venerdì 23 marzo 2012

Vapore 1910 - parte sei

6

Congedato l’avvocato, Orlando invitò Alfredo a seguirlo. Purtroppo Orlando era giunto nel luogo della materializzazione proprio tramite il mezzo dell’avvocato, quindi non disponeva di una vettura propria per percorrere la strada a ritroso e intanto il tempo stringeva, cosicché il Conte Deverò dovette accettare l’opzione di raggiungere casa Clapasson tramite un omnibus.
Si lasciò sfuggire qualche smorfia schifata mentre le eleganti suole delle sue scarpe si appiccicavano allo spesso strato di sputi, sporcizia e polvere che si addensava sul pavimento del mezzo di trasporto. Non era pieno al completo, pur tuttavia la quantità di gente al suo interno era notevole, e l’aria era impregnata di lezzo alcolico proveniente da alcuni operai che avevano festeggiato la domenica con qualche ampia bevuta, oltre che dal sudore penetrante di alcune donne piuttosto ambigue sia per il loro abbigliamento che per i loro sguardi non proprio innocenti.
Mentre transitavano in Piazza Castello, Deverò notò che tutti i nuovisti di Torino (ovvero i cinque teppisti coi quali aveva incrociato i pugni il giorno prima) manifestavano rumorosamente, urlando il proprio sdegno e dolore per “il vigliacco assassinio” del loro beneamato capo.
Alfredo non poté fare a meno di riflettere sui vantaggi postumi che quella morte improvvisa donava a Ernesto Celzani. Probabilmente sarebbe finito su qualche antologia letteraria futura, ricordato come
Fondatore del movimento di avanguardia chiamato Nuovismo, prematuramente scomparso prima di poter trasformare in opere compiute l’impeto creativo della sua esuberante gioventù.
Se avesse vissuto sino alla vecchiaia, la mediocrità delle sue poesiole lo avrebbe relegato nell’oblio riservato ai letterati privi di talento, mentre la morte illuminava di una possibile luce le sue future poesie che ormai non sarebbero state più composte ma – proprio per questo – potevano essere presunte, sognate, immaginate, con tutto il fascino ambiguo della creazione potenziale ma irrealizzata.
Insomma, un decesso provvidenziale per le ambizioni di Celzani. Tanto bastava per far assolvere l’assassino e renderlo persino meritevole nei confronti della vittima. Ma l’ispettore Garrone non poteva certo soffermarsi su considerazioni di tale natura. Lui, rappresentante della legge, era tenuto a seguire l’effimera logica delle contingenze materiali, e dal suo punto di vista una vita soppressa restava inesorabilmente un crimine, comunque lo si esaminasse.
Tali considerazioni fecero sì che Deverò non si sentisse più amareggiato all’idea di non essere stato lui l’omicida. L’uccisore di Celzani aveva reso uno splendido servizio all’immeritata gloria postuma del nuovista, e il Conte non aveva certo voglia di accollarsi quello spiacevole merito.
Ad accrescere il suo buonumore, giunse anche una piacevole visione: sul lato nord di Piazza Castello sopraggiungeva un reparto di cavalleggeri del Regio Esercito, certamente inviato per disperdere i manifestanti di cui si era sovrastimato il numero. Quantunque sia eticamente riprovevole godere delle disgrazie altrui, Deverò sorrise all’idea dei baldanzosi nuovisti presi a calci da antiquati cavalli. Sì, non vi era dubbio: il movimento nuovista era ufficialmente terminato.
(Qualcuno di voi lo starà già pensando, qualcun altro lo sussurrerà sotto voce… Beh, non preoccupatevi, vi tolgo io dall’imbarazzo: se ritenete che il Conte Alfredo Maria Deverò sia un incommensurabile salaud, avete perfettamente ragione).
“Perché Guglielmo non si è presentato e ti ha delegato al suo posto?”, chiese improvvisamente a Orlando.
“Perché… ne parliamo a casa”.

La residenza torinese dei fratelli Clapasson era assai signorile, quantunque non all’altezza del quartierino di Deverò.
Guglielmo stava affacciato alla finestra, pensieroso.
“Allora mio caro amico, che mi dici? Quanti colpi ci sono voluti per far fuori il bestione?”
Il tono di Alfredo era scherzoso, ma la risposta di Guglielmo non lo fu affatto.
“Sono innocente”.
“Lo sapevo bene, non ne ho mai dubitato. Anzi, è abbastanza evidente che si tratta di un ignobile complotto alle tue spalle” gli disse Deverò accennando alla propria ipotesi che l’assassino avesse voluto incastrarlo.
“Chiunque sia stato, l’ha pensata bene”, commentò Guglielmo senza sentirsi sollevato.
“Ma si può sapere che hai? Sei innocente, quindi perché sei così spaventato?”
Il giovane ritornò alla finestra. Non riusciva a guardare negli occhi suo fratello, che dopo un lungo, imbarazzato silenzio parlò al suo posto.
“È spaventato perché non ha un alibi, questo idiota! O meglio: lo avrebbe pure, ma guai a lui se si permette di utilizzarlo!” gridò Orlando.
“Non ti preoccupare”, rispose Guglielmo. “Sai bene che non trascinerei mai quella persona nel fango”.
“Ah, certo! La tua discrezione è solo per difendere quella persona, non l’onore del tuo cognome e la rispettabilità della tua famiglia!”
Deverò assunse un’aria assorta. Nessuno dei due fratelli stava parlando esplicitamente, ma lui sapeva bene a cosa si riferivano. Cosa aveva gridato Celzani quando era entrato come un gorilla infuriato al Caffè San Paolo?
Un pederasta. Guglielmo Clapasson. É qui?
Curioso no? Detto da Celzani era solo uno stupido insulto, degno di uno stupidissimo scimmione che si atteggiava ad artista di avanguardia con metodi da teppista. Invece, inconsapevolmente, stava affermando una verità.
Guglielmo era un bravissimo giovane, ma aveva avuto la sfortuna di nascere in una nazione dove l’uomo doveva per forza essere attirato dalle donne, altrimenti dava più scandalo di un ladro o di un assassino. Era appunto il caso che si stava delineando: meglio passare per omicida rinunciando al proprio alibi, piuttosto che avere un testimone a favore e infangare il nome dei Clapasson con l’orrido marchio della promiscuità sessuale fra maschi.
“Scusatemi se mi intrometto” intervenne Alfredo con un tono insolitamente preoccupato, “Ma Guglielmo non può finire in carcere per una colpa non commessa”.
“Se l’avvocato sa gestire bene la causa” rispose quest’ultimo “al massimo mi daranno dieci anni”. Aveva l’aria di un affarista che fa un calcolo rassegnato sulla quantità di denaro che sta per perdere a causa di un investimento infruttuoso. “È un sacrificio fattibile”.
Per un attimo Deverò perdette la sua imperturbabile flemma e iniziò a gridare come un comune mortale.
“E se invece te ne danno venti? E poi, lo sai cosa significa rinunciare a dieci o quindici anni della tua vita? Ti rendi conto di ciò che stai dicendo?”
Con sguardo e voce glaciale, Orlando Clapasson lo invitò a desistere da tali consigli.
“Ti conosco da anni Alfredo, e le nostre famiglie sono sempre state legate da amicizia. Proprio in nome di tale amicizia ti chiedo di non intrometterti in questa vicenda. Nostro padre è malato di cuore proprio a causa delle inevitabili chiacchiere che circolano su Guglielmo, e si vergogna a farsi vedere in società. Nostra madre organizza i suoi salotti il martedì, invitando solo pochissime e selezionate signore che evitano di porre quesiti imbarazzanti. Avrebbe enorme piacere ad ospitare la Marchesa Karoly o la Contessa Artaud, però poi non potrebbe sottrarsi a certe fastidiose domande… Se la cosa finisse addirittura sui giornali, penso che morirebbero entrambi”.
“Ma non avete qualche testimone di comodo che possa coprirlo?” consigliò Deverò, che in taluni casi non si poneva alcuno scrupolo morale.
“Io ero a teatro, papà e mamma si trovavano a Moncalieri. Molte persone ci hanno visto, se sostenessimo che Guglielmo era con noi verremmo sbugiardati in un attimo e peggioreremmo la situazione. Quanto alla possibilità di pagare qualcuno per mentire a suo favore, mi pare alquanto rischioso”.
“Va bene”, cedette Deverò. “Però ti chiedo di poter parlare in privato con Guglielmo. Solo due parole tra amici”.
Orlando acconsentì di malavoglia. Guglielmo e Alfredo restarono soli.
(continua)

2 commenti:

  1. Attendo la fine per leggere, ma quando finirà? Tra poco penso che lascerò perdere e lo inizierò cmq xD

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