sabato 3 maggio 2014

Un dono non dovuto

“… Aveva notato però che i denti di Tadzio non erano perfetti: un po’ irregolari, pallidi, senza la lucentezza della salute, e anzi singolarmente fragili e trasparenti come si nota talvolta negli organismi anemici. ‘È molto delicato, è malaticcio’, pensò Aschenbach. ‘È improbabile che diventi vecchio’...”
Questa breve considerazione del protagonista de La morte a Venezia di Thomas Mann mi è tornata in mente durante la prima quindicina di aprile che ho trascorso in preda a serie difficoltà respiratorie causa una virulenta infezione a gola e naso.
Da bambino mi capitavano spesso queste situazioni: quasi ogni anno trascorrevo due settimane a letto con la febbre alta, e solo gli antibiotici mi risollevavano. Grazie al progresso medico e al benessere diffuso ero semplicemente uno dei tanti bimbi influenzati, uno che sopportava il virus con maggiore difficoltà rispetto agli altri e necessitava di farmaci più potenti, però alla fine guarivo regolarmente. Anche i fastidi di aprile li ho vissuti con la stessa consapevolezza, sapendo che si trattava solo di pazientare pochi giorni e i farmaci mi avrebbero risanato.
Se fossi stato bambino agli inizi del novecento forse anch’io, come il Tadzio di cui si innamora Aschenbach, sarei stato osservato con malinconia da qualche anziano viaggiatore straniero che avrebbe tristemente pronosticato la mia prematura scomparsa causata da malattie polmonari. In un certo senso la vita che sto vivendo potrebbe essere classificata come un dono per il quale devo ringraziare il progresso.
Il discorso può diventare più sottile e scendere in ambiti assai più personali, slegati dal contesto storico.
Gabriel Conroy, protagonista del racconto I morti di James Joyce, scopre in modo casuale che sua moglie aveva avuto un fidanzatino quando era ancora molto giovane. Probabilmente lei lo avrebbe sposato se lui non fosse morto all’improvviso, e di conseguenza non sarebbe mai diventata la moglie di Gabriel. In un attimo la sua vita coniugale gli appare come un ‘furto’ ai danni di un povero ragazzo deceduto prematuramente.
James Joyce aveva potuto rendersi conto della tangibilità di questi doni non dovuti del destino perché lui stesso ne aveva beneficiato: la sua compagna, Nora, era rimasta vittima della medesima disgrazia toccata alla signora Conroy nel racconto. Lo scrittore irlandese fu talmente colpito da questo scherzo del fato al punto da voler vedere la tomba dello sfortunato fidanzatino di Nora nel cimitero di Rahoon, al quale dedicò anche una poesia, Lei piange pensando a Rahoon.
Insomma, la vita e i suoi intrecci sono un’infinita fonte di riflessione.

10 commenti:

  1. Sincronicità, Gestalt, quanti altri meccanismi si possono trovare per descrivere aspetti della vita che viviamo? Mi vado sempre più convincendo che la nostra volontà, alla fine, gioca davvero un ruolo quasi minimo nella vita che ci scorre sotto i piedi. Ma d'altra parte senza i nostri desiderata che mettono in moto il meccanismo, nulla esisterebbe. E i nostri comportamenti, a loro volta, coinvolgono e modificano le esistenze di chi ci sta vicino. Come in un gioco di ruolo complesso. Come sempre un post veramente azzeccato e pieno di suggerimenti. Anzi sai che faccio? lo condiviso sul mio blog!

    RispondiElimina
  2. Mi ricordo che pensai la stessa identica cosa quando lessi per la prima volta I MORTI di Joyce.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Joyce è particolarmente arduo come autore proprio perché affronta tematiche sgradevoli ma le racconta senza enfasi, le evidenzia con piccole sfumature e riferimenti appena accennati.

      Elimina
  3. Un'infinita fonte di riflessione e, per chi scrive, una riserva inesauribile di materiale da costruzione...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Diciamo pure: un tentativo di dare una forma definita a qualcosa che in realtà non ce l'ha affatto.

      Elimina
  4. Ricordo quel racconto di Joyce. Sì lui ha in fondo sempre definito cose che non hanno una forma: pensieri, sensazioni, epifanie... Mi piace molto.
    Anche le tue riflessioni, traendo le conclusioni da grandi classici, sono sempre dei piacevoli pensieri.

    RispondiElimina
  5. I Morti è il mio racconto preferito dei Dubliners: ma io non ho fatto questa riflessione leggendolo. Evidentemente la mia attenzione era concentrata su altri aspetti.

    La riflessione del post, invece, mi è propria pensando a me stessa e alla mia vita. Il mio blog non si intitola "Il Castello dei Destini Incrociati" per caso, anche se ora questa scritta non appare più nell'header ma è rimasto solo nel nome. Il sottotitolo era "Cronache surreali di ciò che la vita può riservare e di come, talvolta, la realtà superi la fantasia". Ora la mia vita è un po' più tranquilla, ma ci son stati anni in cui le persone che ho incontrato e le esperienze vissute son state così specieli nella loro casualità da farmi soffermare su quanto fossi stata fortunata ad averle vissute, rispetto a tutte quelle persone con una vita piatta e noiosa e sempre uguale…
    E anche nei miei piccoli casi, non è che io avessi influenzato coscientemente gli incontri e le amicizie nate :-)

    Stranamente, questo tipo di riflessione non è di quelle che non mi fanno dormire… ma riescono a scivolarmi addosso dopo averci riflettuto solo un po'.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Lo trovo naturale. Anche io non sto continuamente a pensare a queste cose, anche perché si rischia di stressare troppo la mente. A volte bisogna anche concedersi il lusso di vivere da "bete" come dicono i francesi.

      Elimina