"La vita é altrove" di Kundera é un altro di quei libri che mi ha lasciato addosso una traccia profonda.
Per chi non conoscesse la trama: Jaromil é un giovane nato in Cecoslovacchia nel dopoguerra che cresce "asfissiato" dalle premure morbose di una madre ossessiva. Isolato dai suoi coetanei, incapace di vivere la vita reale, sfoga la sua incapacità scrivendo poesie e immaginando un alter-ego che vive in un contesto quasi fantastico, Xavier.
I suoi sogni idealistici di una "realtà" migliore trovano un inevitabile speranza nel comunismo, che si presenta (siamo nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale) come una forza rivoluzionaria capace di cambiare il mondo. La sua adesione al comunismo é quindi la speranza in un'utopia, senza rendersi conto che la "realtà" a lui non piace per la sua personalissima incapacità di viverla, e non per colpa dei sistemi politici vigenti.
Aderendo al comunismo si trasforma in un poeta "di regime" che scrive facili poesiole secondo i canoni del "realismo socialista", ma nella vita privata continua ad accumulare delusioni e frustrazioni, soprattutto in campo sentimentale. Quando finalmente incontra una ragazza che gli si concede e probabilmente lo ama, lui tuttavia continua a vivere "poeticamente" la propria vita e la relazione con questa ragazza, cercando connotazioni che diano "drammaticità" da finzione letteraria alla sua banale quotidianità. In nome della "fedeltà" alla causa comunista finisce con denunciare il fratello della sua amante dopo che lei gli ha accennato (quasi certamente solo per trovare una scusa plausibile per giustificare un ritardo) che stava meditando di fuggire in occidente.
Nella parte finale del romanzo Jaromil si sente ormai forte e "uomo", ma viene nuovamente umiliato dalla realtà e dalla sua incapacità. Una brutta infreddatura causa la sua morte (patetica e per niente eroica) a soli 20 anni.
Il romanzo solleva una gran quantità di temi, anche legati alla realtà sociale e politica della Cecoslovacchia degli anni '50. Il tema specifico che più mi ha interessato (pur non essendo l'unico affrontato) é la scelta di fare attività letteraria come possibile "fuga" dalla realtà. Nel corso della narrazione Kundera traccia spesso dei paralleli tra Jaromil e poeti famosi, talvolta in modo abbastanza discutibile (Baudelaire o Rimbaud ad esempio sembrano decisamente fuori luogo), ma resta il nodo centrale: l'idealismo dell'arte, della letteratura o anche delle ideologie politiche (e nel caso del comunismo é opportuno ricordare che nella prima metà nel XX secolo aveva creato delle aspettative enormi con milioni di persone sinceramente convinte della possibilità di costruire un mondo migliore) ridotti a banali valvole di sfogo.
Essendo uno che (sia pure da dilettante) ama scrivere, mi sono sentito costretto a chiedermi se davvero la letteratura non sia solo una forma di evasione, anziché qualcosa di altamente elevato. Per capirci, si insinua il dubbio che tra lo scrivere un capolavoro della letteratura e lo sfogarsi su un diario per una delusione, alla fine la differenza sia ben poca... La letteratura (o almeno un certo modo di vivere la letteratura) come rifugio per vivere una realtà alternativa; la letteratura, quindi, non tanto diversa da un videogioco o dal guardare una soap opera in televisione...
E' una riflessione che non ho ancora completamente risolto, ma sicuramente continuerò a scrivere, almeno fino a quando sentirò la necessità di farlo.
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