamente la possibilità di produrre, sul web, una propria bibliografia multimediale personalizzata. Allo stesso tempo, il 74,4% ritiene comunque insostituibile il libro".
Allora attingere a mezzi digitali non è un pericolo! Se la parte più istruita della popolazione dà la stessa importanza a digitale e cartaceo, allora il problema non è internet ma il livello di istruzione di chi ne usufruisce! Eppure, come avevo detto sopra, la relazione era partita dicendo che "crescono i laureati e calano i lettori, i tassi di scolarizzazione e la propensione alla lettura seguono traiettorie divergenti" e da lì erano partiti tutti i dubbi e le paure e l'accusa al digitale. Ma sulla base dei dati del precedente paragrafo sembrerebbe che la gente istruita sappia bilanciare correttamente l'uso di libro e supporto digitale.
Insomma, la mia impressione è che ci sia un'interpretazione preconcetta di informazioni raccolte in vario modo. Il mio professore di Italiano citava, scherzando, un paradosso per cui se ci fossero delle statistiche che parlano di incidenti stradali aumentati del 10% e, nello stesso periodo, altre statistiche che rilevano un aumento del consumo di carne del 10%, sicuramente salterebbe fuori qualcuno che penserebbe che l'aumento del consumo di carne ha causato un aumento equivalente degli incidenti stradali.
Mi sa che non è solo un paradosso...
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