Non so se avete mai letto Fernando Pessoa, sicuramente lo avrete sentito nominare. In quella sorta di diario lirico postumo ricostruito dagli studiosi della sua opera, il "Libro dell'inquietudine", c'è un frammento particolarmente significativo:
Quando sono sdraiato sulla mia poltrona e solo un tenue filo mi lega alla vita, con quale chiarezza descrivo nella mia riflessione, dettandoli all'inerzia, i paesaggi che non potrò mai narrare e le frasi che non scriverò mai! Scandisco periodi interi, perfetti in ogni loro parola; ascolto trame di drammi che esistono nella mia immaginazione; seguo verso per verso la scansione ritmica di interi poemi [...] Ma se mi muovo dalla poltrona dove alimento queste sensazioni quasi perfette e mi siedo al tavolo per scriverle, le parole svaniscono, e i drammi si interrompono [...]
Ho avuto tutti i progetti possibili. L'Iliade che ho composto possedeva la logica di un'ispirazione e una successione ferrea di epodi sconosciuta a Omero. Al confronto con la studiata perfezione dei miei versi inesistenti l'esattezza di Virgilio è povera e la forza di Milton è fiacca. Le mie allegorie satiriche sono superiori a Swift per precisione simbolica e per la perfezione dei dettagli [...]
Sono stato un genio in qualcosa di più che nel sogno e in qualcosa di meno che nella vita.
É una sensazione che conosco e che probabilmente anche altri posseduti dall'ossessione per la scrittura conoscono. Nel dormiveglia delle albe dei giorni festivi, quante idee, ispirazioni, spunti, "periodi interi" che parevano impeccabili. Che però, trascrivendoli più tardi, non sembrano più così impeccabili. In effetti nel momento in cui scorrevano nella mente resa serena e intorpidita dal riposo erano lievemente diversi. Qualcosa è rimasto nella memoria, ma qualcosa no. E ciò che è rimasto non basta mai a ricostruire nel dettaglio quel che è andato perduto...
(Scusate l'interruzione della programmazione ordinaria, smetto subito di delirare. Lunedì si riparte con le strisce fumettistiche).