IL SECONDO ACCORDO FRA STATO E MAFIA
di Ariano Geta
Edizioni gTerma
Anno di pubblicazione 2014
256 pagine
Ariano Geta si avventura nella fantapolitica con una
storia fra il grottesco e il provocatorio, che riesce solo in parte
nel suo intento.
La vicenda inizia ai giorni nostri, durante i primi mesi
del primo governo Renzi. Il premier si rende conto che qualunque
provvedimento per snellire la burocrazia e, soprattutto, aumentare le
entrare fiscali allo scopo di ridurre il debito pubblico, rischia di
essere vanificato dall'incapacità del governo di porre un freno agli
sprechi della politica. Occorre, secondo le parole dell'immaginario
Renzi protagonista del romanzo "un cambio di rotta di radicale"
che sia costruito tramite una nuova gestione dello stato basandosi su
"un talento straordinariamente italiano che ci viene
riconosciuto in tutto il mondo".
Ed ecco la trovata: affidare il dicastero dell'economia
al padrino della mafia Matteo Messina Denaro.
I capitoli dedicati alla ricerca del boss latitante e al
suo arresto ricostruiscono le operazioni di polizia con realismo e
accuratezza, ma risultano eccessivamente lunghi e inoltre sono del
tutto privi del tono sarcastico che permea la parte iniziale del
libro. Il carattere grottesco della storia raggiunge però il suo
apice proprio dopo la cattura di Messina Denaro, con lo stupefatto
boss che si aspettava di essere condotto in un carcere di massima
sicurezza e invece si ritrova in un palazzo che "gli sembrava di
aver visto alla televisione, non ricordava se in una telenovela o in
un telegiornale".
L'incontro fra i due Matteo, Renzi da una parte e
Messina Denaro dall'altra, è il momento più divertente dell'intero
romanzo. Da un lato il politico, con giri di parole spesso inutili,
spiega la problematica del debito pubblico ormai fuori controllo, i
problemi con la Germania e gli altri paesi dell'Unione Europea e la
necessità di reperire quattrini, dall'altro il mafioso che si
esprime in modo spiccio e, dopo lo sbalordimento iniziale, prende
subito confidenza con il "presidente? Ma, mi scusi, il
presidente non era un vecchietto pelato che parla con l'accento
napoletano?"
Mentre Matteo (Renzi) chiede lumi sui metodi di
"gestione finanziaria" di cosa nostra e azzarda qualche
ipotesi di applicazione di tali principi a livello pubblico, Matteo
(Messina Denaro) sembra invece scettico e spiega quanto sia diventato
difficile "alzare qualche miserabile milione d'euro".
Perché "Lei non si rende conto di come si lavori male con tutti
questi minchia di poliziotti che si intromettono! Alcuni riesci a
comprarli, ma tanti altri no, e poi c'è sempre qualche testa di
minchia di pubblico ministero che apre un'indagine, e siccome le
teste di minchia vanno sempre a coppia c'è pure il giudice
istruttore che fa partire il processo e ti arresta cento
collaboratori nel giro di una notte".
Anche la collaborazione con la politica è difficile
perché "i siciliani sono ostinati. Uno fa del suo meglio per
spiegargli che devono votare a una certa persona, e loro continuano a
comportarsi come se avessero il diritto di votare a chi minchia gli
pare, così alla fine magari viene eletto un figghie 'e bottana che
ci rema contro..."
Nonostante tutto l'accordo viene siglato, e i capitoli
successivi sono un susseguirsi di scene paradossali, fra tutte quella
in cui un negoziante palermitano vede entrare nella sua bottega i tre
esattori mafiosi che gli chidevano il pizzo, e che di fronte alle sue
minacce di chiamare la polizia mostrano un tesserino in cui si
attesta che sono diventati dipendenti di Equitalia.
Il finale è l'apoteosi del ridicolo, e lascia un po'
interdetto il lettore. L'idea di partenza si prestava a numerosi
sviluppi narrativi che sono stati realizzati solo in parte, e
talvolta in maniera troppo sbrigativa da parte dell'autore, e questo
vale in particolar modo proprio per la conclusione della vicenda.
Il giudizio complessivo non può che essere negativo.