Nei giorni successivi i primi ricordi affiorarono nella mente di Georg,
ma senza un ordine o una qualsivoglia logica. Erano semmai immagini slegate fra
loro: scene viste dall’alto di sagome femminili che nuotavano in acque sporche
di carburante, zampilli d’acqua sollevata dalle mitragliere attorno ai colpi
sinuosi, fiammeggianti relitti dei velivoli schiantati in mare.
E poi situazioni più personali: l’abbraccio materno di una donna più grande
di lui, la visuale aerea di una città sepolta dall’acqua con la guglia di una
chiesa che emergeva come uno spuntone dalla superficie liquida… E poi altri
eventi confusi e indefiniti: bambini in lacrime, lunghe carovane di gente coi
propri bagagli in ordinate file su strade in salita, infiniti tornanti di marce
forzate verso alte montagne. E una voce che ripete piagnucolante “Potevano
smetterla di gettare petrolio in mare e farle contente!”
Sì, farle contente. In fondo le ‘femmine marine’ non chiedevano
granché. Ma senza il petrolio come si poteva continuare a muovere le automobili,
le navi, le industrie, in poche parole: il progresso?
“Come si sente oggi?”, gli domandava tutte le mattine il dottor Freud.
“Confuso”, rispondeva quasi sempre Georg.
Dopo il decimo giorno, il maresciallo Manfred Von Richtofen si rifiutò
di attendere oltre.
“Siamo in guerra, abbiamo bisogno di ogni uomo valido”.
“Capisco”.
“Oggi ti sottoporrai a una prova di volo insieme a me, ma ti premetto
per esperienze precedenti che in genere la capacità di pilotaggio rimane
invariata. Le puttane cancellano il bagaglio dei ricordi individuali, la
tua vicenda personale per così dire. Ma le acquisizioni della mente, tipo il
saper parlare una lingua straniera o suonare il pianoforte, normalmente non
viene intaccato. Dico bene, herr Freud?”
Il dottore confermò. Ma restava dell’opinione che il giovane era stato
toccato a livelli più profondi dall’esperienza di prigionia presso le sirene.
Qualcosa di invisibile nei recessi della sua anima si era irrimediabilmente
spezzato.
Il mattino dopo, all’alba, le squadriglie erano pronte a levarsi in
volo.
I Fokker del gruppo JASTA guidati dal ‘Barone Rosso’ Manfred Von
Richthofen, i Phonix austro-ungarici capitanati da Benno Von Fernbrugg i
Caudron G4 dei francesi, i Morane-Saulnier del gruppo misto, i Sopwith Camel
dell’Impero Britannico – ormai privo delle due isole principali e trasferitosi
in ciò che ancora emergeva del Canada – scaldavano i motori bruciando il sempre
più scarso combustibile a loro disposizione.
Le bandierine garrivano al vento sulla pista di decollo di Monaco di Baviera,
una delle poche grandi città dell’Europa meridionale salvatasi
dall’innalzamento delle acque grazie alla muraglia alpina. Data la sua
vicinanza col sempre più insaziabile Mar Mediterraneo, era la base di partenza
ideale per l’armata multinazionale volante che tentava di arrossare l’azzurro
marino col sangue delle puttane fino a spingerle alla rinuncia del loro
apocalittico progetto.
L’ufficiale diede il segnale. Le alate macchine di metallo forgiate
dalle industrie Siemens e Krupp si innalzarono in cielo, rotta sud-est,
obiettivo l’Arcipelago di Ulisse. Il nome era stato imposto dall’autoritaria
volontà di Von Richthofen, fermamente convinto della coincidenza fra le
omeriche sirene e le attuali nemiche del genere umano. La scelta aveva una
valenza simbolica: così come il grande navigatore Odisseo era sopravvissuto
alle perfide femmine marine, allo stesso modo vi sarebbero riusciti anche i
suoi millenari discendenti.
Georg Trakl era al comando del suo mezzo.
Le squadriglie avanzavano compatte nella luce cristallina del giorno,
sorvolando una quantità enorme d’acqua sotto la quale giacevano Venezia,
Spalato, Ragusa, Durazzo, Atene. Sporadiche cime montuose, ormai trasformate in
isole, emergevano come rare testimonianze delle antiche terre emerse.
Ma perché antiche? L’innalzamento delle acque aveva avuto inizio
in maniera graduale, ma costante, esattamente nove anni prima. Il primo gennaio
1910 il mondo era ancora identico a ciò che era stato per secoli. Poi era
cominciata la scomparsa lentissima delle coste, l’inevitabile abbandono delle
pianure trasformatesi in lagune e la permanente ridefinizione della terraferma
sugli atlanti geografici, operazione che diventava di giorno in giorno più
complicata per i cartografi. Le navi avevano di fatto smesso di navigare per
evitare di essere affondate dalle puttane che, a loro piacimento,
scatenavano improvvise ondate. Solo i dirigibili potevano trasportare merci da
un luogo all’altro senza timore alcuno di essere colpiti, poiché anche le
micidiali folgori delle sirene avevano una gittata di poche decine di metri,
inferiore all’altezza di volo degli zeppelin.
Così, per via aerea, si alimentavano in parte i commerci mondiali, ma
in misura assai inferiore alle necessità. Inoltre la sottrazione di migliaia di
ettari di terre coltivate, invase dall’avanzante acqua salata, aveva
drasticamente diminuito le risorse alimentari causando centinaia di migliaia di
morti per denutrizione, soprattutto nelle colonie in Africa e Asia. Ma la Società della Nazioni era
stata ferma e risoluta: l’umanità non si piega ai ricatti, tanto meno a quelli
di mostruose creature nascoste sotto l’apparenza di eteree beltà femminili, e
rinunciare al petrolio e ai suoi infiniti utilizzi come carburante era valutata
un’opzione inaccettabile. La risoluzione era stata approvata nel dicembre del
1911 e riconfermata più volte durante gli anni seguenti, l’ultima il 16 marzo
del 1919, nel corso della prima seduta tenutasi all’interno della nuova sede
della Società delle Nazioni, negli altopiani delle Montagne Rocciose.
“Oliate le mitragliere, mes amis!” urlò René-Paul Fonck non
appena cominciarono a scorgere i bianchi faraglioni che punteggiavano
l’Arcipelago di Ulisse.
“Si aprano le danze!” aggiunse Oswald
Boelcke, e un attimo dopo azionò lo speciale grammofono a prova di vibrazioni
che si era fatto montare sul suo triplano. Era stata un’idea di Lothar-Sigfried
Von Richthofen, forse meno carismatico di suo fratello Manfred ma dotato di una
fervente fantasia. Poiché le puttane
irretivano le menti degli uomini con la suadente melodia delle loro invisibili
voci, lui aveva proposto di dotare i velivoli di musica a tutto volume: una
difesa acustica contro l’insidiosa arma ipnotica.
In realtà l’ammaliamento sonoro
avveniva solo a brevi distanze: una sirena doveva trovarsi a pochi passi dalla
sua vittima per soggiogarla, e un pilota d’aereo non correva alcun rischio.
Tuttavia Lothar si era intestardito a sperimentare tale opzione, ed aveva
convinto anche i compagni di squadriglia. Solcare il cielo e le nuvole accompagnati
dalle immortali sinfonie di Wagner gli pareva un modo più consono di
predisporsi alla battaglia.
Nei pressi dell’Arcipelago le puttane disponevano di un’altra arma
assai più temibile, ovvero le violente scariche elettriche che si levavano verticalmente
rendendo assai pericolosa ogni planata verso il basso (per il Barone Rosso non
c’erano dubbi: erano le mitiche folgori di Zeus). Ma anche per queste minacce
ad alta tensione pareva che la musica fosse d’aiuto, forse perché stimolava
maggiormente l’eccitazione bellica dei piloti e la velocità dei loro riflessi.
Il triplano di Boelcke iniziò il
suo concerto. ‘La cavalcata delle Valchirie’ risuonò nell’etere mentre una
trentina di apparecchi volanti rombavano su nei cieli. I Sopwith Camel di
Mannock e Ball cominciarono a cabrare in direzioni opposte per poi
riavvicinarsi, un improvvisato balletto aereo ispirato dalle potenti note del’incomparabile
compositore tedesco.
“La prossima volta mettiamo
Verdi!” gridò scherzosamente Francesco Baracca, aviere italiano della
squadriglia mista.
“Capitano Paracca, la infito a non
contraddire le direttive musicali dell’alto comando!” replicò il Barone Rosso
facendosi una gran risata.
Il prototipo austro-ungarico
PKZ2, materializzazione concreta dell’antico progetto di Leonardo di innalzare
l’uomo in aria non tramite ali ma bensì a mezzo di un’elica a spirale che
doveva avvitarsi nell’atmosfera, sovrastava lo stormo metallico col suo
ronzante suono di pale in rapidissima rotazione circolare. Non sarebbe mai
stato in grado di compiere le iperboliche acrobazie concesse ai Fokker o ai
Phonix, ma aveva il vantaggio di poter restare fermo a mezz’aria, immobile
laddove fosse necessario, permettendo ai suoi piloti Godwin Von Brumowski e
Pavel Argeyev di calare un laccio, recuperare i compagni prigionieri delle puttane, e depositarli nel posto vuoto
del mitragliere in un altro velivolo. Il tutto mentre entrambi gli apparecchi –
ovviamente – erano in volo.
“I see bitches!” urlò violentemente McCudden. Nel
mare celeste si scorgevano minuscoli ma sinuose membra femminili che nuotavano
pochi metri sotto la superficie cristallina delle acque.
“Allez allez!” esultò Fonck.
“Tuez les putains!”
I Caudron G4 si tuffarono in
picchiata, imitati dai Fokker dei compagni tedeschi. I Morane-Saulnier in
dotazione al gruppo misto si allargarono sul lato opposto come da abitudine, allo
scopo di monitorare meglio l’area e mitragliare continuamente i faraglioni dai
quali poteva improvvisamente luccicare la sibilante e mortale potenza di una
scarica elettrica.
I metallici draghi volanti,
pilotati da uomini avvolti in tute di pelle nera, iniziarono a scaricare
pallottole sul mare e a lanciare, talvolta, minuscole bombe azionate dal
semplice strappo di una spoletta. Il tempo di affidarle alla forza di gravità,
il trascorrere dei pochi secondi necessari a percorrere la distanza verticale che
separava il velivolo dal pelo dell’acqua, e infine il boato che sollevava
colonne liquide e – si sperava – anche il morbido corpo di qualche puttana pronta per essere stroncata da
una raffica di proiettili.
Il Phonix di Georg Trakl non
aveva ancora sparato un solo colpo. La mente del giovane pilota era
orribilmente sconvolta. Gli era mancata la forza di rifiutare il volo –
impossibile argomentare contro la fermezza del maresciallo Von Richthofen – e
ora si trovava lì, nel bel mezzo del paradiso azzurro che ancora ricordava
perfettamente, più nitidamente dei tanti e confusi ricordi della sua vita
passata.
Il Barone Rosso aveva avuto
ragione riguardo la mancanza di problemi per la guida del mezzo: Georg teneva
la cloche e dirigeva il proprio apparecchio con una naturalezza straordinaria,
la stessa con cui mangiava, beveva e respirava. Non rammentava granché di se
stesso, della sua esistenza, degli eventi tragici che avevano caratterizzato la
storia dell’umanità per colpa delle sirene (la parola puttane proprio non riusciva a usarla), ma ricordava
parossisticamente i brevi attimi nella prigione che sembrava una reggia, la
compagnia della carceriera che parassitava le sue energie e tuttavia si elevava
ai suoi occhi come una luminosa dea.
Volava più in alto di tutti, al
di sopra dell’intera squadriglia. Le note di Wagner erano appena udibili,
sovrastate da incessanti spari di mitragliatrici a ripetizione, da esplosioni
violente di bombe sui faraglioni, dal crepitare di fulmini illogici che
partivano dal mare verso il cielo e non viceversa.
Georg, avvolto nella sua tuta
nera, il volto coperto dalla maschera con giganteschi occhi di vetro simili a
quelli di un moscone, si sentiva lacerato. Era diventato – anzi, era sempre
stato – uno di quei draghi volanti che aveva scatenato l’inferno in quella
giornata così cronologicamente vicina eppure tanto lontana.
Non riusciva a decidere cosa
fosse giusto fare. La sua indecisione si protrasse fino al momento in cui, dalla
sua inutile altitudine celeste, scorse qualcosa di famigliare...
Si gettò in picchiata in modo
deciso, traversando lo schieramento degli altri draghi volanti e quasi
sfiorando il Sopwith Camel di Albert Ball.
“È impazzito!” comprese l’aviere
inglese.
Il Phonix di Trakl scendeva verso
il mare simile a un sasso caduto da una gigantesca altezza, come se si volesse
schiantare su uno dei faraglioni sormontati dalle piccole costruzioni in
elegante marmo in cui venivano alloggiati i prigionieri umani delle sirene.
I dettagli di quella costruzione
dall’aria bizzarramente neoclassica diventavano sempre più nitidi, più
ravvicinati per gli occhi da insetto del pilota mascherato dietro il ripugnante
casco. L’impatto pareva imminente, ma all’ultimo secondo Georg virò in
direzione del mare, sorvolò l’appuntita isola e abbandonò il velivolo al suo
destino, lanciando nel contempo il proprio corpo nel vuoto.
Le sue membra cozzarono brutalmente
sulla dura roccia dello scoglio. Il dolore atroce di costole rotte e fratture
alla gamba destra non gli impedì di trascinarsi sino alla finestra sormontata
dal telaio semicircolare rivolta a nord, scavalcarla, ed entrare nella bianca e
dorata prigione.
Dal soffitto discendevano miriadi
di raggi di luce attraverso i numerosi fori creati dalla furia delle
mitragliere. Una sirena, sanguinante, era rannicchiata ad un angolo, il volto
misticheggiante nel tipico stato di rapimento che esse assumevano mentre
comunicavano telepaticamente fra loro.
Si atterrì, disgustata, quando
vide strisciare il corpo martoriato del terricolo avvolto nella sua lugubre
tuta nera.
Georg si strappò via il casco
mostrando il volto infantile e gli occhi miti. Sfilò anche un guanto e porse la
sua mano alla nemica.
“Succhia la mia energia” le
disse. “Ti sentirai meglio”.
La donna lo fissava incredula.
“Però ti prego” aggiunse Georg,
“Restituiscimi l’illusione. Sono io che te lo sto chiedendo”.
Le iridi chiare della sirena si
distesero. La sua bocca accennò un sorriso. Finalmente realizzò come poteva
essere accaduto che la sua amica Ariel si fosse intenerita nei confronti di un
nemico. Ma lei non poteva lasciarsi distrarre dal proprio dovere, e comunque
percepiva sin troppo bene che quel terricolo stava invocando la morte, però
trasfigurata nella dolcezza della magica ipnosi.
La donna gli parlò. Le sue dita
affusolate strinsero il polso del giovane.
Un attimo dopo – un attimo
lunghissimo – Georg riassaporò la beatitudine azzurra.
FINE
;_;
RispondiEliminaUn po' triste, sì. Ma almeno ti pare ben scritto?
RispondiEliminaSì sì, molto ben scritto! ;)
Eliminacopioincollo e ti faccio sapere appena riesco (magari anche pomeriggio!)
RispondiEliminaAttendo con molto piacere :-)
EliminaMi sembra non solo ben scritto ma anche molto commovente, potresti anche allungarlo un poco sai? Il racconto ne gioverebbe molto.
RispondiEliminaGrazie :-) L'ho steso quasi di getto in un paio di giorni, quindi qualche modifica ci sta sicuramente. Prima della scadenza del concorso proverò a migliorarlo.
EliminaEccomi. L'atmosfera è sicuramente quella giusta e penso risponda a tutti i requisiti richiesti da minuetto per il concorso. Per il resto ti scrivo in pvt.
RispondiEliminaVado subito ;-)
EliminaQuando c'è di mezzo Manfred divento di parte. Se poi Manfred picchia a mitragliare sirene con Wagner a tutto volume divento più di parte. Se aggiungi Freud che ci fa pensare che queste sirene possano essere l'allegoria di, uhmm, altro, ecco che il racconto acquista quello spessore che si perderebbe facilmente nella novelluccia steampunk. Per un istante ho visto - le ho proprio viste! - Mosca e San Pietroburgo sott'acqua come Atlantide.
RispondiEliminaBello, bello.
Buon concorso!
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
EliminaCi credi se ti dico che leggendo il tuo commento mi sento soddisfatto come se avessi vinto il concorso?
RispondiEliminaGià proprio bello, gradevole! L'unica pecca, (forse perchè dovevi attenerti ad un certo numero di vocaboli) è il finale "frettoloso" ... o forse sono io che volevo prolungare la lettura oltre la fine!
RispondiEliminaC'è un limite di 5000 parole, comunque è possibile che lo sottoponga a qualche revisione ;-)
EliminaEcco, dopo una settimana dalla lettura di questo racconto, riesco finalmente a commentare…
RispondiEliminaA parte i rimandi, sono rimasta affascinata dall'inizio del racconto, soprattutto dalla location.
Potessi avere io un palazzo sul mare da cui tuffarmi in mare da altezze mozzafiato!
Davvero piacevole. Una perfetta lettura estiva :-)
Grazie, ti auguro di averlo un giorno un palazzo del genere. Ovviamente senza biplani che lo mitragliano ;-P
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