lunedì 9 luglio 2012

L'arcipelago di Ulisse - seconda parte

Nei giorni successivi i primi ricordi affiorarono nella mente di Georg, ma senza un ordine o una qualsivoglia logica. Erano semmai immagini slegate fra loro: scene viste dall’alto di sagome femminili che nuotavano in acque sporche di carburante, zampilli d’acqua sollevata dalle mitragliere attorno ai colpi sinuosi, fiammeggianti relitti dei velivoli schiantati in mare.
E poi situazioni più personali: l’abbraccio materno di una donna più grande di lui, la visuale aerea di una città sepolta dall’acqua con la guglia di una chiesa che emergeva come uno spuntone dalla superficie liquida… E poi altri eventi confusi e indefiniti: bambini in lacrime, lunghe carovane di gente coi propri bagagli in ordinate file su strade in salita, infiniti tornanti di marce forzate verso alte montagne. E una voce che ripete piagnucolante “Potevano smetterla di gettare petrolio in mare e farle contente!”
Sì, farle contente. In fondo le ‘femmine marine’ non chiedevano granché. Ma senza il petrolio come si poteva continuare a muovere le automobili, le navi, le industrie, in poche parole: il progresso?
“Come si sente oggi?”, gli domandava tutte le mattine il dottor Freud.
“Confuso”, rispondeva quasi sempre Georg.
Dopo il decimo giorno, il maresciallo Manfred Von Richtofen si rifiutò di attendere oltre.
“Siamo in guerra, abbiamo bisogno di ogni uomo valido”.
“Capisco”.
“Oggi ti sottoporrai a una prova di volo insieme a me, ma ti premetto per esperienze precedenti che in genere la capacità di pilotaggio rimane invariata. Le puttane cancellano il bagaglio dei ricordi individuali, la tua vicenda personale per così dire. Ma le acquisizioni della mente, tipo il saper parlare una lingua straniera o suonare il pianoforte, normalmente non viene intaccato. Dico bene, herr Freud?”
Il dottore confermò. Ma restava dell’opinione che il giovane era stato toccato a livelli più profondi dall’esperienza di prigionia presso le sirene. Qualcosa di invisibile nei recessi della sua anima si era irrimediabilmente spezzato.

Il mattino dopo, all’alba, le squadriglie erano pronte a levarsi in volo.
I Fokker del gruppo JASTA guidati dal ‘Barone Rosso’ Manfred Von Richthofen, i Phonix austro-ungarici capitanati da Benno Von Fernbrugg i Caudron G4 dei francesi, i Morane-Saulnier del gruppo misto, i Sopwith Camel dell’Impero Britannico – ormai privo delle due isole principali e trasferitosi in ciò che ancora emergeva del Canada – scaldavano i motori bruciando il sempre più scarso combustibile a loro disposizione.
Le bandierine garrivano al vento sulla pista di decollo di Monaco di Baviera, una delle poche grandi città dell’Europa meridionale salvatasi dall’innalzamento delle acque grazie alla muraglia alpina. Data la sua vicinanza col sempre più insaziabile Mar Mediterraneo, era la base di partenza ideale per l’armata multinazionale volante che tentava di arrossare l’azzurro marino col sangue delle puttane fino a spingerle alla rinuncia del loro apocalittico progetto.
L’ufficiale diede il segnale. Le alate macchine di metallo forgiate dalle industrie Siemens e Krupp si innalzarono in cielo, rotta sud-est, obiettivo l’Arcipelago di Ulisse. Il nome era stato imposto dall’autoritaria volontà di Von Richthofen, fermamente convinto della coincidenza fra le omeriche sirene e le attuali nemiche del genere umano. La scelta aveva una valenza simbolica: così come il grande navigatore Odisseo era sopravvissuto alle perfide femmine marine, allo stesso modo vi sarebbero riusciti anche i suoi millenari discendenti.
Georg Trakl era al comando del suo mezzo.

Le squadriglie avanzavano compatte nella luce cristallina del giorno, sorvolando una quantità enorme d’acqua sotto la quale giacevano Venezia, Spalato, Ragusa, Durazzo, Atene. Sporadiche cime montuose, ormai trasformate in isole, emergevano come rare testimonianze delle antiche terre emerse.
Ma perché antiche? L’innalzamento delle acque aveva avuto inizio in maniera graduale, ma costante, esattamente nove anni prima. Il primo gennaio 1910 il mondo era ancora identico a ciò che era stato per secoli. Poi era cominciata la scomparsa lentissima delle coste, l’inevitabile abbandono delle pianure trasformatesi in lagune e la permanente ridefinizione della terraferma sugli atlanti geografici, operazione che diventava di giorno in giorno più complicata per i cartografi. Le navi avevano di fatto smesso di navigare per evitare di essere affondate dalle puttane che, a loro piacimento, scatenavano improvvise ondate. Solo i dirigibili potevano trasportare merci da un luogo all’altro senza timore alcuno di essere colpiti, poiché anche le micidiali folgori delle sirene avevano una gittata di poche decine di metri, inferiore all’altezza di volo degli zeppelin.
Così, per via aerea, si alimentavano in parte i commerci mondiali, ma in misura assai inferiore alle necessità. Inoltre la sottrazione di migliaia di ettari di terre coltivate, invase dall’avanzante acqua salata, aveva drasticamente diminuito le risorse alimentari causando centinaia di migliaia di morti per denutrizione, soprattutto nelle colonie in Africa e Asia. Ma la Società della Nazioni era stata ferma e risoluta: l’umanità non si piega ai ricatti, tanto meno a quelli di mostruose creature nascoste sotto l’apparenza di eteree beltà femminili, e rinunciare al petrolio e ai suoi infiniti utilizzi come carburante era valutata un’opzione inaccettabile. La risoluzione era stata approvata nel dicembre del 1911 e riconfermata più volte durante gli anni seguenti, l’ultima il 16 marzo del 1919, nel corso della prima seduta tenutasi all’interno della nuova sede della Società delle Nazioni, negli altopiani delle Montagne Rocciose.
“Oliate le mitragliere, mes amis!” urlò René-Paul Fonck non appena cominciarono a scorgere i bianchi faraglioni che punteggiavano l’Arcipelago di Ulisse.
“Si aprano le danze!” aggiunse Oswald Boelcke, e un attimo dopo azionò lo speciale grammofono a prova di vibrazioni che si era fatto montare sul suo triplano. Era stata un’idea di Lothar-Sigfried Von Richthofen, forse meno carismatico di suo fratello Manfred ma dotato di una fervente fantasia. Poiché le puttane irretivano le menti degli uomini con la suadente melodia delle loro invisibili voci, lui aveva proposto di dotare i velivoli di musica a tutto volume: una difesa acustica contro l’insidiosa arma ipnotica.
In realtà l’ammaliamento sonoro avveniva solo a brevi distanze: una sirena doveva trovarsi a pochi passi dalla sua vittima per soggiogarla, e un pilota d’aereo non correva alcun rischio. Tuttavia Lothar si era intestardito a sperimentare tale opzione, ed aveva convinto anche i compagni di squadriglia. Solcare il cielo e le nuvole accompagnati dalle immortali sinfonie di Wagner gli pareva un modo più consono di predisporsi alla battaglia.
Nei pressi dell’Arcipelago le puttane disponevano di un’altra arma assai più temibile, ovvero le violente scariche elettriche che si levavano verticalmente rendendo assai pericolosa ogni planata verso il basso (per il Barone Rosso non c’erano dubbi: erano le mitiche folgori di Zeus). Ma anche per queste minacce ad alta tensione pareva che la musica fosse d’aiuto, forse perché stimolava maggiormente l’eccitazione bellica dei piloti e la velocità dei loro riflessi.
Il triplano di Boelcke iniziò il suo concerto. ‘La cavalcata delle Valchirie’ risuonò nell’etere mentre una trentina di apparecchi volanti rombavano su nei cieli. I Sopwith Camel di Mannock e Ball cominciarono a cabrare in direzioni opposte per poi riavvicinarsi, un improvvisato balletto aereo ispirato dalle potenti note del’incomparabile compositore tedesco.
“La prossima volta mettiamo Verdi!” gridò scherzosamente Francesco Baracca, aviere italiano della squadriglia mista.
“Capitano Paracca, la infito a non contraddire le direttive musicali dell’alto comando!” replicò il Barone Rosso facendosi una gran risata.
Il prototipo austro-ungarico PKZ2, materializzazione concreta dell’antico progetto di Leonardo di innalzare l’uomo in aria non tramite ali ma bensì a mezzo di un’elica a spirale che doveva avvitarsi nell’atmosfera, sovrastava lo stormo metallico col suo ronzante suono di pale in rapidissima rotazione circolare. Non sarebbe mai stato in grado di compiere le iperboliche acrobazie concesse ai Fokker o ai Phonix, ma aveva il vantaggio di poter restare fermo a mezz’aria, immobile laddove fosse necessario, permettendo ai suoi piloti Godwin Von Brumowski e Pavel Argeyev di calare un laccio, recuperare i compagni prigionieri delle puttane, e depositarli nel posto vuoto del mitragliere in un altro velivolo. Il tutto mentre entrambi gli apparecchi – ovviamente – erano in volo.
“I see bitches!” urlò violentemente McCudden. Nel mare celeste si scorgevano minuscoli ma sinuose membra femminili che nuotavano pochi metri sotto la superficie cristallina delle acque.
“Allez allez!” esultò Fonck. “Tuez les putains!”
I Caudron G4 si tuffarono in picchiata, imitati dai Fokker dei compagni tedeschi. I Morane-Saulnier in dotazione al gruppo misto si allargarono sul lato opposto come da abitudine, allo scopo di monitorare meglio l’area e mitragliare continuamente i faraglioni dai quali poteva improvvisamente luccicare la sibilante e mortale potenza di una scarica elettrica.
I metallici draghi volanti, pilotati da uomini avvolti in tute di pelle nera, iniziarono a scaricare pallottole sul mare e a lanciare, talvolta, minuscole bombe azionate dal semplice strappo di una spoletta. Il tempo di affidarle alla forza di gravità, il trascorrere dei pochi secondi necessari a percorrere la distanza verticale che separava il velivolo dal pelo dell’acqua, e infine il boato che sollevava colonne liquide e – si sperava – anche il morbido corpo di qualche puttana pronta per essere stroncata da una raffica di proiettili.

Il Phonix di Georg Trakl non aveva ancora sparato un solo colpo. La mente del giovane pilota era orribilmente sconvolta. Gli era mancata la forza di rifiutare il volo – impossibile argomentare contro la fermezza del maresciallo Von Richthofen – e ora si trovava lì, nel bel mezzo del paradiso azzurro che ancora ricordava perfettamente, più nitidamente dei tanti e confusi ricordi della sua vita passata.
Il Barone Rosso aveva avuto ragione riguardo la mancanza di problemi per la guida del mezzo: Georg teneva la cloche e dirigeva il proprio apparecchio con una naturalezza straordinaria, la stessa con cui mangiava, beveva e respirava. Non rammentava granché di se stesso, della sua esistenza, degli eventi tragici che avevano caratterizzato la storia dell’umanità per colpa delle sirene (la parola puttane proprio non riusciva a usarla), ma ricordava parossisticamente i brevi attimi nella prigione che sembrava una reggia, la compagnia della carceriera che parassitava le sue energie e tuttavia si elevava ai suoi occhi come una luminosa dea.
Volava più in alto di tutti, al di sopra dell’intera squadriglia. Le note di Wagner erano appena udibili, sovrastate da incessanti spari di mitragliatrici a ripetizione, da esplosioni violente di bombe sui faraglioni, dal crepitare di fulmini illogici che partivano dal mare verso il cielo e non viceversa.
Georg, avvolto nella sua tuta nera, il volto coperto dalla maschera con giganteschi occhi di vetro simili a quelli di un moscone, si sentiva lacerato. Era diventato – anzi, era sempre stato – uno di quei draghi volanti che aveva scatenato l’inferno in quella giornata così cronologicamente vicina eppure tanto lontana.
Non riusciva a decidere cosa fosse giusto fare. La sua indecisione si protrasse fino al momento in cui, dalla sua inutile altitudine celeste, scorse qualcosa di famigliare...

Si gettò in picchiata in modo deciso, traversando lo schieramento degli altri draghi volanti e quasi sfiorando il Sopwith Camel di Albert Ball.
“È impazzito!” comprese l’aviere inglese.
Il Phonix di Trakl scendeva verso il mare simile a un sasso caduto da una gigantesca altezza, come se si volesse schiantare su uno dei faraglioni sormontati dalle piccole costruzioni in elegante marmo in cui venivano alloggiati i prigionieri umani delle sirene.
I dettagli di quella costruzione dall’aria bizzarramente neoclassica diventavano sempre più nitidi, più ravvicinati per gli occhi da insetto del pilota mascherato dietro il ripugnante casco. L’impatto pareva imminente, ma all’ultimo secondo Georg virò in direzione del mare, sorvolò l’appuntita isola e abbandonò il velivolo al suo destino, lanciando nel contempo il proprio corpo nel vuoto.

Le sue membra cozzarono brutalmente sulla dura roccia dello scoglio. Il dolore atroce di costole rotte e fratture alla gamba destra non gli impedì di trascinarsi sino alla finestra sormontata dal telaio semicircolare rivolta a nord, scavalcarla, ed entrare nella bianca e dorata prigione.
Dal soffitto discendevano miriadi di raggi di luce attraverso i numerosi fori creati dalla furia delle mitragliere. Una sirena, sanguinante, era rannicchiata ad un angolo, il volto misticheggiante nel tipico stato di rapimento che esse assumevano mentre comunicavano telepaticamente fra loro.
Si atterrì, disgustata, quando vide strisciare il corpo martoriato del terricolo avvolto nella sua lugubre tuta nera.
Georg si strappò via il casco mostrando il volto infantile e gli occhi miti. Sfilò anche un guanto e porse la sua mano alla nemica.
“Succhia la mia energia” le disse. “Ti sentirai meglio”.
La donna lo fissava incredula.
“Però ti prego” aggiunse Georg, “Restituiscimi l’illusione. Sono io che te lo sto chiedendo”.
Le iridi chiare della sirena si distesero. La sua bocca accennò un sorriso. Finalmente realizzò come poteva essere accaduto che la sua amica Ariel si fosse intenerita nei confronti di un nemico. Ma lei non poteva lasciarsi distrarre dal proprio dovere, e comunque percepiva sin troppo bene che quel terricolo stava invocando la morte, però trasfigurata nella dolcezza della magica ipnosi.
La donna gli parlò. Le sue dita affusolate strinsero il polso del giovane.
Un attimo dopo – un attimo lunghissimo – Georg riassaporò la beatitudine azzurra.

FINE

16 commenti:

  1. Un po' triste, sì. Ma almeno ti pare ben scritto?

    RispondiElimina
  2. copioincollo e ti faccio sapere appena riesco (magari anche pomeriggio!)

    RispondiElimina
  3. Mi sembra non solo ben scritto ma anche molto commovente, potresti anche allungarlo un poco sai? Il racconto ne gioverebbe molto.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie :-) L'ho steso quasi di getto in un paio di giorni, quindi qualche modifica ci sta sicuramente. Prima della scadenza del concorso proverò a migliorarlo.

      Elimina
  4. Eccomi. L'atmosfera è sicuramente quella giusta e penso risponda a tutti i requisiti richiesti da minuetto per il concorso. Per il resto ti scrivo in pvt.

    RispondiElimina
  5. Quando c'è di mezzo Manfred divento di parte. Se poi Manfred picchia a mitragliare sirene con Wagner a tutto volume divento più di parte. Se aggiungi Freud che ci fa pensare che queste sirene possano essere l'allegoria di, uhmm, altro, ecco che il racconto acquista quello spessore che si perderebbe facilmente nella novelluccia steampunk. Per un istante ho visto - le ho proprio viste! - Mosca e San Pietroburgo sott'acqua come Atlantide.
    Bello, bello.
    Buon concorso!

    RispondiElimina
  6. Ci credi se ti dico che leggendo il tuo commento mi sento soddisfatto come se avessi vinto il concorso?

    RispondiElimina
  7. Già proprio bello, gradevole! L'unica pecca, (forse perchè dovevi attenerti ad un certo numero di vocaboli) è il finale "frettoloso" ... o forse sono io che volevo prolungare la lettura oltre la fine!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. C'è un limite di 5000 parole, comunque è possibile che lo sottoponga a qualche revisione ;-)

      Elimina
  8. Ecco, dopo una settimana dalla lettura di questo racconto, riesco finalmente a commentare…
    A parte i rimandi, sono rimasta affascinata dall'inizio del racconto, soprattutto dalla location.
    Potessi avere io un palazzo sul mare da cui tuffarmi in mare da altezze mozzafiato!

    Davvero piacevole. Una perfetta lettura estiva :-)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie, ti auguro di averlo un giorno un palazzo del genere. Ovviamente senza biplani che lo mitragliano ;-P

      Elimina