venerdì 31 ottobre 2014

L'era dell'esibizionismo globale - 4

AVVISO IMPORTANTE: LETTURA INADATTA AI BAMBINI

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Il messaggio della polizia postale era giunto verso le undici di sera. Venti minuti dopo era in corso una videoconferenza unificata fra tutti i commissariati capitolini, le caserme dell’Arma, il ministero dell’interno e i servizi segreti. Stranamente le procedure di sicurezza erano state rispettate e nessun giornalista era stato ammesso. I poliziotti, i carabinieri, i sottosegretari e il ministro erano stati gentilmente pregati di tenere spenti i cellulari e di non divulgare immagini e contenuti della riunione su facebook, twitter, instagram e compagnia cantante.
“L’ipotesi investigativa del vice ispettore Doglia” stava spiegando il capo della polizia “ha fornito uno spunto. Ribadisco: solo uno spunto. Non vi sono né confessioni né rivendicazioni, solo tre messaggi generici postati dalla medesima persona circa due ore dopo i tre attentati”.
Sui volti dei militari e dei politici si tratteggiarono smorfie di delusione.
“Da un punto di vista procedurale non ci sono gli estremi per poter autorizzare l’avvio di un’indagine sull’autore dei tre messaggi in questione. Tuttavia, vista la straordinarietà della situazione, se si ritiene opportuno applicare una deroga…”
Il commissario capo lasciò in sospeso la frase per non pronunciare concetti troppo apertamente illegali. Si affidò alla libera interpretazione dell’audience che lo ascoltava e alla loro valutazione in merito.
“Alquanto inopportuno” lo stroncò in due parole un sottosegretario. Il ministro, con un cenno della testa, benediceva l’intervento del suo sottoposto.
“Allora questa ipotesi viene scartata” tagliò corto il capo della polizia. “Passiamo alla successiva, elaborata dal prefetto Dolgetta. Per questa ci occorrerebbe la collaborazione della Rai: dovremmo far trasmettere in prima serata un’intervista fittizia a un tizio qualunque che si attribuisca la responsabilità degli attentati, e mettere a disposizione degli spettatori un numero verde per porgli domande ed eventualmente smentirlo. È plausibile che il vero attentatore chiamerebbe per evitare che qualcun altro gli sottragga il merito delle azioni dinamitarde…”
Doglia si alzò dalla propria sedia e si allontanò dalla sala riunioni del commissariato.
“Dove vai?” gli sussurrò scandalizzato Berruti.
“Al bagno”.
Era tutto chiaro adesso: la sua ipotesi investigativa era stata data in pasto ai mass media per sviarli. L’avevano proposta per prima perché la ritenevano la più debole, quella da cassare subito. Nel prosieguo della videoconferenza sarebbero state trattate le proposte più credibili.
Si accomodò nel cesso, abbassò il copriwater e si sedette sul wc come se fosse la sedia di un ufficio. Col cellulare di lavoro entrò nella rete dei dati relativi agli attentati e scaricò le informazioni relative alla sua richiesta.
L’IP che era stato attivo esclusivamente nei giorni delle esplosioni apparteneva a tale Vincenzo Eranio.
Aveva pubblicato tre messaggi su tre diversi quotidiani on line, tutti sotto forma di commento ad un articolo e tutti postati in forma anonima. Non avevano alcuna apparente attinenza con le notizie che commentavano. Il primo, aggiunto fra le opinioni relative al decreto legge che abbassava a sedici anni il limite d’età per i giovani che intendevano pubblicare autoscatti del proprio corpo nudo sui profili dei social networks, parlava di scacchi…
*
Gli scacchi vengono considerati il più straordinario gioco di strategia e intelligenza creato dalla mente umana, ma dall’umanità traggono anche gli aspetti peggiori della sua evoluzione.
Gli scacchi hanno l’identica ambiguità e doppiezza della civiltà umana, che ha progredito la propria mente verso concettualizzazioni astratte incommensurabili e al tempo stesso ha sfruttato tale meravigliosa propensione per fini meschini.
La capacità divina dell’uomo di organizzare il pensiero e partorire concetti quali l’etica e la morale lo ha condotto altresì alla loro subdola manipolazione allo scopo di ingannare e comandare sul prossimo.
Gli scacchi costituiscono il simbolo concreto di tale ignobile metodologia.
Ogni pezzo ha i suoi movimenti specifici, che seguono regole precise per i loro spostamenti sulla scacchiera. Sarebbe un gioco perfetto, ma ecco che la viltà umana, con maligna intelligenza, vi applica le identiche, sordide eccezioni nate con lo scopo di complicare i rapporti sociali e la loro amministrazione a vantaggio dei più furbi.
Il pedone mangia solo in diagonale. Invece no! C’è un caso specifico in cui mangia il pezzo avversario tirando dritto grazie alla regola dell’en passant.
Oppure: con l’eccezione del cavallo nessun pezzo può passare sopra altri pezzi, né, tanto meno, se ne possono muovere due contemporaneamente. Ed ecco l’eccezione, l’arrocco, che consente di violare entrambe le regole in un colpo solo.
E ancora: il re è sotto scacco, ma potrebbe facilmente essere liberato grazie a un pezzo dello stesso colore che, con un semplice movimento, avrebbe la facoltà di mangiare il pezzo avversario che minaccia il re. Però non si può: se il re è sotto scacco, solo il re può essere mosso.
Questa è la falsità profonda degli scacchi, la stessa che caratterizza le legislazioni sociali umane con il proliferare di norme e regole che contraddicono altre esistenti. Le eccezioni (la parola preferita di tutti i disonesti del mondo) condizionano lo svolgimento della vita umana e di una partita di scacchi allo stesso modo.
Qualcuno obietterà che tali regole valgono per tutti gli uomini e per entrambi i giocatori: ogni cittadino può usufruirne, sia il bianco che il nero ne possono approfittare.
Ma ciò che io contesto è l’esistenza stessa di tali regole e la loro finalità. Esse nascono con lo scopo di confondere, di disorientare le menti più semplici, di favorire le persone con maggiore malizia, gli specialisti dell’applicazione perversa di una legge ai fini del proprio tornaconto personale. Queste eccezioni sono un ostacolo deliberato nei confronti di coloro che applicherebbero pedissequamente le leggi rendendo più lineare ed onesta una società o una partita a scacchi.
Più vi sono leggi, più una società è corrotta, sosteneva uno storico dell’antica Roma. Perché quando le regole sono tante solo pochi possono tenerle a mente e la massa della gente, purtroppo ottusa ma potenzialmente onesta, ne viene soggiogata. Oppure – peggio ancora – apprende a sua volta l’uso delle singole eccezioni e ne fa un uso disonesto seguendo l’esempio dei furbi e dei loro avvocati (o del meschino giocatore avversario).
Ecco perché sostengo che gli scacchi sono pregni di ambiguità e falsità come le peggiori società umane.
La dama sarebbe invece il gioco ideale al quale uniformarsi: qui non esistono eccezioni, le regole sono poche e incontrovertibili. Da qui nasce la contestazione tipica delle menti disoneste: gli scacchi sono più complessi, determinano una quantità di combinazioni e di situazioni infinitamente superiore, pertanto sono più interessanti e più avvincenti della dama.
L’inganno supremo della furbizia maligna: convincere l’umanità che tanto più una cosa è complicata e tanto più è da considerarsi evoluta.
Che sciocchezza! La complicazione delle concettualizzazioni astratte della mente ha il solo scopo di confondere, di intorbidare, di rendere ambiguo.
In tutte le grandi religioni ai primordi esistevano pochissime regole, impossibili da equivocare. I predicatori furbi le hanno successivamente ampliate, contrapposte e contraddette per gestire meglio il proprio potere interno e persuadere le menti semplici che sono troppo ottuse per poter capire ogni cosa.
Gli scacchi seguono la stessa logica: una mente semplice si convince di non potervi giocare per il loro eccesso di regole, e subisce l’inganno credendo addirittura che solo pochi cervelli eletti hanno la mirabile facoltà di praticare questo gioco. La mente semplice si accontenta della dama, quasi schernendosi per i propri limiti, quasi pensando: posso permettermi solo un gioco semplice e banale come questo.
Se gli scacchi venissero aboliti, se scomparisse la loro memoria, se la dama diventasse l’unico gioco da tavola tradizionale e tutti lo praticassero, la società umana evolverebbe verso la lineare semplicità dell’onesta e delle poche regole non sporcate dalle eccezioni dei furbi.
Ma chi potrà mai estirparli ora che, dopo millenni, sono così profondamente radicati nella storia e nel cervello degli uomini?
*
Il secondo, aggiunto ai commenti sul big match fra Roma e Juventus, parlava di piedi femminili…
*
Non mi piace essere l’oggetto dell’interesse altrui. Ormai tutti guardano tutti, spiano il privato, attingono all’intimo, normalizzano l’indiscrezione, si mettono in mostra illimitatamente e illimitatamente s’impicciano delle vite altrui (altrettanto generosamente offerte alla pubblica attenzione, bisogna riconoscerlo).
Io sono fra i compatiti pochi che non si adeguano, fiero della mia riservatezza. Per tale motivo cammino a testa bassa, lascio penzolare gli occhi in direzione dei miei piedi più che dell’orizzonte. Mi affascina, peraltro, la veduta del cielo che in un luogo irraggiungibile si unisce alla terra, ma puntare lo sguardo verso quell’incanto implica il dover esporre la mia brutta faccia alle bruttissime ingerenze altrui: estranei che mi giudicano e talvolta mi identificano come volto noto, adocchiato casualmente in un luogo di lavoro o emerso nei meandri della loro memoria con tratti più giovani ai tempi della scuola. E ne consegue, da parte loro, il vergognoso orgoglio di raccontarmi ciò che gli passa fin dentro le mutande, e la pretesa di conoscere uguali dettagli da parte mia…
E allora, camminare a testa bassa: questa è la prima contromisura.
Inoltre, chinato verso il suolo, l’occhio raccoglie umili ma importanti dettagli che sfuggono agli esibizionisti globali, troppo intenti a mettersi in evidenza e nel contempo annotare l’esibizionismo altrui.
Camminando piegato ho preso l’abitudine di apprezzare le donne a partire dai piedi. Li osservo disinteressandomi di tutto il resto, sono l’unico dettaglio che di esse conosco. Trascorro lunghi minuti ad osservare le aggraziate posture di piedi con la pelle liscia e curata come quella di un viso, elegantemente abbigliati con un sandalo egiziano o un’infradito, le unghie decorate di smalto brillante, vistoso, provocante, le caviglie evidenziate dall’oro di una cavigliera che ha la preziosa raffinatezza di un bracciale sul polso.
Anche questo è impicciarsi, beninteso, ma è proprio per evitarne la volgarità che mi limito ai piedi: la loro bellezza è priva di identità. Neppure moglie e marito saprebbero riconoscersi se gli fosse fornito come unico indizio l’immagine di un piede.
“È del suo coniuge?”
Chi lo sa! I volti possono essere memorizzati, le mani parzialmente riconosciute, ma i piedi, se non dotati di segni di distinzione particolari, rimangono troppo anonimi persino per l’osservatore più fisionomista. Io non sfuggo a tale limite, ho le medesime incapacità di qualunque altro essere umano, e ciononostante in un’occasione ho riconosciuto una donna soffermando lo sguardo sulle sue ciabattine da mare.
Mi disinteressai del busto e della faccia, incanalai la vista su polpacci e caviglie, non spiai mai al di sopra delle ginocchia, eppure compresi di conoscerla. Quel piede mi era noto, la sua carne pallida era già stata ammirata dalle mie pupille, carezzata dalle mie mani, persino baciata affettuosamente dalle mie labbra quando il piede era ancora un piedino di bimba.
Ero stato riconosciuto a mia volta, infatti quei piedi scapparono con movimenti repentini, ingoffiti dalla mancanza di un laccetto a sostegno dietro il tallone. Una delle due ciabattine rimase sull’asfalto. Mi piegai per raccoglierla e alzai inconsciamente lo sguardo mentre mi risollevavo. Ebbi la certezza che la donna fosse proprio lei. Se voleva fortemente evitare di incontrarmi aveva valide ragioni di imbarazzo, ma io mi lasciai contagiare dall’ormai dominante costume di voler sapere tutto delle vite altrui e volli indagare. In fondo si trattava di una vita che mi riguardava da vicino, una vita alla quale avevo contribuito. Fui giustamente punito scoprendo ciò che sarebbe stato assai meglio ignorare.
*
Il terzo, l’ultimo, era stato postato in mezzo alle recensioni di un film drammatico lodato dalla critica ma schifato dalla maggioranza degli spettatori, più o meno nello stesso orario in cui Doglia e i colleghi si avviavano al commissariato per la riunione straordinaria notturna in seguito all’attentato di Trastevere. Era un’analisi dei comportamenti sociali.
*
Sapere a proposito degli altri è talmente facile ormai!
Non occorre impegnarsi granché: ognuno racconta tutto di se stesso, pubblica sequenze fotografiche della sua giornata, scrive il pubblico diario della propria settimana, rivela ogni intimità fisica e psichica del corpo e della mente.
Qualche isolato anticonformista l’ha definita una follia, eppure c’è logica in questa follia.
Mettersi in mostra è la maniera contemporanea di sentirsi vivi. “Bisogna vivere la propria vita per raccontarla” diceva uno scrittore, e ormai siamo arrivati al punto in cui raccontarla – spingendosi in ogni più infimo e scabroso dettaglio – è persino più importante che viverla. Compiere un’azione senza darne notizia, senza avere l’illusione che gli altri possano assistervi come se fosse un film, ha il sapore dell’inutile.
Allora via, condivisione costante: webcam sempre accesa, profilo personale perennemente aggiornato su tutti i social networks:
“Questo sono io alle tre di notte mentre dormo; questo sono sempre io alle quattro e mezza mentre vado al bagno a pisciare…”
Questo tipo di atteggiamento si incastra bene con l’esasperata morbosità altrui in un rapporto che si capovolge di continuo: esibizionista della propria vita e voyeur di quelle altrui, ognuno è a turno maniaco e guardone.
Questa bipolarità costituisce la sublimazione della frustrazione originata dalla consapevolezza del proprio anonimato: l’incapacità di ottenere una visibilità pubblica e di essere braccato dai mass media causa un complesso di inferiorità, ci si sente mediocri. E allora ognuno si trasforma nel paparazzo della propria esistenza: costantemente auto-inquadrato dalla telecamera in casa, appena esce si insegue e si scatta foto nella veste di fotografo e cronista scandalistico di se stesso. É una forma di schizofrenia, una malattia, però più tollerabile rispetto allo stress depressivo causato dalla fama negata, dal senso di fallimento per il mancato successo come star della musica, della televisione, del cinema o di quant’altro abbia inventato l’umanità per creare una categoria di improbabili semidei adorati dalle folle non per le loro imprese, bensì per la banale capacità d’intrattenere, o persino per la loro mera apparenza esteriore seducente. Essere al centro dell’attenzione morbosa altrui dona l’illusione di una vita piena.
Io sono talmente morto, ormai, da non aver bisogno di sentirmi vivo, tanto meno in una forma di patetica autocelebrazione. È questa la mia salvezza: l’assenza di motivazioni per inseguire la parvenza della visibilità. Io vorrei il contrario: scomparire del tutto, diventare un invisibile fantasma.
Prima, però, voglio provare a concludere il proposito che mi sono imposto. È difficile stabilire sino a quale punto possa spingermi, sino a dove abbia senso arrivare. In effetti, arrivare dove? E cosa ha davvero senso in questo grottesco teatrino di esibizionisti guardoni?
*
Il poliziotto ritenne opportuno raccogliere informazioni sull’autore dei tre messaggi, fregandosene delle opinioni del ministro e del capo della polizia.


CONTINUA…

5 commenti:

  1. Ti avviso che le notifiche dei tuoi post mi sono apparse tutte soltanto oggi! @_@
    Blogger ogni tanto da i numeri! ^^

    Cmq immaginando che tutto ciò sia nel futuro, io credo che quel limite di età non verrà abbassato ma forse esteso (solo a livello ufficiale ovviamente) perchè il falso perbenismo regnerà sovrano nei secoli!

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    1. Lo so, infatti io ormai uso solo bloglovin per seguire i blog amici.
      Tutto quello che compare in questo racconto è esagerazione grottesca, non va preso alla lettera ;-)

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    2. è solo un parere.. lo so che non hai scritto predizioni in stile Nostradamus.. ^^

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  2. Provo simpatia per questi messaggi... forse a causa della mia incapacità di esprimermi, mi fa schifo l'esibizionismo...

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    1. In effetti è una cosa brutta, ma sempre più diffusa, quasi esaltata dai mass-media.

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